Mentre si consumavano le ore più drammatiche della vicenda Diciotti, a Bruxelles si apriva un caso sul presunto utilizzo improprio dei fondi europei per il salvataggio dei migranti in mare da parte dell’Italia.
Il riferimento è al respingimento della nave Aquarius dai porti italiani e al successivo viaggio verso Valencia dello scorso giugno. Ovvero, la “madre” delle sfide provocatorie lanciate dall’esecutivo nei confronti di Ong, istituzioni europee e partner continentali che inaugurò l’attuale politica di totale chiusura. Una mossa di propaganda politica – come molti la giudicarono – che oggi sappiamo essere costata alle casse pubbliche almeno 290 mila euro, ma probabilmente il doppio, e finanziata quasi interamente grazie a contributi europei.
A una prima, e parziale, stima siamo riusciti ad arrivare grazie a una richiesta di accesso civico – il cosiddetto Foia – indirizzata alla Guardia Costiera. A giugno, l’intervento del corpo di marina si era reso necessario per accompagnare fino al porto spagnolo l’Aquarius, impossibilitata ad affrontare un viaggio di 1.400 chilometri con 630 naufraghi a bordo. Così, per agevolare le operazioni, 400 persone erano state trasferite sul pattugliatore Dattilo e sulla nave Orione della Marina Militare. Questa scelta da un lato garantiva la massima sicurezza dei passeggeri, dall’altra però aveva costretto i militari italiani ad affrontare un viaggio oneroso, tenendoli peraltro lontani per giorni dalle zone di salvataggio di loro competenza. Problemi che, ricordiamo, si sarebbero potuti evitare facendo sbarcare i migranti nel primo porto sicuro in Italia, come da prassi fino ad allora.
Per il Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che aveva ordinato il divieto di sbarco in Italia, la deviazione di Aquarius verso la Spagna era stata una “vittoria” che apriva “un fronte in Europa”. Ma è lecito porsi dei dubbi sulla necessità di un’operazione che non ha portato ad alcuna risoluzione a lungo termine a livello comunitario, e che ha sortito come unico effetto l’aumento delle preferenze degli elettori nei confronti del leader leghista. Soprattutto alla luce del conto salato che i contribuenti europei – compresi, quindi, anche quelli italiani – hanno dovuto pagare.
I dati diffusi dalla Guardia Costiera permettono di fare stime abbastanza precise. Innanzitutto, ci dicono che – per manutenzione e spese vive – la Dattilo “consuma” all’incirca 740,15 euro per ogni ora di navigazione. Per la missione a Valencia, il pattugliatore è stato impegnato in mare per quasi 290 ore tra andata e ritorno, facendo segnare un costo forfettario totale di 215 mila euro. A questa cifra va poi sommato il pagamento degli straordinari dell’equipaggio: 77 mila euro, ovvero 5.500 al giorno.
Infine, all’appello mancano ancora i costi dell’Orione, l’altra nave che ha scortato l’Aquarius nel lungo tragitto verso Valencia. La Marina Militare non ha risposto alla richiesta d’accesso e, di conseguenza, dati precisi non sono finora stati resi noti. Ma, considerato che per caratteristiche tecniche ed esigenze di equipaggio l’Orione è equiparabile alla Dattilo, si può ipotizzare che anche i costi possano essere simili. Se così fosse, il conto dell’operazione schizzerebbe poco sotto quota 600 mila euro.
Spese che vanno ad aggiungersi – e non a sostituire – a quelle della gestione ordinaria del fenomeno migratorio. Visto che, dopo l’arrivo in Spagna, per i migranti ospitati sull’Aquarius sono state attivate le normali procedure di accoglienza.
Un altro fronte di scontro con l’Unione Europea
Ma, oltre alle cifre dell’esborso finanziario, è un altro l’elemento chiave che emerge dalle informazioni rilasciate dalla Guardia Costiera: l’utilizzo di contributi europei per sovvenzionare l’operazione. Oltre il 90 per cento dei costi sarebbe stato coperto grazie ai fondi di emergenza per il salvataggio in mare concessi dalla Commissione Europea.
