Nell’ambito del progetto “Alternative alla detenzione: verso una gestione efficace e umana della migrazione”, svolto in collaborazione con Progetto Diritti, la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD) sta conducendo una serie di approfondimenti con esperti del campo.
Dopo aver intervistato Jerome Phelps e il Prof. Giuseppe Campesi, è la volta di Giulia Fabini, Professoressa a contratto e assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna ed assistente editor presso lo European Journal of Criminology. L’attività di ricerca della Dottoressa Fabini si concentra sulle pratiche di controllo dei confini, del territorio, della sicurezza e dell’immigrazione irregolare. In particolare, Fabini si è occupata dell’attività dei giudici di pace e della detenzione considerata da un’ottica di genere. Con noi ha parlato della natura selettiva, sanzionatoria e simbolica della detenzione amministrativa in Italia e delle sue alternative. Alternative che, nella sua visione, sono strettamente legate alla regolarizzazione
Dott.ssa Fabini in alcuni suoi studi sostiene che nella gestione dell’immigrazione irregolare in Italia le forze di polizia attuano una strategia selettiva. Può dirci qualcosa di più in proposito?
In Italia attualmente ci sono 600.000 irregolari che costituiscono il bacino verso il quale teoricamente dovrebbe essere applicato il meccanismo espulsivo. Il compito della polizia di espellere tutti i migranti irregolari tuttavia è impossibile. Avviene quindi una selezione. La sfida è capire se il sistema è schizofrenico, se la selezione avviene per caso o a campione, oppure se ci sono delle logiche che guidano questa selezione. Quello che emerge dalla ricerca è che vengono adottate delle pratiche di gestione dell’immigrazione irregolare; sono selezionati alcuni soggetti al posto di altri in base a criteri ed esigenze.
La mia ricerca era partita dal periodo 2010-2011 nel contesto bolognese e riguardava in particolare le pratiche di controllo dell’immigrazione irregolare da parte della polizia municipale. Dalle interviste con migranti e polizia, emergeva l’idea che il controllo dell’immigrazione irregolare fosse molto legato al sospetto di spaccio. Sembrava quindi che ci fosse un utilizzo strumentale della legge dell’immigrazione, una legge indeterminata che lascia un margine di discrezionalità nella propria applicazione. A detta degli intervistati, veniva infatti utilizzata come mezzo più veloce e flessibile per andare a colpire il fenomeno che negli anni abbiamo definito “pericolosità migrante” – concetto complesso con cui, in un lavoro recente, io e Giuseppe Campesi facciamo riferimento alle retoriche che vengono mobilitate per giustificare la detenzione amministrativa e le alternative alla detenzione. Le pratiche di controllo del territorio si sovrapponevano a quelle di gestione dell’immigrazione irregolare: era molto più facile dimostrare che, ad esempio, una persona fosse irregolare piuttosto che provare che stesse spacciando. La legge sull’immigrazione diventava perciò uno strumento spendibile dalla polizia per andare a controllare un elemento diverso dall’immigrazione irregolare, ossia per andare a gestire il territorio e la popolazione, agendo sulla base del semplice sospetto, o per rassicurare i residenti, o per rispondere a campagne mediatiche del momento.
Quest’idea di “pericolosità migrante” è stata confermata anche nelle mie ricerche successive. Sebbene paradossalmente sia sufficiente essere irregolare per essere trattenuti in un Cpr, la retorica della detenzione amministrativa sembra essere quella della pericolosità. Migranti, polizia e giudici di pace mi hanno tutti ripetuto che il rischio di finire in Cpr è maggiore se si è fatto qualcosa di grave e che il fatto di essere irregolare non è in realtà determinante per far sì che si venga fermati e portati in un centro di detenzione. Vi è quindi questa componente di pericolosità del soggetto sulla quale è necessario interrogarsi. Se da un lato ci sono individui che hanno realmente commesso reati (oltre ad essere irregolari) che finiscono nei Cpr, dall’altro, quando si va a decostruire questa pericolosità, si rimane con poco in mano. Le persone trattenute sono persone caratterizzate da tanta marginalità, tanta povertà, qualche volta spaccio – che sono il risultato della condizione stessa di irregolarità – e qualche volta (sebbene in maniera minore) reati contro la persona.
