Sempre più uomini, donne e bambini cercano protezione internazionale negli stati membri dell’Unione Europea. Pochi sanno però che un numero significativo di questi richiedenti asilo sono persone Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali), che decidono di lasciare il proprio paese per scappare da persecuzioni di stampo omofobico, bifobico e transfobico.
Impossibile quantificare il fenomeno con esattezza: ancora oggi, solo pochissimi stati membri della Ue registrano il numero di richiedenti appartenenti a minoranze sessuali e di genere. La ricerca del 2011 Fleeing Homophobia stimava che fossero circa 10 mila ogni anno le domande d’asilo legate a orientamento sessuale e/o identità di genere che vengono presentate nell’Unione Europea. Alla luce del numero complessivo di richieste di asilo ricevute dalla Ue nel 2016 (1.259.955), si tratta dello 0,8% dei richiedenti totali. Stima probabilmente al ribasso, vista l’assenza di numeri ufficiali denunciata dall’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali (Fra) e la tendenza diffusa delle persone a nascondere la propria identità se provenienti da paesi in cui essere Lgbti può significare addirittura la pena di morte.
I ritardi del sistema e il Common European Asylum System
Nell’evoluzione del sistema internazionale di protezione dei rifugiati, il riconoscimento dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere come motivo di persecuzione è relativamente recente. La Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951 e il suo Protocollo del 1967 non contengono alcun riferimento esplicito alle minoranze sessuali e di genere. Questa lacuna ha avuto effetti molto pesanti nel corso della storia; basta pensare che un altissimo numero di persone Lgbti sono state soggette a persecuzioni durante il periodo nazista e che la stessa Convenzione è stata redatta proprio come reazione alle atrocità subite da quelle stesse vittime. Così, se i primi casi di rifugiati Lgbti venivano ricondotti a motivi politici e religiosi, solo dalla seconda metà degli anni Novanta la maggior parte dei casi è stata fatta cadere sotto il motivo di appartenenza a un “particolare gruppo sociale”.
La stessa Agenzia Onu per i Rifugiati (Unhcr) ha chiarito la propria posizione sui casi Lgbti solo tra il 2008 e il 2012, cioè rispettivamente quando sono state pubblicate la prima nota e le prime linee guida ufficiali dedicate esclusivamente a questa materia. A livello internazionale, quindi, fino a poco tempo fa la possibilità di essere riconosciuti come rifugiati in base a persecuzioni omo-bi-transfobiche è stata soggetta alla quasi completa discrezionalità dei singoli stati.
A livello europeo, man mano che i paesi cooperavano di più sull’asilo, si è arrivati ad adottare una posizione comune sul riconoscimento delle persone Lgbti come potenziali soggetti di protezione internazionale. La nascita del Common European Asylum System (Ceas), che vuole armonizzare leggi e pratiche sull’asilo tra gli stati membri, è stata il presupposto di un risultato storico. L’articolo 10 della Direttiva Qualifiche ha riconosciuto esplicitamente prima l’orientamento sessuale (nel 2004), e poi l’identità di genere (nel 2011) come basi in cui riconoscere un particolare gruppo sociale e, quindi come motivo per ottenere protezione internazionale. Una presa di posizione decisiva, specie alla luce delle pratiche poco coerenti adottate fino a quel momento in Europa. La stessa Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali nel 2015 l’ha definita come l’innovazione legale più importante legata alla protezione dei richiedenti asilo Lgbti nell’Unione Europea.
Lgbti: vulnerabilità distinte
Il riconoscimento di orientamento sessuale e identità di genere come motivo valido di protezione, però, ha solo creato la condizione per proteggere i richiedenti asilo Lgbti, lasciando intatti una serie di problemi che sono specifici dei casi presentati da persone lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali.
Il problema di fondo è che non c’è ancora sufficiente consapevolezza che i richiedenti asilo Lgbti abbiano vulnerabilità distinte, da cui derivano conseguenze concrete nella gestione dei loro casi come richiedenti asilo. Lo stesso Unhcr ha sottolineato che diversi gruppi Lgbti vivono la discriminazione in modo diverso e subiscono persecuzioni distinte. Per esempio, le donne lesbiche sono spesso vittime di crimini d’onore e stupri punitivi; la loro condizione economica e sociale spesso influisce sulla possibilità di accesso alle procedure di asilo e la persecuzione nei loro confronti viene perpetrata sulla doppia base del genere e dell’orientamento sessuale. Gli uomini gay sono più esposti a un rischio immediato di violenza e sono le vittime primarie delle leggi che criminalizzano rapporti sessuali tra partner dello stesso sesso. Quanto alle persone bisessuali, spesso l’orientamento sessuale è erroneamente concepito come una scelta e non come elemento identitario. Uomini e donne transgender sono la categoria più soggetta al rischio di marginalizzazione. Infine, le persone intersessuali sono spesso percepite come aventi una disabilità legata alla propria anatomia.
