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3 agosto 2017 -Tutti lo conoscono anche se le istituzioni lo ignorano, almeno formalmente. Quel nome, piazzale Maslax, dedicato alla memoria di un ragazzo che si è tolto la vita in un centro di accoglienza, non esiste nella toponomastica di Roma, eppure gira sui telefoni e nei messaggi di centinaia di migranti che arrivano nella capitale e che trovano qui un primo aiuto. Qualcuno lo ha anche geolocalizzato su Google maps per facilitare l’arrivo al Baobab, campo informale nato dalla solidarietà dei cittadini volontari e continuamente sgomberato dalle forze dell’ordine. Il paradosso della gestione dei migranti nella capitale inizia proprio qui, dietro la stazione Tiburtina, in un vecchio deposito degli autobus, dove sono state montate tende da campeggio per ospitare dalle 100 alle 150 persone ogni sera, senza luce, senza acqua, con il solo supporto degli attivisti e delle associazioni che lavorano al fianco dei migranti, da Medu all’associazione Diritti al cuore, fino alla Rete di supporto ai migranti in transito, di cui fanno parte anche A buon diritto, Cir e Action.
Al tramonto si forma una lunga fila davanti al tavolo dove i volontari distribuiscono la cena: riso, verdure, uova sode e pane. Seydou, 23 anni, del Mali, è arrivato qui su consiglio di un’amica tedesca che aveva sentito parlare del Baobab su Facebook. “Mi ha detto questo nome, Maslax, ho cercato sulla mappa e sono arrivato. Su internet c’era scritto che mi potevano aiutare”. Seydou è uno di quelli che in gergo vengono chiamati “dublinati”, cioè una persona rimandata indietro da un paese di frontiera perché secondo le regole del Regolamento Dublino III deve fare domanda di protezione internazionale solo nel primo paese di approdo. E lui nel 2015 era arrivato proprio qui, in Italia. Così, dopo un paio d’anni in Germania è dovuto ripartire, nonostante avesse cominciato a studiare il tedesco e tramite un corso di formazione avrebbe presto fatto uno stage in un’impresa. “Non c’è stato niente da fare, una volta sbarcato avevo lasciato le impronte in Italia, e così mi hanno mandato via. Ora sono qui e aspetto di avere i documenti”, spiega. “Vengo dal nord del Mali, dove ci sono molti problemi, ribellioni e violenze, spero di ottenere al più presto l’asilo per tornare dalla mia amica in Germania”.
Paul, 27 anni, della Costa d’Avorio, al Baobab ci è arrivato quasi per caso, dopo aver dormito per qualche giorno per strada alla stazione Termini: “Ho incontrato un ragazzo ivoriano che lavora alla Croce Rossa, mi ha dato due euro per prendere la metro e andare in questura a spiegare la mia situazione: in Sicilia mi avevano dato un foglio di espulsione”, racconta, “ma alla questura mi hanno rimandato indietro perché c’era una lunga lista. Uscendo dalla metro ho incontrato una ragazza, Roberta, le ho spiegato i miei problemi, e lei mi ha detto di venire qui. Ora grazie al sostegno legale che mi hanno dato al Baobab ho fatto ricorso, non ho più il foglio di via e aspetto il permesso di soggiorno entro il 3 agosto”.
Le persone che arrivano nel piazzale est di Tiburtina sono di origini diverse e la loro situazione legale varia caso per caso, ma tutte sono state identificate all’arrivo. La maggior parte arriva dal Sudan, ma ci sono anche molti eritrei e somali, e nelle ultime settimane anche alcuni curdi. “Tra quelli che assistiamo ci sono persone a cui non è ancora stato assegnato un centro di accoglienza, o persone che vanno via dai centri a cui sono assegnati perché lamentano di non aver avuto lì nessun tipo di assistenza”, spiega il presidente di Baobab Experience, Roberto Viviani. Ma la grossa novità degli ultimi mesi è che stanno aumentando i casi Dublino, cioè le persone rimandate indietro da Francia, Germania e altri paesi. “Ci trovano tramite il passaparola. Ce lo diceva già nel 2015 Molugheda, un ragazzo del Sudan passato per il centro quando era ancora a via Cupa: dal paese di origine sanno che, a Roma, Tiburtina è una zona di accoglienza di migranti”.
