Era il primo pomeriggio del 2 maggio 2019 e Beppe Caccia, comandante della nave Mare Jonio, scaldava i motori, pronto a puntare la prua a sud. “Abbiamo ricevuto la segnalazione di due barche in pericolo, dirette verso Lampedusa e ci siamo resi disponibili per dirigerci sul posto”, aveva detto Caccia a nome dell’equipaggio di Mediterranea – Saving Humans, l’organizzazione che gestisce la nave di soccorso.
Poche ore dopo, i quasi duecento passeggeri erano già stati trasferiti dalle imbarcazioni, con cui avevano preso il mare la notte precedente dalla costa libica, alla Sabratha 654, una motovedetta donata dall’Italia alla Guardia costiera di Tripoli nel 2010 e ri-equipaggiata nel 2017. In meno di 24 ore il tentativo di scappare dalla Tripolitania in guerra si era trasformato in un nuovo incubo: allo sbarco sarebbe infatti seguito un nuovo periodo di detenzione, senza scadenza apparente, in condizioni di violenza e ricatto.
Ciò che i naufraghi, tornati ad essere prigionieri, non sapevano o forse solo intuivano, era quello che succedeva chilometri sopra le loro teste, in un cielo sempre più affollato e minaccioso per chi sperava di abbandonare un paese in guerra.
Colibrì, un biposto noleggiato dalla ONG francese Pilotes Volontaires per sostenere gli sforzi di soccorso nel Mediterraneo, aveva sorvolato le due imbarcazioni e comunicato via radio con Seagull19, un aereo delle forze armate del Lussemburgo, presente sul posto e parte della missione navale europea Eunavfor Med – Sophia, lanciata nel 2016 con l’obiettivo di ‘distruggere il modello di affari dei trafficanti nel Mediterraneo’ e formare i guardiacoste libici.
Stazionati sopra la seconda imbarcazione, i piloti di Colibrì avevano contattato più volte i colleghi lussemburghesi, per capire quale nave avrebbe operato il soccorso.
Colibrì: siete dunque voi a coordinare sul posto l’operazione? Stop.
Seagull19: Più o meno, si.
Colibrì: A chi avete segnalato questo target? Stop.
Seagull19: Purtroppo non possiamo darvi questa informazione.
Colibrì: Potete confermarci che state coordinandovi direttamente con una nave da pattugliamento libica? Stop.
Seagull19: affermativo.
Il MRCC – il centro di coordinamento dei soccorsi italiano, con sede a Roma – aveva nel frattempo comunicato all’equipaggio della nave Mare Jonio, in quel momento molto più a nord, che il salvataggio delle due imbarcazioni era coordinato da assetti libici, trovandosi le stesse all’interno della regione di ricerca e salvataggio di Tripoli.
Le ricostruzioni di Sea-Watch, Alarm Phone, Mediterranea – Saving Humans e Borderline Europe, basate anche su una serie di comunicazioni radio e di immagini, hanno messo in luce però altro, come già suggerito dai piloti lussemburghesi. Ovvero che era stata proprio la Seagull19, e forse prima ancora il più grande aeroplano Beech B200 delle forze armate maltesi, intervenuto in loco, a fornire ai libici la posizione dei barchini, uno dei quali, con il motore ancora funzionante, aveva cercato inutilmente di sfuggire all’intercettazione da parte della Sabratha 654.
In un rapporto diffuso il 17 giugno, le quattro organizzazioni offrono dettagli inediti su questo e altri due casi di natanti partiti dalla Libia e intercettati da assetti marittimi di Tripoli, con il supporto determinante di mezzi aerei europei.
“Si tratta di una forma di sorveglianza aerea che ha portato alla cattura di decine di migliaia di persone, rispedite in una zona di guerra nel corso di operazioni illegali, fatte dagli stati ma assimilabili al traffico di persone”, spiega Bérénice Gaudin, esperta legale della ONG Sea-Watch.
Il controllo remoto dei piloti europei
I tre incidenti descritti in ‘Remote control’, il rapporto diffuso dalle ONG europee, sono avvenuti tra aprile e maggio 2019, nel mezzo di una stagione bollente, segnata dalla virulenta propaganda anti-immigrazione dell’ex-ministro degli interni italiano, Matteo Salvini, e da una serie di attacchi all’operato delle organizzazioni non governative nel Mediterraneo centrale.
