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Se la solidarietà non può essere accusata: la storia di Jacopo Mascheroni e della Como solidale

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18 luglio 2019 - Andrea Quadroni
Da Ventimiglia a Como, Jacopo Mascheroni aveva visto le stesse scene: migranti respinti alla frontiera, uomini donne e bambini abbandonati a se stessi e spesso trasferiti altrove con la forza. Per questo, insieme con altri ragazzi, nell’estate del 2016 aveva dato vita all'info point solidale di Como, per dare assistenza anche materiale alle centinaia di migranti in transito in città, respinti dalla Svizzera e senza nessun aiuto. Jacopo era a processo per aver ignorato un foglio di via dovuto alle sue attività, il 24 giugno è stato assolto perché "il fatto non sussiste".

“Assolto perché il fatto non sussiste”. Sei parole attese da tempo. Una volta pronunciate dal giudice l’ansia per la sentenza si è sciolta in un fragoroso battimani del pubblico, accorso in massa lunedì 24 giugno nell’aula del tribunale di Como per sostenere Jacopo Mascheroni, giovane canturino processato per aver ignorato un foglio di via. In attesa di leggere le motivazioni della sentenza c’è comunque un precedente importante: la solidarietà non si arresta.

Già, perché Jacopo, insieme con altri ragazzi, nell’estate del 2016 aveva attivato l’info point solidale, impegnandosi nell’assistenza (e andando oltre i bisogni primari) per le centinaia di migranti accampate in stazione San Giovanni a Como, respinte dalla frontiera svizzera, impenetrabile ai loro tentativi.

Il rischio era grosso: fino a sei mesi di carcere per aver partecipato alla marcia della pace, non rispettando l’ordine restrittivo firmato a fine estate 2016 e ricevuto per aver partecipato a un presidio non autorizzato, ma voluto dai migranti, contro i trasferimenti coatti verso l’hotspot di Taranto. L’avvocato difensore Eugenio Losco ha saputo illustrare al giudice i motivi dell’inesistenza del reato di partecipazione alla manifestazione della Pace, ma anche l’illegittimità del foglio di via che aveva colpito Jacopo, limitandone la libertà di movimento.

“Mi ha fatto piacere essere in mezzo alle persone venute apposta a sostenermi – ci racconta il ventisettenne brianzolo. Dal canto mio ho cercato di rendere pubblico il più possibile quanto stava accadendo, anche attraverso momenti di aggregazione e approfondimento. Secondo me, qualora fossi stato condannato, era importante far sapere quale fosse il motivo del processo. Trasferire, quindi, sul piano dell’opinione pubblica la dimensione di quanto stesse accadendo. Questo senza però dover necessariamente enfatizzare l’episodio. Il rischio che si può correre in questi casi è infatti di esaltare i singoli “eroismi bianchi”. A livello mediatico la “storia” funziona, però si rischia di occultare la dimensione collettiva e, in particolare, chi fa davvero le spese delle disuguaglianze e delle politiche europee. Vale a dire i migranti, spesso descritti come una massa informe e che si muove a ondate”. 

Se esiste un tratto comune fra le esperienze di solidarietà e la vita dei migranti è proprio l’intreccio di storie ed esperienze, magari lontane e diverse, ma unite, almeno per un’estate. In questo campo, Jacopo si era già distinto a Ventimiglia nel 2015. 

“Avevo terminato gli studi in Scienze politiche a Bologna – racconta – e avevo trovato un impiego come educatore scolastico. In quel periodo sentivo le notizie e leggevo cosa stesse accadendo al confine con la Francia. Alcuni amici di Bologna si stavano attrezzando per partire e organizzare in loco una piccola cucina da campo. Mi sono aggregato, avendo terminato il mio periodo lavorativo e sono rimasto da fine giugno al 18 agosto”.