Mentre parliamo, tre persone con una pettorina blu prendono nota delle presenze giornaliere. Sono della Sala operativa sociale (Sos) di Roma Capitale. “È paradossale, ma nonostante i 20 sgomberi subiti e l’ostinazione del Comune a non riconoscerci, la Sala operativa passa tutti i giorni, due volte al giorno, perché sa che questo è un centro nevralgico. Da qui quando hanno posto mandano le persone nei centri istituzionali, dando priorità alle fragilità che segnaliamo noi: donne e bambini, o persone con problemi fisici e mentali”. La collaborazione informale col Comune di Roma si ferma qui: al resto pensano i volontari. Sono due anni che Baobab Experience chiede che l’opera che già svolge venga riconosciuta ufficialmente. A giugno ha lanciato un appello a Ferrovie dello Stato, proprietaria dell’area di piazzale Maslax: “in 12 ore possiamo attrezzare un campo fatto bene: potremmo portare i pannelli solari, fare una tenda biblioteca e dare uno spazio agli avvocati per l’assistenza legale”, aggiunge Viviani. “Ci sarebbero vantaggi sia per i migranti che per i residenti, perché sarebbe tutto più monitorato e controllato”. E proprio mercoledì Fabrizio Torella, responsabile dell’area Corporate shared value di di Ferrovie, ha risposto alla petizione lanciata dagli attivisti (che hanno raccolto 17.500 firme), proponendo come modello di collaborazione l’hub di Milano. Torella ha spiegato che se le istituzioni che “hanno la responsabilità di gestire le problematiche sociali nei territori, dovessero attivarsi”, FS sarebbe pronta a “valutare con l’assessore alle politiche sociali modalità, tempi e iniziative”. Per questo, incassata la disponibilità dell’azienda, ora Baobab Experience chiede non solo al Comune di Roma, ma anche alla Regione Lazio e alla Prefettura di raccogliere l’appello degli attivisti e impegnarsi per realizzare un presidio permanente. Anche l’associazione Medici per i diritti umani ha scritto nei giorni scorsi sia alla sindaca Virginia Raggi che alla prefetta di Roma Paola Basilone chiedendo con urgenza “un presidio umanitario per i migranti più vulnerabili”. Ma senza ricevere una risposta. Ma ad entrambe le richieste continua a mancare una risposta. Non fanno invece mancare il loro supporto i cittadini: “c’è chi porta una scatoletta di tonno, un pacco di pasta, qualsiasi cosa è importante”, aggiunge Andrea Costa, coordinatore dell’associazione. “Tutto aiuta, anche un po’ di tempo, dedicato a chi altrimenti non ha occasione di comunicare, e si chiude nell’isolamento tipico delle vittime”.
Lasciamo il campo quando inizia a fare buio, e ci dirigiamo verso il centro. A pochi chilometri di distanza, in via Aniene, c’è un altro punto nevralgico della prima accoglienza, dedicato esclusivamente ai minori stranieri non accompagnati. Si tratta di A28, un centro notturno privato, gestito dall’associazione Intersos. Qui i ragazzi cominciano ad arrivare intorno alle 22. Citofonano, salutano, prendono il sapone e si fanno la doccia, prima di sedersi a tavola per mangiare. I posti letto sono 24 ma nei periodi di particolare afflusso la capienza sfiora i 40. Ogni camera ha sei letti: maschi e femmine sono separati. “Arrivano con il passaparola o tramite le segnalazioni della Sala operativa sociale”, spiega Maurizio Debanne, portavoce di Intersos. “Abbiamo anche un team mobile che presidia le zone intorno alla stazione Termini e a Tiburtina, per intercettare i minori soli”. Dall’inizio del 2017 il numero dei ragazzi ospitati nel centro è raddoppiato perché a Roma arrivano sempre più minorenni da soli. “Negli ultimi mesi abbiamo registrato sempre la capienza massima”, aggiunge Debanne, “a ottobre chiuderemo per spostarci in uno stabile più grande in periferia, a Torre Spaccata, che ci ha dato la Regione Lazio. Lì potremo offrire un’assistenza 24 ore su 24. I numeri dei minori sono sempre più alti, riteniamo che sia opportuno garantire un supporto ancora maggiore”.
