“Non ho paura del Coronavirus. Ho attraversato la Libia, il Mediterraneo.. Non ho paura perché ho visto tante cose prima di questa. E poi nella situazione in cui sono adesso cosa potrei fare?”. Alì B. ha 31 anni. Ha lasciato il Camerun a 24 e nel 2014 è arrivato in Italia. Da marzo dorme a piazzale Spadolini, dietro la stazione Tiburtina. “A Roma lavoravo in un albergo come lavapiatti, tante ore, pochi euro. Sono andato a Cassino”. Il permesso umanitario è scaduto a marzo. “Ho la residenza a Roma, a febbraio sono tornato per rinnovarlo, e sono rimasto bloccato dal coronavirus. Non ho abbastanza soldi per pagarmi una stanza: sono andato in un centro emergenza freddo, poi è stato chiuso”. Alì B. aspetta qui la riapertura delle procedure di rinnovo.
Sono molte le persone che come lui dormono alle spalle del secondo snodo ferroviario di Roma. Un piazzale per molto tempo vuoto, adibito a parcheggio dal 2011, anno di ristrutturazione della stazione. Un luogo di transito per chi, lasciando qui la macchina, prende la metropolitana o i treni. Una zona piuttosto isolata anche prima dell’emergenza Covid-19, che ora è diventata praticamente invisibile. Come le persone che ci vivono; almeno, per le istituzioni.
“Subito dopo il primo decreto ministeriale legato all’emergenza coronavirus abbiamo presentato un esposto a Comune di Roma, Prefettura e Protezione Civile, sollecitando locali per l’accoglienza, distribuzione dei dispositivi di protezione, monitoraggi sanitari”, spiega Andrea Costa, coordinatore di Baobab Experience. L’associazione dal 2016 distribuisce qui cibo e vestiti. “Non abbiamo avuto risposta. Possibile che nessuno abbia pensato di predisporre qualcosa per far dormire le persone in stato di sicurezza?”. Sembrava ci fosse la possibilità che quaranta persone venissero spostate in una palestra nel II Municipio: una risposta comunque parziale, che non si è concretizzata a causa della posizione contraria della giunta municipale in quota Pd.
Di fatto le istituzioni non hanno mai preso in carico la situazione. E durante l’emergenza sanitaria l’atteggiamento non è cambiato. “Le istituzioni si sono viste solo due volte: polizia locale e protezione civile hanno distribuito mascherine e guanti”, spiegano i volontari di Baobab, che continuano, come fanno da anni, a offrire un primo sostegno ai migranti. “Per il 25 aprile abbiamo attivato una raccolta che ci ha permesso di avere mascherine, gel e coperte, e questo è ottimo perché settimana scorsa ha piovuto: e mentre prima del Coronavirus saremmo potuti andare in lavanderia ora non è possibile”, spiega Alice Basiglini, una volontaria. In mano ha alcuni fogli con la storia della Liberazione scritta in varie lingue: “Vogliamo spiegare cosa rappresenta per l’Italia questa giornata e i valori che la costituiscono, applicati all’oggi, anche in luoghi come questo”.
Luoghi che non dovrebbero esistere e in cui nessuno dovrebbe essere costretto a vivere. Invece al momento ci dormono circa un centinaio di persone, la maggior parte uomini di circa trent’anni da Sudan, Mali, Camerun, Gambia, Eritrea, Afghanistan. Alcuni hanno costruito un riparo con cartoni, sacchi della spazzatura e lenzuola. La maggior parte dorme sotto la tettoia della stazione, su materassi e coperte stese una accanto all’altra. Naturalmente non è presente alcun servizio visto che non è uno spazio adibito ad accogliere persone, che quindi sono costrette a lavarsi usando delle bottiglie. In occasione del Ramadam è stata creata con dei tappeti una zona di preghiera.
L’esistenza stessa di un posto come questo e le condizioni in cui le persone vivono mostrano le mancanze e i fallimenti delle istituzioni.
“Questa emergenza c’è da molto prima del Covid-19. Le persone aspettano anche un anno il rinnovo del permesso o la Commissione per il riconoscimento dell’asilo”, sottolinea Giovanna Cavallo, referente dello sportello legale di Pensare Migrante che segue molte delle persone presenti. E che sottolinea come l’emergenza Covid-19 stia solo peggiorando una situazione già grave. E’ il caso di Famakan N., arrivato dal Mali a vent’anni. Ora ne ha ventinove, lavora nelle campagne. Ha un permesso di protezione umanitaria per cui sta aspettando il rinnovo dal 26 settembre. “Ho la residenza a Roma e sono dovuto venuto qui per il rinnovo. Sono andato a dormire in un centro emergenza freddo. A settembre mi hanno spostato l’appuntamento di due mesi. Poi l’hanno spostato ancora”. Di mese in mese, è arrivato marzo e lo stop di tutto a causa del coronavirus. Ma per Famakan N. purtroppo non è cambiato molto: non aveva un posto dove dormire a settembre, e non ce l’ha ora.
Per chi come lui è titolare di protezione umanitaria “stiamo provando a ottenere il rinnovo per attesa occupazione o motivi di lavoro, dato che a causa dell’approvazione del Decreto Salvini il loro status non è più riconosciuto”, spiega Yasmine Accardo di Pensare Migrante: un modo per evitare che molte persone cadano nell’irregolarità, diventando ancora più vulnerabili.
