Amal (nome di fantasia) è atterrato in Italia il giorno di Natale con un volo di linea da Tripoli, una via sicura che dovrebbe essere accessibile a tutti coloro che richiedono asilo in un paese lontano da quello d’origine. Quella di Amal, giovane sudanese, è la storia di una lunga battaglia legale che ha smascherato le pratiche illegittime di respingimento nel Mediterraneo, portandolo da luoghi non sicuri come il Sudan e la Libia fino agli alloggi di Baobab Experience, a Roma.
I fatti. Tra il 30 giugno e il 2 luglio 2018, Matteo Salvini è a capo del Ministero dell’Interno. Nelle acque davanti a Tripoli, una barca carica di persone in cerca di soccorso viene raggiunta dalla motovedetta libica Zuwara. Quando arriva, il gommone è già affondato, permettendo solo ad Amal e ad altre 17 persone — su 150 partite su quell’imbarcazione — di sopravvivere. La motovedetta carica i naufraghi ma va in avaria. Né la vicina nave della Marina Militare italiana Caio Duilio, in quel momento in mare, né la nave Caprera, sempre battente bandiera italiana e attraccata al porto di Tripoli, intervengono. L’Italia affida invece il delicato incarico di soccorrere i sopravvissuti alla nave Asso 29 della Augusta Offshore, che in quel momento viaggiava verso una piattaforma petrolifera. L’Asso 29 fa salire a bordo i naufraghi e, su istruzioni italiane, li riporta in Libia. Qui finiscono nei centri di Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar e Gharyan, luoghi di violenze, torture e morte. Amal è rimasto lì sei anni, fino al 25 dicembre 2024.
Il giovane riesce finalmente ad arrivare a Roma il giorno in cui in Occidente si celebra il Natale, grazie al lavoro di Asgi, Josi&Loni Project e Baobab Experience, che hanno aperto il caso contro il respingimento collettivo illegittimo avvenuto in quel lontano 2018. Il procedimento giudiziario è risultato vittorioso, stabilendo che Amal ha il diritto di chiedere asilo in Italia. Il Tribunale di Roma ha condannato i Ministeri della Difesa e dei Trasporti, la Presidenza del Consiglio, il capitano e l’armatore della nave Asso 29 quindi per il respingimento del giovane, in altre parole di averlo riportato indietro, in un luogo dove quel diritto d’asilo non può essere esercitato. Questi ora dovranno risarcire 15.000 euro ai naufraghi sopravvissuti al naufragio e al respingimento in Libia.
“Senza la fondamentale attività di ricostruzione e documentazione dei fatti del JL Project e dei suoi attivisti non sarebbe stato possibile fare giustizia. Questo ci ricorda come i diritti delle persone, soprattutto nel Mediterraneo, necessitino di quella fondamentale attività di monitoraggio e documentazione che oggi le autorità italiane vorrebbero ostacolare anche attraverso la criminalizzazione delle organizzazioni umanitarie che operano i soccorsi in mare”, aggiungono Giulia Crescini e Ginevra Maccarrone del collegio difensivo. Ad attenderlo all’aeroporto di Fiumicino vi erano alcuni tra i tanti esperti di immigrazione che hanno seguito il caso. “Ringrazio coloro che in questi anni mi hanno dato speranza, mi hanno detto che ce l’avremmo fatta, che la verità sarebbe venuta a galla e che sarei un giorno giunto sano e salvo in Italia — confida il giovane a OpenMigration —. Ho pregato tanto Dio e continuerò a farlo per tutti quelli che sono ancora in Libia”.
Il respingimento collettivo è proibito dall’articolo 4 del Protocollo Addizionale n. 4 della Convenzione Europea per i Diritti Umani e dall’articolo 19 del Testo Unico sull’Immigrazione, che vieta la pratica di riportare persone verso un luogo in cui potrebbero subire torture o persecuzioni. Di fronte a un naufragio, l’autorità competente ha quindi l’obbligo di portare le persone in un luogo sicuro (POS – Place of Safety), definito secondo le leggi del mare (UNCLOS, Convenzione SAR, Convenzione SOLAS). Salendo a bordo dell’italiana Asso 29, anche se in acque SAR libiche, vige infatti la legge dello Stato che batte bandiera, quindi quella di Roma, l’autorità competente del soccorso di portare quelle persone in un POS. In Libia tuttavia i migranti non hanno accesso alla giustizia, alla possibilità di far esaminare il proprio caso da un organo indipendente e alla sicurezza che i loro diritti fondamentali saranno rispettati. Il loro diritto di chiedere asilo è così compromesso. “La Libia è un luogo difficile. I migranti soffrono molto. Quando le milizie ti trovano e ti arrestano, chiedono alla tua famiglia un riscatto di 5.000 euro, 3.000 euro, solo per uscire da quella stanza. O trovi il modo di dargli quello che vogliono o ti tortureranno, ancora e ancora”, ricorda Amal.
Consegnando i naufraghi alle autorità libiche, l’Italia non ha rispettato le leggi nazionali e internazionali. Il Tribunale ha anche considerato che dalla Libia i naufraghi sarebbero potuti essere riportati nei loro Paesi d’origine, come l’Eritrea o il Sudan, luoghi in guerra dai quali erano fuggiti proprio per salvare la propria vita. L’Italia non solo ha delegato il soccorso iniziale alla Guardia Costiera libica, ma ha istruito un soggetto terzo privato (dopo che la motovedetta libica è andata in avaria) a riportare le persone in Libia. Il Tribunale ha infatti accertato che l’Italia ha fornito un rilevante contributo logistico, di supporto e coordinamento nel respingimento. In altre parole, il Belpaese non vuole assumersi la responsabilità e lascia la vita delle persone in mano a un Paese che le distrugge. A tal proposito si ricorda il caso Hirsi Jamaa, in cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) condannò l’Italia per il respingimento di 24 migranti in Libia. La Corte stabilì che l’Italia, consapevole delle condizioni in Libia, era obbligata a informare i migranti sui loro diritti di protezione internazionale, stabilendo un precedente legale che impedisce oggi agli Stati europei di ignorare le responsabilità sui diritti umani tramite respingimenti. Con il caso dell’Asso 29 viene scritto ancora una volta nero su bianco che la Libia non è un posto sicuro. Lo leggiamo in innumerevoli report di organizzazioni umanitarie, Ong, storie e racconti di chi ha vissuto quei luoghi. Ma inciderlo in un processo giudiziario gli conferisce una validità e legittimità che può essere spesa in altri casi simili. E lo stato attuale delle cose suggerisce che ce ne saranno.
“Il Tribunale di Roma, con le decisioni sul caso Asso 29, ha messo in luce la palese illegittimità di quello che è tutt’altro che un caso isolato. Ogni giorno nel Mediterraneo le autorità italiane contribuiscono in modo determinante affinché le persone vengano intercettate e riportate in Libia, spesso con la collaborazione di attori privati che attuano materialmente la condotta illecita di riconsegnare i fuggitivi alle autorità libiche”, hanno affermato Cristina Laura Cecchini e Lucia Gennari del progetto Sciabaca e Oruka di Asgi. Grazie al lavoro degli avvocati e delle avvocate di Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e dei volontari e volontarie di JL Project e Baobab Experience, oggi Amal può sentirsi al sicuro in Italia e iniziare una nuova vita negli alloggi di Baobab Experience. Lui è solo il primo tra le oltre 600 persone che sono state rintracciate, avverte il collegio di avvocati.