Mentre i ragazzi fanno la doccia, Pino Bardaro, l’operatore che si occupa della gestione del centro, prepara la cena nella cucina, sulle cui pareti sono impressi i ricordi dei ragazzi passati di qui. C’è chi ha lasciato un disegno con la bandiera del paese di origine, chi una foto, chi ha stampato sulla carta i sogni per il futuro. Come Godstime, 17 anni, che da grande vuole fare il calciatore. Viene dalla Nigeria e da una famiglia molto povera che ha investito su di lui per un futuro migliore. Prima di arrivare qui anche lui è passato per il Baobab, poi una volta rivelata la sua minore età è stato inviato ad A28. Yonas, 16 anni e originario dell’Eritrea, invece, ha dovuto interrompere i suoi sogni a soli 14 anni quando è finito in carcere con l’accusa di aiutare le persone a lasciare il paese. Crocifisso bianco al collo e due grossi tatuaggi (un fiore e un uccello) che ricordano il passato in prigione, ha la timidezza degli adolescenti: “dopo essere stato dentro sono stato costretto ad andarmene”, spiega. “Sono arrivato a Roma da solo, prima dormivo a Tiburtina. Ora vorrei riuscire ad andarmene col programma di relocation”, spiega, riferendosi al sistema di ricollocazione. “Vorrei arrivare in Olanda, dove ho dei parenti. Ma va bene anche la Germania, in Italia non voglio rimanere”. Il tempo di permanenza dei ragazzi ad A28 è di circa sei giorni, poi molti di loro continuano il viaggio. Proprio per questo tutti vengono forniti di un braccialetto azzurro col logo di Intersos: “sanno che non devono toglierselo perché quando arrivano a Como o a Ventimiglia o in altri luoghi di frontiera, vengono riconosciuti tramite il bracciale dagli altri operatori di Intersos e vengono presi sotto la loro tutela”, aggiunge Debanne. “Abbiamo un team legale che li guida in tutto il percorso”.
Ci sono anche altre situazioni di particolare fragilità: donne con bambini, persone con problemi fisici e psichici, che vengono invece accolte nel centro della Croce Rossa, un’ex scuola riconvertita all’accoglienza dei migranti su via del Frantoio. Attualmente il centro è pieno: ci sono 86 persone ospitate, in particolare eritrei (circa 70) e alcune donne con bambini. Due di questi, di appena un anno, giocano nel lungo corridoio dopo aver fatto colazione. Il centro è finanziato con i soldi che il ministero dell’Interno dà a Roma Capitale per l’accoglienza. La convenzione viene rinnovata ogni volta temporaneamente: l’ultima proroga è dello scorso giugno e ha una durata di sei mesi, quindi scadrà a dicembre. “Questo è un presidio umanitario, abbiamo scelto questo nome non a caso perché accogliamo tutti – non solo richiedenti asilo, non solo candidati per la relocation, non solo senza dimora, ma tutti: l’unico criterio è che siano esseri umani in stato di bisogno. Abbiamo anche italiani in emergenza abitativa”, il responsabile del centro Giorgio De Acutis. “Roma esercita attrazione soprattutto per le persone che passano mesi nei centri di accoglienza sparsi per l’Italia, senza che vengano avviate le procedure d’asilo, senza incontrare un interprete, senza sapere quali sono i loro diritti. Chi ha fatto un viaggio durato anche anni, all’arrivo in Europa non sopporta questa ulteriore attesa, si allontana dai centri, e arriva qui. Molto spesso la cosa di cui hanno più bisogno è essere informati sui loro diritti, arrivano a Roma anche perché qui ci sono molti connazionali: gli eritrei per esempio, sanno che sulla questione della relocation la questura di Roma lavora bene e con intensità. E così si concentrano nella capitale”.