“Il congelamento della condizione fisica e giuridica di queste persone è conseguenza delle lungaggini burocratiche e responsabilità di chi dovrebbe promuovere politiche di inclusione e non lo fa” dichiara Cavallo.
Molte persone, nonostante siano da anni in Italia, non sono riuscite ad inserirsi nel tessuto socio-economico del paese. Le responsabilità maggiori sono da rintracciarsi in un circuito dell’accoglienza che nella maggioranza dei casi si concentra su grandi strutture, con gare d’appalto vinte al ribasso, nessuno strumento per l’autonomia né attenzione all’autodeterminazione. Queste premesse portano le persone a passare da un centro all’altro, prima di uscire dal sistema di accoglienza per decorrenza termini e trovarsi, sostanzialmente, al punto di partenza. Con la differenza di un documento, che però nella pratica della vita quotidiana cambia poco. “Non c’è lavoro, lo cerco da anni”, spiega Malik, trentenne della Sierra Leone. Le persone che dormono qui hanno alle spalle lavori intermittenti, malpagati, senza contratto. Con l’emergenza Covid-19 hanno perso anche quelli.
“Un ragazzino arriva qui con tanti sogni, poi vedi le cose come vanno?”, domanda Reza. Trentatré anni, di cui dodici passati in Europa sperimentando sulla propria pelle la mancanza di un sistema comune di asilo. “Nel 2008 ho lasciato il mio paese, dopo quattro mesi di viaggio sono arrivato ad Ancona. Mi hanno trasferito ad Agrigento. Ho fatto richiesta di protezione ma non è stata accettata. Non trovavo lavoro, ero solo, sono andato in Svezia, poi Norvegia e Francia, lavoravo ma senza contratto. Per via del Regolamento Dublino non potevo fare richiesta di regolarizzazione se non in Italia, dove sono stato rimandato: finalmente hanno accettato la mia domanda”. Ora è titolare di protezione sussidiaria. “Vorrei un po’ di tranquillità, da anni passo da una città all’altra, lavorando senza contratto.. e il tempo passa, non vedo mia madre da tredici anni. Sono stanco. Non è facile trovare casa né un proprio percorso in queste condizioni”. Dopo tanti anni, Reza si trova qui. “So che a Roma ci sono dei posti dove trovare aiuto. Sono stato all’ostello della Caritas, poi in un centro per l’emergenza freddo”. Chiuso il centro, alcuni connazionali gli hanno parlato di piazzale Spadolini. “Sono arrivato alla stazione ma non capivo dove dovevo andare. Ho chiesto ai vigilanti dove fossero i ragazzi senzatetto, e mi hanno indicato la strada”.
La condizione in cui si trovano le persone che dormono a piazzale Spadolini è condivisa da molti altri migranti e rifugiati. “Il problema presente qui è parte di una questione più ampia, che solo a Roma coinvolge decine di insediamenti informali, a partire dalle grandi stazioni di Termini e Ostiense”: così Alberto Barbieri, coordinatore di Medici per i Diritti Umani, che a Tiburtina gestisce un presidio sanitario. “Il 60% della popolazione homeless in Italia è costituita da stranieri, di cui una buona parte titolari di protezione internazionale”. Il dato conferma l’assenza di percorsi di sostegno per l’autonomia delle persone. La cifra non tiene conto delle molte persone in condizioni di precarietà abitativa. “Ad esempio nelle occupazioni la percentuale di stranieri è molto alta, possiamo parlare del 90%, al cui interno almeno l’80 se non il 90% sono rifugiati”.
Persone che sulla carta devono essere protette e avere garanzia dei diritti, tra cui quello alla salute, ma che nella realtà fronteggiano diverse barriere: la mancanza di una residenza riconosciuta dalle istituzioni, le difficoltà linguistiche non colmate da alcuna formazione rivolta ai lavoratori del settore, la presenza di discriminazioni. “Il lavoro che facciamo è cercare di restringere questi gap”, spiega il referente di Medu, che solo sul territorio romano segue duemila persone senza fissa dimora. “A Roma sono ottomila le persone homeless. Rispetto a questa situazione, nel contesto attuale dell’emergenza sanitaria solo le associazioni portano avanti un lavoro di sorveglianza attivo sul territorio”.
Come sottolinea Barbieri, l’esistenza della pandemia magnifica tutte le problematiche, e l’assenza istituzionale non fa eccezioni. “Manca un piano nazionale coordinato per le persone homeless o in forte precarietà abitativa. Ciò è legato anche al fatto che la sanità in Italia è regionalizzata: ora, di fronte a forti disomogeneità, ne vediamo i limiti”. Ad oggi la Regione Piemonte è l’unica dotata di linee guida specifiche sulla situazione delle persone senza fissa dimora, e solo l’Emilia Romagna ha attivato un fondo specifico. Sul piano della Regione Lazio è all’attivo un’interlocuzione con le associazioni per strutture dove persone homeless con sintomi clinici riconducibili al coronavirus possano essere seguite in isolamento. “Auspichiamo che nel giro di poco tempo possa partire operativamente questa struttura”.
Accanto a un piano coordinato Barbieri sottolinea la necessità di un fondo nazionale per integrare le risorse delle Regioni: “Questo è un problema di sanità pubblica, interessa tutta la collettività. Sono passati più di due mesi: registriamo il ritardo dell’intero territorio nazionale”.
In copertina: Un ragazzo cammina la sera in Piazzale Spadolini. Foto di Valerio Muscella