Vi è inoltre è un ulteriore aspetto da prendere in considerazione: l’idea di pericolosità cambia da contesto a contesto, da città a città, da questura a questura, da governo a governo, da giudice di pace a giudice di pace. Tanto è vero che, nel 2013, quando il Cie di Bologna era ancora aperto, i giudici di pace mi dicevano che la questura locale mandava solo migranti che erano “effettivamente delinquenti”, mentre da altre questure arrivavano anche migranti “non pericolosi”, ovvero che non avevano commesso nessun reato.
Il concetto di “pericolosità migrante” può essere ritenuto ancora valido oggi?
Mi sembrerebbe strano che la gestione dell’immigrazione irregolare e delle espulsioni sia cambiata, ma non lo dico con assoluta certezza. Avrei bisogno di vedere i dati empirici di quello che è successo nel corso di questi anni; vorrei vedere se i soggetti che sono stati richiedenti o titolari di protezione internazionale, sono stati poi destinatari di decreti di espulsione, di misure alternative alla detenzione o di misure di detenzione. Con l’aumento del numero di Cpr e con la possibilità di trattenere i migranti anche in altre strutture non definite, come stabilito dal cosiddetto Decreto Salvini, questa mappatura però diventa difficile. Conta molto anche il luogo in cui si osserva la situazione, se a Bologna dove non c’è il Cpr, a Bari dove c’è uno dei pochi Cpr sempre rimasti attivi e dove si è a più stretto contatto con gli hotspot, o a Gradisca dove c’è un Cpr di frontiera. Tuttavia, sebbene le logiche cambino molto a seconda dei contesti, una detenzione di massa mi spiazzerebbe. Visto che i posti disponibili nei centri sono limitati, che interessa ha la polizia di fermare chiunque e portarlo in un Cpr? E di fronte alla mancanza di accordi di riammissione, qual è la logica di trattenere i cittadini di quei paesi che difficilmente saranno espulsi?
A fianco al concetto di pericolosità migrante, ci sono anche altri aspetti che però andrebbero esplorati. Recenti ricerche condotte in Spagna parlano di un managerial turn, cioè di come i criteri selettivi siano cambiati e si dirigano ora verso la nazionalità delle persone. A seguito della crisi economica e data la maggiore esigenza di efficientismo nelle espulsioni, si è iniziato a selezionare e a trattenere solo i soggetti con le nazionalità che si potevano espellere. Secondo me però la detenzione amministrativa in Italia rimane una detenzione selettiva a cui si applica l’idea di pericolosità sommata ad altri aspetti. Siamo tuttavia nel campo delle ipotesi, perché mancano dati e i pochi dati che ci sono non vengono raccolti bene, sono difficili da disaggregare. I dati di espulsioni e respingimenti, ad esempio, sono a volte sommati e a volte no, e quindi non è chiaro quali riguardano le espulsioni e quali i respingimenti.
Nonostante da molti fronti si ritenga che i centri di detenzione siano utili, i dati dimostrano che meno del 50% delle persone trattenute sono effettivamente rimpatriate e che molte di queste rientrano poi in Italia. Lei cosa ne pensa?
Da quando sono stati costruiti i centri di detenzione amministrativa, non si riesce ad espellere più del 50% di chi viene trattenuto. Tendenzialmente, inoltre, o si viene espulsi nel corso del primo mese o non si viene più espulsi, soprattutto se non ci sono accordi di riammissione con i paesi di origine. Se l’obiettivo dichiarato è quello dell’espulsione, nel momento in cui i dati dimostrano che l’espulsione è possibile solo in un numero ristretto di casi, è evidente che il fine non giustifica i mezzi. Dal punto di vista giuridico e funzionale, la detenzione amministrativa non è perciò uno strumento efficace, non si “autogiustifica”.