La maggior parte delle persone arrivate a via del Frantoio è passata per il campo informale di piazzale Maslax: “noi collaboriamo con gli attivisti di Baobab Experience, con loro abbiamo avviato anche dei corsi per i nostri ospiti. Ma anche quando le segnalazioni arrivano da loro dobbiamo passare per la Sala operativa sociale del Comune, spiega De Acutis. “Rispetto al passato però oggi la situazione è migliorata: si è instaurata una cabina di regia fra amministrazione e prefettura, come chiedevamo da mesi. Siamo ottimisti, crediamo che il coordinamento inter-istituzionale e tra istituzioni e società civile permetterà di gestire sempre meglio le procedure”. Anche perché, aggiunge, in questo momento a Roma non c’è un’emergenza immigrazione relativa agli arrivi: “siamo lontani dai numeri del 2015, quando le presenze erano sempre oltre la capienza massima. Questo è dovuto al fatto che oggi l’Italia è sempre meno un paese di transito: dalla metà del 2016 a oggi tutti quelli che arrivano vengono identificati, e sono sempre meno coloro che tentano di passare la frontiera senza i canali legali”.
Anche nei centri Sprar e nei Cas (i centri di accoglienza straordinaria) i numeri restano contenuti: secondo i dati della prefettura di Roma sono circa 5.581 i richiedenti protezione internazionale presenti nei centri, compreso il Cara di Castelnuovo di Porto dove la maggior parte delle persone è in attesa di essere ricollocata. Altre tremila persone sono accolte nella rete di punti Sprar. In tutto circa ottomila presenze, una quota al di sotto di quegli 11 mila migranti che spetterebbero alla capitale secondo la redistribuzione prevista dall’accordo Stato-Regioni. I numeri sono stati resi noti dopo la lettera che la sindaca aveva inviato a Basilone per scongiurare nuovi arrivi di migranti a Roma.
Ma se i dati sembrano smentire l’ipotesi di una capitale in sofferenza per gli arrivi, quello che le statistiche non rilevano sono le migliaia di migranti fuori accoglienza, senza casa e lavoro, che dormono per strada o nelle occupazioni. Solo un mese fa lo sgombero richiesto da un privato di due stabili a via Vannina, nella zona della periferia est, ha rivelato una situazione rimasta per anni invisibile, non solo alle istituzioni ma anche alle associazioni che si occupano di tutela e assistenza. In questi edifici abbandonati vivevano oltre 500 persone, tra cui anche famiglie con bambini. Quasi tutti in posizione regolare, con un permesso di soggiorno o una forma di protezione internazionale, e un passato in un centro Sprar e Cas. Una volta usciti dal circuito dell’accoglienza, però, sono finiti in strada. Dopo circa un mese una sessantina di persone (tra cui una famiglia con figli minori) sono rientrate in uno dei due stabili. Altri si sono sparpagliati nelle decine di occupazioni che sfuggono al monitoraggio ufficiale. Le associazioni intervenute a via Vannina hanno rilevato anche alcune situazioni di sfruttamento e casi di donne vittime di tratta, difficili da prendere in carico dopo lo sgombero. Anche secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) lo stato delle cose nella capitale è critico e va risolto. “La situazione di Roma ci preoccupa moltissimo: ci sono moltissimi richiedenti asilo che si trovano fuori accoglienza”, sottolinea Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr per il Sud Europa. “Migliaia di migranti regolari vivono nelle occupazioni: è una situazione che è peggiorata negli anni e a cui va data una soluzione. Lo sgombero a via Vannina ha messo per strada altre 500 persone, tra cui anche bambini. È uno scacco per l’integrazione e una privazione della dignità, chiediamo da tempo che il Comune trovi una soluzione”.
Ma i progetti di Roma Capitale sul fronte immigrazione restano difficili da decifrare. L’ assessora Laura Baldassarre ha più volte parlato di un hub sul modello Milano per la prima accoglienza, da realizzare a ridosso della stazione Tiburtina. Ma le proteste di alcuni residenti sembrano aver fatto naufragare l’ipotesi. Anche il tavolo con le associazioni, che era stato uno dei primi atti ufficiali di Baldassarre, si è bruscamente interrotto dopo mesi di incontri per trovare una soluzione strutturale. Se ci saranno nuovi sgomberi o se invece si sta pensando seriamente a una collaborazione tra il Comune e la società civile è difficile capirlo. Open Migration ha chiesto al Comune di Roma di rispondere alle domande sull’accoglienza, ma nonostante i solleciti, anche noi non abbiamo ottenuto risposta.
In copertina: la fila per la cena in piazzale Maslax con Baobab Experience (fotografia di Francesco Pistilli come tutte quelle di questo articolo).