Jacopo Mascheroni (foto di Ecoinformazioni)

Quel giorno una cinquantina di migranti, presi dalla disperazione, avevano preso in massa un treno verso la Francia. “Fermati in frontiera alta – continua – erano stati tradotti in recinzioni metalliche, finché la polizia italiana non arrivò a prenderli per riportarli in stazione. Da lì ovviamente poi riprovavano e via da capo. L’avevamo ribattezzata amaramente “la giostra”. Noi li abbiamo raggiunti in frontiera e sulla base di questo episodio, io con altri venti, ricevemmo il foglio di via. Me ne sono dovuto andare il giorno dopo poiché la misura prevede una lettera che deve firmare il sindaco del Comune di residenza, nel mio caso si tratta di Figino”. La scelta, però, fu quella di non accettare questa decisione e di ricorrere al Tar. Così, grazie anche alla creazione di una cassa di resistenza per affrontare le spese (si parla di circa ottocento euro), cominciò l’iter. Jacopo vinse in prima istanza e, nonostante il ricorso dell’avvocatura al consiglio di Stato, il ragazzo  ebbe ragione e il Ministero dell’Interno fu condannato a pagare le spese, finite nella cassa di resistenza.

Intanto mi iscrivo a Pedagogia in Bicocca – aggiunge Jacopo – e, con l’arrivo dell’estate, ho visto crearsi anche nella mia città, Como, la stessa situazione di Ventimiglia. Si cominciava a parlarne e non fui colto di sorpresa: ero già stato in Liguria, sapevo cosa avrei incontrato. Piuttosto, mi sentivo sconfortato: c’era la volontà di non affrontare la questione. Periodicamente, con la bella stagione, aumentavano le persone in arrivo sulle coste. Si era diffusa la voce che dalla Francia e dalla rotta balcanica non si riusciva a passare. Così, è stata inaugurata la rotta comasca. Tuttavia, appena sono cominciate ad arrivare un numero grande di persone la frontiera svizzera ha irrigidito i controlli”.

Siamo a inizio luglio di tre anni fa: col passare dei giorni i numeri dei migranti presenti allo scalo ferroviario principale di Como stava salendo (si è arrivati a toccare quota seicento nel mese di agosto). “Mi sono ritrovato con diverse persone in stazione – specifica Jacopo – non le conoscevo, però condividevamo l’idea di non fermarci alla sola somministrazione di beni di conforto. Era necessario fare un altro passo, creando una dinamica di ascolto e interazione. Da questo punto di vista mi sono state utili le mie esperienze precedenti in Senegal, prima con un’associazione e poi con uno stage in università: in quel caso ero tornato a casa via terra, rimanendo sorpreso e ammirato dal grado di ospitalità. Arrivavo in un paese con lo zaino in spalla e trovavo di sicuro, prima di sera, qualcuno che mi avrebbe ospitato per la cena e la notte. In quel viaggio avevo incrociato parecchi ragazzi sognanti l’occidente. Incontrandoli poi a casa mia ho pensato che mai e poi mai avrei potuto sbattermene”.

Nasce così l’info point solidale: un gazebo in grado di dare informazioni, ricaricare i cellulari e connettersi a internet: “I bisogni primari erano già coperti dai servizi – specifica il giovane canturino. Mettersi in dialogo significava restare, parlare con loro, non arrivare, fare un giro e andarsene. I migranti ce lo chiedevano: restate se volete davvero capire come stiamo ed essere d’aiuto. Poi se a Ventimiglia erano per lo più sudanesi, a Como la composizione etnica era molto più variegata. Quindi la situazione poteva rischiare di essere più tesa, perché si trattava di vivere in un prato, in totale indigenza e promiscuità con persone di etnie con cui potevano crearsi tensioni”. In quei mesi si alternarono somali, eritrei, etiopi e sudanesi. Non ci furono problemi dal punto di vista dell’ordine pubblico, grazie anche al lavoro di mediazione dei volontari come Jacopo. Fra le misure più contrastate dai giovani di origine africana c’erano di sicuro i trasferimenti collettivi e coatti dalla frontiera di Chiasso verso l’hotspot di Taranto senza informare le persone sulla destinazione. Si trattava di una misura criticata da diverse realtà (Asgi e associazione Firdaus in testa) e presa per “prevenire – sono le parole usate dal sottosegretario alla difesa Domenico Rossi – turbative dell’ordine pubblico ed evitare che l’alta concentrazione di migranti potesse dare luogo a emergenze igienico-sanitarie”. Così, il ministero aveva chiesto alle prefetture di Como e Ventimiglia di organizzare i trasferimenti verso l’hotspot, affidando il servizio a società da selezionare tramite procedure a evidenza pubblica. In molti casi i migranti stessi, una volta a Taranto, ritornavano a Nord per provare di nuovo a varcare la frontiera in una sorta di doloroso gioco dell’oca. 