La funzione materiale dei Cpr tuttavia non si limita a una capacità espulsiva. Ci sono infatti degli obiettivi non dichiarati, con i quali si entra in un terreno estremamente scivoloso. Se l’obiettivo non dichiarato è quello di dare uno strumento in più alla polizia per gestire il territorio, allora la detenzione amministrativa assume un’altra utilità. In un sistema in cui è la legge stessa a produrre l’irregolarità (che si accompagna alla marginalità, al lavoro nero, al vivere in case fatiscenti), i Cpr, i decreti di espulsione o le denunce per permanenza irregolare sono strumenti che permettono alla polizia di fermare una persona per motivi di “decoro” pubblico e di gestione della popolazione. Il controllo dell’immigrazione irregolare non è più quindi il fattore che determina l’utilità dei centri e la legge sull’immigrazione viene utilizzata per raggiungere altri obiettivi. Allora emerge tutto un altro discorso, bisogna leggere i dati in maniera diversa, tutta un’altra serie di esigenze porta al risultato della detenzione.
Durante l’emergenza sanitaria, il numero di persone trattenute nei Cpr è diminuito considerevolmente senza conseguenze per l’ordine pubblico. Secondo lei questo fatto può diventare un precedente?
Me lo sto chiedendo anche io. Nel momento in cui l’espulsione non può essere messa in atto, la giustificazione della detenzione amministrativa viene legalmente meno. Con l’emergenza sanitaria e il blocco delle espulsioni, il numero delle persone trattenute è perciò diminuito. Si potrebbe affermare che, se è quindi possibile che la gente non venga trattenuta né espulsa in un contesto di emergenza, è evidente che non è nemmeno necessario farlo una volta che l’emergenza è superata. Non c’è bisogno di trattenere gente nel Cpr neanche in condizioni normali. Questo argomento però regge solo quando crediamo al concetto di Giustizia sociale, non a nazionalismi e rafforzamento dei confini, e non è abbastanza forte per controbattere a chi dice: “In tempi eccezionali è giusto non trattenere gli irregolari perché tanto non li puoi espellere; in circostanze normali invece lo si può”.
Oltre a ciò, c’è anche l’argomento dell’ordine pubblico. Sottolineando che, nonostante siano solo 11 i trattenuti (in data 8 giugno 2020) al Cpr Ponte Galeria di Roma, non ci siano state conseguenze per l’ordine pubblico, affermiamo che i soggetti non sono pericolosi e quindi non dovrebbero essere trattenuti. In qualsiasi caso non dovrebbero tuttavia essere trattenuti sulla base di una presunta pericolosità; dovrebbero essere trattenuti solo perché irregolari. Questo tipo di rilievo critico dimostra perciò che la detenzione amministrativa si giustifica sulla percezione di pericolosità dei soggetti che sono trattenuti. Per trattenere la pericolosità migrante però esiste già un altro sistema; per un soggetto colpevole di aver compiuto reati c’è il carcere e non la detenzione amministrativa.
Le domande che dobbiamo porci dovrebbero essere: perché i pochi che rimangono sono ancora trattenuti? Come lo giustifichiamo questo?
Com’è cambiata la gestione della migrazione dopo la chiusura del Cie di Bologna nel 2013?
Durante la ricerca di dottorato mi ero inserita nel contesto dell’Osservatorio LEXILIUM, che operava a Firenze e in quattro città in cui c’erano Cie (Roma, Bari, Bologna e Torino). Nel 2011, quando ho iniziato, il Cie di Bologna era aperto ed è rimasto tale fino a marzo 2013. È stato molto interessante vedere come è cambiato l’approccio alla gestione dei migranti sul territorio nel momento in cui il Cie non c’era più. Venendo a mancare la possibilità di trattenimento, si sono iniziate a utilizzare alternative restrittive alla detenzione (in particolare l’obbligo di presentazione in questura, la consegna del passaporto e in alcuni casi la permanenza nel domicilio), che risultavano assenti nei fascicoli del 2011, 2012 e 2013, precedenti alla chiusura del Cie. Sono delle misure che iniziano ad emergere nel 2014 e aumentano poi nel 2015. Dalle interviste che ho condotto con alcuni migranti nel contesto bolognese nel 2011, nel 2013 e nel 2015, era inoltre emersa l’dea che la chiusura del centro equivaleva a una tutela dall’espulsione.