Sono parte di quei 194 milioni di euro che dal 2015 – anno della tragedia al largo di Lampedusa – Bruxelles ha messo a disposizione del governo italiano per gestire al meglio il fenomeno migratorio. Soldi che si sono aggiunti alle risorse (653.7 milioni) già allocate all’Italia nell’ambito del programma strutturale 2014-2020. A ricevere una fetta dei fondi è stata anche la Guardia Costiera, che solamente nello scorso anno ha siglato due accordi con Bruxelles per un totale di 14,8 milioni di euro.
Si tratta di fondi che non vengono elargiti “a pioggia”, ma che, invece, sono inseriti all’interno di regole precise. Per il cui mancato rispetto possono scattare sanzioni e richieste di rimborso. È proprio questo il rischio che corre l’Italia nel caso Aquarius, visto anche l’inasprirsi dei rapporti con la Commissione Europea.
Per ora da Bruxelles si è cercato di minimizzare il caso, nonostante la notizia abbia suscitato una certa dose di imbarazzo. “Non possiamo confermare le informazioni riportate dalla stampa,” ha dichiarato Tove Ernst, portavoce della Commissione, rinviando ogni giudizio al termine del periodo per cui sono stati forniti i fondi. “Come per tutti i sussidi europei esistono procedure ben definite con le quali valuteremo l’idoneità delle spese e analizzeremo le attività svolte dai paesi membri.”
Dunque, la resa dei conti arriverà quando la Guardia Costiera sarà chiamata a giustificare le proprie voci di spesa sulla base dei criteri del contratto firmato con la Commissione.
“Costi necessari, ragionevoli e giustificati”: cosa dicono gli accordi Ue
Open Migration ha analizzato i testi dei due accordi chiamati in causa per finanziare il viaggio a Valencia.
Il primo, per un valore di 12,3 milioni di euro, è stato siglato a marzo 2017 e si sarebbe dovuto concludere a fine maggio 2018, quindi prima del caso Aquarius. Tuttavia, la sua durata sarebbe stata estesa fino alla fine dell’anno, a detta della portavoce della Commissione. Tra le operazioni sostenute dal fondo ci sono “le attività di sorveglianza avanzata dei confini marittimi e le relative attività di ricerca e soccorso”. Nello specifico, l’accordo comprende il rimborso dei costi diretti (rifornimento, pulizia ecc.) contratti dal pattugliatore Dattilo nello svolgimento di questa missione.
Entrato in vigore a gennaio 2018 per la durata di dodici mesi, il secondo fondo europeo ha una portata ben più limitata: 2,4 milioni di euro che possono essere utilizzati principalmente per pagare gli straordinari degli addetti dell’equipaggio a bordo della Dattilo, o imbarcazioni simili.
Per entrambi gli accordi, poi, il contratto indica i criteri da rispettare per poter ritenere idonee le spese. E qui i paletti si stringono ulteriormente. “I costi devono essere necessari per lo svolgimento delle attività,” riporta il testo, “devono essere ragionevoli, giustificati ed essere in linea con i principi di una gestione finanziaria sensata, in particolare riguardo a un loro uso parsimonioso ed efficiente”.
Di seguito si precisa, inoltre, che “non possono essere ritenute valide spese eccessive o avventate”.
Nei primi mesi del 2019 toccherà ai contabili della Commissione Europea stabilire se i termini degli accordi siano stati rispettati o meno. Se fosse contestato un abuso, il contratto parla chiaro: l’Italia dovrebbe restituire i soldi spesi impropriamente. Ma, al di là della clausole tecniche, è probabile che nelle interpretazioni entrino in gioco anche valutazioni politiche. Specialmente se il tema dei fondi europei continuerà ad infiammare lo scontro dialettico tra Roma e Bruxelles.
Già nei giorni scorsi, i vertici europei non hanno preso bene la minaccia del governo italiano di bloccare il versamento dei propri contributi al bilancio comunitario in caso di un presunto mancato aiuto sui migranti. “L’Unione Europea funziona sulla base di regole e non di minacce”, ha commentato a caldo il portavoce della Commissione Alexander Winterstein.