La conferma alla fine è arrivata. Il 18 aprile sono morte centinaia di persone partite da Tobruk (Libia) nel naufragio di un’imbarcazione carica di migranti. Somale? Eritree? Sudanesi? 400? 500? Difficile dirlo. Sicuramente provavano a raggiungere l’Italia e l’Europa e sono morte in mare a 365 giorni esatti da un altro drammatico naufragio, nel quale morirono circa altri 900 migranti a largo delle coste siciliane.
Stesso giorno, stesso tratto di Mar Mediterraneo che – dati alla mano – è ormai da più di un decennio il più pericoloso del pianeta, almeno per migranti e rifugiati.
L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) stima che dal 2000 oltre 40mila migranti siano morti nei mari di tutto il mondo. E sarebbero 22.400 quelli che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le coste italiane ed europee in cerca di un futuro, una media di circa 1.500 morti in mare all’anno. Un numero tuttavia che è in costante aumento fin dai primi anni del nuovo secolo, con un’impennata a partire dal 2006.
Secondo gli ultimi dati raccolti dall’Oim, sarebbero 5400 i migranti nel mondo morti in mare nel 2015. Tra questi, ben 3770 avrebbero perso la vita in quello che è il tratto di mare più pericoloso, ovvero il Mediterraneo e in particolare la sua rotta centrale dove, nel passaggio dal Nord Africa all’Italia, avviene più del 75% dei decessi a fronte di un numero di arrivi relativamente modesto rispetto a quelli sulle isole della Grecia (vedi grafico in basso).
Nel Mediterraneo nel 2011, i morti sono stati circa 1500; nel 2012, circa 500; nel 2013, più di 600. Nel 2014, sono stati registrati 3200 decessi, un numero cresciuto ancora nel 2015. E si tratta di un trend che prosegue costante nel 2016: finora 1261 migranti morti in mare secondo l’Unhcr e 1232 secondo l’Oim (dati aggiornati al 25 aprile).
Come diversi osservatori hanno notato in queste settimane, uno degli effetti dell’accordo tra Turchia-Ue per il filtro dei migranti provenienti da Siria, Iraq, Afghanistan e dagli alti paesi dell’area, è quello di convogliare parte del flusso di migranti e rifugiati dalla rotta orientale verso quella del Mediterraneo centrale con barche in partenza dalla Libia e – ora – anche dall’Egitto.
La rotta verso l’Italia, in altre parole, potrebbe costituire la via alternativa per decine di migliaia di rifugiati che iniziano a trovare la porta chiusa in Turchia. Non c’è la sicurezza, ma molti indizi conducono a pensarlo. Come hanno notato Heaven Crawley e Nando Sigona in un articolo su The Conversation che fa il punto con precisione su questo tema, «tra il 10 e il 17 marzo, il numero di arrivi in Grecia è calato del 47% e al tempo stesso il numero di persone salvate a largo della costa libica è aumentato del 518%».
A conclusioni analoghe approda il recente rapporto Death by Rescue, realizzato da Forensic Oceanography, un team dell’Università di Londra. «Ricordare le responsabilità delle istituzioni Ue e degli Stati membri per le conseguenze mortali delle loro scelte – si legge nello studio – è dunque un invito a passare da politiche che vogliono selezionare e bloccare i movimenti dei migranti a politiche che concedano passaggi legali e sicuri, rendendo così superati i trafficanti e la stessa necessità di salvare migranti in mare, e fermando l’elenco di oltre 20mila casi registrati di morti in mare».
Il passaggio dall’operazione tutta italiana Mare Nostrum (iniziata nell’ottobre 2013 e conclusa il 31 dicembre 2014) a quella europea Triton ha paradossalmente reso più pericoloso quel tratto di mare. Un effetto è stato che nel 2015 il principale attore nelle operazioni di ricerca e salvataggio in mare sono state le imbarcazioni private e commerciali, che tra il 1 gennaio e il 20 maggio hanno salvato 11.954 persone nel Mediterraneo.
Twitter: @alessandrolanni