In che modo tale sviluppo si sia ripercosso a livello di gestione del territorio, però, faccio fatica a dirlo. Nello stesso periodo, infatti, vi è anche la cosiddetta “crisi dei rifugiati”, si espande il meccanismo dell’accoglienza e cambia l’idea di migrazione del discorso pubblico, scompare il “clandestino” e compare il “richiedente asilo”. Vi è quindi una ri-declinazione della “pericolosità del soggetto”, che non è pericoloso perché spaccia e ruba, ma perché è costoso e ci toglie risorse. È anche un frangente in cui si modificano le politiche di controllo dei confini, facendo diventare sempre più importanti i confini esterni. Sebbene in un primo momento il nuovo paradigma umanitario sembri sostituire quello securitario, con l’associazione “richiedente asilo-terrorista” (che però, per fortuna, non mi sembra divenga prevalente nella gestione dei flussi migratori in Italia) riemerge il paradigma securitario. La chiusura del Cie come spiegazione per un possibile cambiamento della gestione della migrazione nel contesto bolognese diventa solo una variabile in un contesto che è stato modificato anche da altri aspetti.
Sarebbe interessante vedere come, negli anni della cosiddetta crisi dei rifugiati, lo strumento delle alternative alla detenzione è stato utilizzato in città in cui non vi era il Cpr, capire chi è stato trattenuto nei Cpr e determinare se vi era un meccanismo di controllo altrettanto forte che in passato. Bisogna fare attenzione alla ricerca stessa, ai fenomeni che illuminiamo con le nostre domande di ricerca, e a quelli che lasciamo in ombra benché continuino ad esistere.
Nell’attuale contesto italiano è possibile mettere in atto delle alternative non coercitive alla detenzione (ad es. il case-management)?
L’obiettivo dovrebbe essere la regolarizzazione e la possibilità di spostarsi liberamente da un paese all’altro indipendente dal passaporto che si ha o che non si ha. Questa chiaramente è la prospettiva finale. Bisogna pensare a un percorso, a una serie di elementi che ci permettano di arrivare a questo risultato. Strumenti come il case-management mi sembrano una soluzione pragmatica e utile; permettono di fornire un supporto materiale a una persona in un contesto difficile, di collaborare con questa affinché non venga sradicata dal territorio e allontanata dai propri affetti, di evitare che venga portata in un paese che non conosce o di favorire un rimpatrio volontario. In alcuni casi, gli stessi rimpatri volontari possono diventare un’interessante strategia d’azione. Mi spiego, avevo conosciuto un giudice di pace che considerava il rimpatrio volontario come uno strumento di aiuto. Sosteneva infatti che il rimpatrio volontario servisse a illuminare una situazione di difficoltà e ad aiutare la persona in questione a regolarizzarsi. Considerando che il giudice di pace ha la possibilità di posticipare la data del rientro, il migrante ha il tempo di mettere insieme una serie di elementi che giustifichino il fatto che lui possa rimanere.
Il problema quindi è a monte, sta nella produzione stessa dell’irregolarità, un’irregolarità che nasce nella legge sull’immigrazione e che, nonostante sia legata a una serie di problemi sociali, risulta utile alla società (basti pensare ai lavori svolti da stranieri, ad es. badanti, lavoratori agricoli, porta pizze). Siamo tutti coinvolti in questo sistema e lo sfruttiamo. È quindi la produzione dell’irregolarità che dovrebbe essere colpita.
L’alternativa alla detenzione amministrativa dovrebbe essere, pertanto, la regolarizzazione.
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