L’uso di mezzi aerei europei per favorire l’intercettazione e il ritorno di chi tentava di scappare dalla Libia via mare non si è limitato però alla primavera dello scorso anno, si indica nel rapporto. “L’inizio del 2019 segna solo l’accelerazione di una pratica che si è poi consolidata nei mesi successivi, diventando una componente centrale dell’azione europea nel Mediterraneo, con l’obiettivo di realizzare respingimenti di massa per interposta persona”, sostiente Lucia Gennari, avvocata e membro di Mediterranea – Saving Humans.
Gli aerei delle forze di sicurezza europee, che si tratti di assetti italiani o maltesi, di velivoli della missione Eunavfor Med o dell’Agenzia per il controllo delle frontiere dell’Unione, Frontex, sarebbero insomma la punta avanzata di politiche comunitarie volte a ridurre al minimo l’arrivo di cittadini stranieri sulle coste italiane. Una strategia affinata negli ultimi anni e diventata, spiega Gennari, “ancora più visibile e evidente durante la pandemia di coronavirus, usata come scusa per scoraggiare gli attori umanitari e accrescere il supporto alla Libia”.
Gli eventi descritti nel rapporto illustrano bene una delle fasi di un disegno più ampio e ancora in divenire, ovvero la creazione di una zona di ricerca e soccorso libica, idea partorita a Bruxelles e cresciuta, in gran parte, tra Roma, La Valletta e Tripoli.
Con il lancio, nel 2015, della missione militare europea Eunavfor Med – Sophia, a guida italiana, si avvia una complessa attività di supporto e riabilitazione della Guardia Costiera libica, che nei fatti è un insieme di mezzi navali e uomini appartenenti a diverse fazioni dell’esercito e a milizie legate al governo di accordo nazionale di Fayez Al-Sarraj.
A sostenere questo rinnovato guardiano delle coste europee sarà soprattutto il governo italiano, tramite un maxi-finanziamento dell’UE – 90 millioni di euro – gestito dal Viminale e destinato in parte consistente proprio ai guardiacoste, ma anche con fondi propri, rivolti soprattutto alla rimessa in opera di quattro motovedette, tra cui la Sabratha 654. Partner cruciale è l’agenzia Frontex.
Nel 2017, è proprio l’Italia a presentare all’Organizzazione Marittima Internazionale, l’IMO, uno studio di fattibilità per la realizzazione di un centro di coordinamento per i soccorsi libico, preludio all’istituzione di una zona di soccorso libica, fino ad allora inesistente. Mentre dal 2016 la missione navale di Frontex ritira i suoi mezzi dalle acque internazionali, dove avveniva la maggior parte dei soccorsi, seguita nel 2018 da Eunavfor Med – Sophia, che pure aveva tratto in salvo e fatto sbarcare in Italia oltre 30mila persone, nell’estate del 2018 Tripoli annuncia la creazione di una zona di ricerca e salvataggio libica, chiedendo all’IMO di registrarla.
Seppur sostenute dalla Marina militare italiana, che dal 2018 ha ormeggiato a Tripoli la nave da trasporto Caprera, utilizzata secondo diverse ricostruzioni come base logistica per le rinnovate operazioni di soccorso libiche, le motovedette del paese nord africano non hanno però una capacità di pattugliamento e controllo della costa sufficiente ad evitare le partenze, da zone in cui agiscono per altro diverse milizie, talvolta in competizione.
Ecco quindi che intervengono gli aerei europei a supportare direttamente l’intervento delle navi libiche, come nel caso appena descritto, o a garantire che altri attori non effettuino il soccorso, pur se più vicini, come negli altri due incidenti riferiti del rapporto, in cui aeroplani di Eunavformed – Sophia e un elicottero della Marina militare italiana, partito dalla nave Comandante Bettica, avrebbero pericolosamente ritardato i soccorsi, fino all’arrivo dei guardiacoste libici.