“Per loro significava anche perdere tempo, soldi e dividersi dalle persone con cui si viaggiava insieme – commenta Jacopo – così, decidono di organizzare un atto di protesta cui aderiamo anche noi volontari. Rispetto ad altre volte non chiedemmo l’autorizzazione in Questura perché non era una nostra iniziativa. C’è una foto, davanti all’ufficio, peraltro non più operativo, della ditta che si occupava dei trasferimenti: sono centoventi migranti e compare anche la bandiera degli Oromo”.
Il foglio di via fu notificato poco dopo, quando l’accampamento in stazione venne smantellato e i migranti entrarono nel campo istituzionale allestito dalla Croce Rossa su iniziativa della Prefettura.

“Mi arrivò a inizio novembre – racconta il giovane – proprio mentre cominciavo a lavorare sui centri di aggregazione giovanile per una cooperativa. Mi sembrava talmente assurdo che decisi per la procedura più snella ed economica, vale a dire il ricorso gerarchico al prefetto, il quale però decise di confermare la misura. Così cominciò un periodo delirante in cui chiesi la parzializzazione della misura sugli orari di lavoro, nonostante i miei fossero flessibili. In più la convenzione era in proroga, quindi avevo un rinnovo ogni due mesi circa. Quindi, ogni volta dovevo ricominciare da capo la trafila. La facevo perché avevo una responsabilità educativa”.

L’episodio, da cui prende via il procedimento penale, è la partecipazione a Como alla marcia per la Pace del gennaio 2017, evento organizzato insieme al suo gruppo scout di Cantù. “Dovevo accompagnare i ragazzi – sottolinea – ero consapevole del rischio, ma non mi aspettavo questo genere di durezza”. La condanna per la violazione del foglio di via va da uno a sei mesi di carcere: “se devo essere condannato per aver partecipato alla marcia della Pace e aver sostenuto che trasportare i migranti a mille chilometri di distanza in bus non è l’azione più intelligente che si possa fare, allora sarà così. Ma almeno, sia palese a tutti” ha pensato Jacopo che ha potuto coprire le spese legali necessarie grazie ad una raccolta fondi dal basso. Il 24 giugno scorso poi l’epilogo favorevole della vicenda con il giudice che ha deciso per l’assoluzione piena. “Il foglio di via è la forma più bieca possibile di esercizio del potere – conclude Jacopo – peraltro ora potenziata col daspo urbano. Del resto, la criminalizzazione, purtroppo, procede a macchia d’olio. Prima è toccato ai “no border”, poi ai volontari solidali, poi agli operatori dell’accoglienza e, infine, a chi salva le persone in mare. In questi tre anni c’è stato modo di costruire una piccola campagna. L’obiettivo, in fondo, era uno: guardare in faccia la questione”.

 

Immagine di copertina: Jacopo Mascheroni insieme con i suoi amici e sostenitori fuori dal tribunale di Como, appena dopo l’assoluzione. (Foto di Andrea Butti)

Etichettato con:Como, criminalizzazione della solidarietà, Francia, Hotspot, morti di frontiera, rotta comasca, Svizzera, Ventimiglia

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