In molti casi l’esame delle richieste si basa chiaramente su stereotipi. Uno fra tutti? Come sottolineato in Fleeing Homophobia, spesso le autorità nazionali pensano che l’orientamento sessuale incida solo quando il richiedente asilo mostra il desiderio irrefrenabile di rapporti sessuali con persone dello stesso sesso. Un immaginario che spinge all’esclusione dalla protezione internazionale di bisessuali (attratti anche da persone del sesso opposto) e in generale di quelle persone che non si comportano in base agli stereotipi sulle persone Lgbti. In Inghilterra, a diverse donne è stato chiesto come prova della loro omosessualità se leggessero Oscar Wilde, quali locali gay frequentassero e a quanti Gay Pride avessero partecipato. E ancora, in molti paesi europei essere lesbica ma “troppo femminile” potrebbe condannare una donna a tornare nel proprio paese d’origine, dove è vittima di persecuzioni.
Questa confusione spinge autorità e organi decisionali a incongruenze ed errori nella gestione dei casi, condizionate da stereotipi, e su cui influisce una quasi totale assenza di formazione su orientamento sessuale, identità di genere ed espressione di genere.
L’assenza di standard e pratiche comuni nei casi Lgbti
L’obiettivo di una piena armonizzazione delle leggi e delle pratiche sulla gestione dei casi Lgbti è una realtà lontanissima: tuttora non esistono linee guida europee, e questo incide sulla gestione di tutte le fasi del processo per l’ottenimento dello status di rifugiato. Alcune questioni sono legate alla criminalizzazione dell’omosessualità e alla non esaustività o assenza di informazioni precise sull’atteggiamento verso le persone Lgbti nel paese di provenienza. Altre sono legate ai metodi per determinare la credibilità̀ del richiedente asilo e il suo orientamento sessuale e/o la sua identità̀ di genere. E ancora, chi nasconde la propria identità sessuale nel paese di origine rischia di vedersi preclusa la protezione internazionale. Infine, da queste lacune sorgono problemi anche sulle condizioni da garantire nei centri di accoglienza e di detenzione.
Ed è così che, in alcuni paesi europei, a richiedenti asilo provenienti da paesi in cui essere omosessuali è un reato viene negata la protezione internazionale, anche se è dimostrato che la criminalizzazione della loro condizione nel paese d’origine potrebbe costare loro pene fino ai 15 anni di carcere o la pena capitale. E ancora, in alcuni casi (registrati tra gli altri in Austria, Francia, Spagna e Germania) le autorità nazionali si aspettano dal richiedente asilo che questi eviti la persecuzione adottando comportamenti “discreti” riguardo al proprio orientamento sessuale e/o identità di genere. Viene asserito, quindi, che la persona non ha bisogno di protezione internazionale se tornando nel proprio paese nasconde di essere gay, lesbica, bisessuale, transgender e/o intersessuale. La stessa identità che può mettere un richiedente asilo in pericolo all’interno di un centro di accoglienza se non vengono adottate misure per prevenire o gestire situazioni di discriminazione e umiliazione. Se in Belgio nei centri di accoglienza esiste una rete di richiedenti asilo Lgbti che si incontra una volta al mese, in Olanda un’organizzazione locale ha riportato che alcuni richiedenti asilo Lgbti venissero tormentati all’interno di un centro. I loro letti erano puntualmente coperti di escrementi, i vestiti rubati e le vittime vivevano nel terrore di dormire negli spazi comuni.
Su ognuna delle questioni che abbiamo citato qui, gli operatori di centri di accoglienza e gli altri professionisti che lavorano ogni giorno a contatto con i rifugiati all’interno dell’Unione Europea adottano pratiche divergenti sia a livello nazionale che europeo. Il risultato è che nonostante il sistema di Dublino presupponga uno standard comune europeo, e nonostante la volontà di creare standard minimi e comuni rappresentata dal Ceas, se oggi un richiedente asilo Lgbti presentasse domanda di protezione internazionale in due paesi dell’Unione Europea, probabilmente otterrebbe due esiti diversi.
In copertina: manifestazione per i diritti dei rifugiati LGBTI a Colonia (foto: Culturetastic CC BY-NC 2.0)