Il monitoraggio dei piloti umanitari
A 32 anni compiuti da poco, Manos Radisoglou è uno dei piloti che negli ultimi quattro anni hanno osservato il Mediterraneo dall’alto, alla ricerca di imbarcazioni in difficoltà. “Mi sono avvicinato nel 2016 alla Humanitarian Pilot Iniziative, ong svizzera, ma oggi ci dedico quasi tutto il mio tempo, seppur da volontario”, spiega per telefono.
Dall’alto del suo biplano o da terra, dove garantisce approvvigionamenti e autorizzazioni, coordinando ormai gli altri quindici piloti volontari dell’organizzazione, Radisoglou ha visto cambiare radicalmente l’apparato dei soccorsi nel tratto di mare più letale del pianeta.
“Nel 2017, alle mie prime missioni, c’erano fino a 14 navi di ONG attive nella zona di soccorso e noi aiutavamo a coordinare gli interventi, si arrivava a salvare mille persone in una giornata”, racconta.
Dal 2018, il canale di Sicilia si spopola e “con gli assetti europei arretrati e le ONG ostacolate in diversi modi, non ci restava che documentare l’assenza di soccorsi e lamentarci con chi avrebbe dovuto garantirli: spesso potevamo solo osservare le intercettazioni operate dai libici, fino a 100 miglia nautiche dalla loro costa, in piene acque internazionali e con il sostegno di mezzi europei”, prosegue.
Il loro lavoro e quello di altre organizzazioni attive nel soccorso, ha permesso di mettere in luce pratiche europee che, secondo l’avvocata Lucia Gennari, rappresentano una “chiara violazione del diritto del mare, che impone lo sbarco in un luogo sicuro, che evidentemente non può essere la Libia, e di una serie di normative internazionali, a partire dalla Convenzione di Ginevra che vieta il respingimento di rifugiati verso paesi in cui la loro vita e libertà sono in pericolo”.
La difficoltà di ricorrere a tribunali nazionali o europei, quando la vittima della violazione esce dalla visuale degli aerei militari per scomparire nei centri di detenzione libici, non impedisce di mettere in discussione le politiche di Bruxelles, spiega Gennari, “cercando di dimostrare il rapporto di causalità tra le azioni dell’UE o di stati membri e le intercettazioni effettuate dalle motovedette libiche”.
Il Global Legal Action Network, organizzazione inglese che compie azioni legali in casi di violazioni dei diritti umani dovuti a stati o privati, ha presentato ad esempio un reclamo al Comitato per i diritti umani dell’Onu sul caso di un respingimento effettuato nel 2018 da una nave privata, la Nivin, in seguito all’intervento di un aereo di Eunavfor Med, ancora in fase di valutazione. All’inizio giugno ha chiesto invece al Parlamento Europeo, tramite il meccanismo della petizione, di avviare un’indagine sull’uso dei fondi per lo sviluppo per il supporto alla Guardia costiera libica, in assenza della valutazione d’impatto sui diritti umani, obbligatoria ai sensi della legislazione comunitaria.
Le intercettazioni, così come i voli di ricognizione europei, che per le ong operano un vero e proprio coordinamento, sono proseguite senza sosta negli ultimi mesi, nonostante la richiesta di fermarle da parte dell’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite.
Sono 4.379 le persone riportate sulla costa libica tra gennaio e il 15 giugno di quest’anno, mentre in appena un mese e mezzo, tra inizio maggio e metà giugno, i radar aerei del Mediterraneo centrale hanno registrato oltre 40 missioni di mezzi noleggiati da Frontex, e altrettanti voli militari maltesi, italiani e della rinnovata missione Eunavfor Med, quasi sempre in coincidenza con segnalazioni di imbarcazioni in pericolo, partite da Libia o Tunisia.
Le due imbarcazioni di ong – la Mare Jonio e la Sea-Watch 3 – che sono tornate a solcare le onde nelle ultime settimane, accompagnate dall’alto dagli aerei della Humanitarian Pilot Initiative, navigheranno dunque in un mare in cui saranno mal viste dalle autorità europee e sognate da chi si affida al mare in cerca di sicurezza.
In copertina: remote control map