In un caffè della periferia di Medenine la tv è sintonizzata su una partita di calcio, e gli avventori siedono tutti in fila, uno vicino all’altro, dando le spalle all’ingresso per guardarla.
Nessuno consuma nulla, qualcuno accende una sigaretta, tutti seguono il gioco. Alcuni di loro sono molto giovani, poco più che bambini, altri hanno fra i venticinque e i trent’anni, il più adulto è accompagnato dal figlio di otto anni, che fa avanti e indietro tra la fila di sedie colorate e il bancone, dove il barista cerca un gelato da regalargli.
“In questo locale i migranti subsahariani sono i benvenuti – spiega il titolare – anche quando non hanno i soldi per la consumazione. Magari gli offro solo dell’acqua, o un tè, e possono guardare la televisione. Molti di loro dormono per strada, qualcuno riesce anche a trovare una casa in affitto, da dividere con altri, ma spesso si tratta di tuguri. Hanno affrontato viaggi terribili e io li rispetto per questo.”
Le fratture di Mohammed
Intanto Mohammed si è spostato dal resto del gruppo ed è seduto in veranda a prendere una boccata d’aria. Cammina piano, con la schiena leggermente curva, e una mano sul fianco destro.
Ha ventiquattro anni ma sembra un adolescente. “Ho sempre dei dolori molto forti da quando mi hanno rotto le costole – racconta – è successo molti mesi fa in prigione, in Libia, non mi sono mai ripreso del tutto. Avrei bisogno di un dottore, ma non ne ho mai incontrato uno, nemmeno quando sono entrato qui in Tunisia e sono stato registrato dall’Unhcr come richiedente asilo.” Partito dall’Eritrea oltre un anno fa, Mohammed è stato bastonato più volte durante la sua detenzione. “Mi ha detto che per molti giorni ha perso sangue ogni volta che tossiva – interviene Kibrom che lo ha appena raggiunto fuori – poi pian piano è guarito, ma non completamente. Io stesso sono stato in carcere in Libia e so cosa vuol dire, ho un piede che non muovo più come prima per le botte che ho preso, ma ci sono altri ragazzi come me che sono stati ammazzati, quindi sono stato fortunato.”
Kibrom, il viaggiatore bambino
Kibrom ha sedici anni ed è partito dall’Etiopia quasi tre anni fa, quando ne aveva tredici. È scappato nel novembre del 2020, poco dopo l’inizio del conflitto del Tigrai tra le forze governative
di Adis Abeba e il Fronte di liberazione del popolo Tigrai. Provenienti da due paesi confinanti e per anni in guerra, poi passati entrambi dalla detenzione in Libia in momenti differenti, Mohammed e Kibrom si sono conosciuti in Tunisia, dopo aver attraversato la frontiera, e sono diventati amici.
Mohammed non sa leggere, e Kibrom gli sta insegnando a riconoscere i numeri, per poter usare il cellulare da solo. “La mia famiglia è ancora oggi in grave difficoltà, anche se la guerra è finita – dice – perché la mia regione è stata sotto assedio per due anni e ridotta alla fame. Per questo non sono tornato indietro, voglio raggiungere l’Europa e aiutare da lì i miei genitori. Anche io ho ricevuto il tesserino dell’Unhcr, con quello posso muovermi per tutto il paese, ma sono qui da pochi giorni e oggi non saprei dove andare. In realtà vorrei imbarcarmi per l’Italia.”
Nel sud, permanenza temporanea
Medenine, Tataouine, Zarzis e Ben Gardane, sono le città del sud est della Tunisia dove si concentra il maggior numero di migranti che hanno appena attraversato la frontiera con la Libia,
provenienti principalmente dai paesi dell’est dell’Africa Subsahariana, dall’Eritrea alla Somalia, dal Sudan alla Nigeria.
Si tratta di cittadine di medie dimensioni, dove la permanenza non è quasi mai duratura, perché chi arriva qui si ferma solo finché non trova l’occasione di spostarsi più a nord, verso Gabes o Sfax perché ha trovato un contatto per raggiungere un punto di imbarco verso la sponda opposta del Mediterraneo. Il principale snodo delle partenze via mare è Sfax, il secondo centro urbano del paese dopo Tunisi, e l’unico motore industriale di tutta la Tunisia. Nella grande città è più facile trovare lavoro, ma anche finire in qualche rete criminale che prometta di accelerare la raccolta del denaro che occorre per la tappa successiva, la più costosa dopo le estorsioni subite in Libia.
“Negli ultimi giorni i migranti che camminano sul ciglio della strada sono sempre di più – dice Hatem, rientrato a Ben Gardane, sua città natale, per le vacanze estive – qui la gente cerca di
aiutare come può, gli regala acqua e cibo ma ha paura di offrire loro anche solo un passaggio, perché se si viene fermati dalla Guardia Nazionale si può essere accusati di fare da passeur per
denaro.” Da Ben Gardane si cammina costeggiando il mare, da soli, o in piccoli gruppi, sotto il sole cocente e con lunghi tratti di deserto fra un centro abitato e l’altro. Uno dei rischi che si corre è quello di essere depredati lungo la strada, quando ci si ferma per riposare.
Sfax dopo gli scontri di luglio
Nel frattempo, dopo gli scontri avvenuti a Sfax ai primi di luglio a seguito della morte di un 42 enne tunisino in una rissa fra bande locali e di giovani subsahariani, i punti di partenza lungo la costa si sono moltiplicati e frammentati, e molti dei migranti residenti in città si sono dispersi, più o meno forzatamente. Alcuni sono stati condotti a sud, al confine con la Libia, in modo coatto, salvo poi essere recuperati e riallocati dopo le denunce dell’Osservatorio per i diritti umani, altri sono stati mandati via di casa dagli stessi proprietari e si sono accampati fra gli alberi di ulivo, in condizioni sempre più precarie. “Non si può certo dire che la situazione, in termini di presenze, si sia alleggerita – spiega Noman Mezid, avvocato della Lega per i diritti umani di Sfax – perché il flusso di persone che arriva e riparte è costante e non si possono fare statistiche perché tutto cambia da un giorno all’altro. Di certo negli ultimi otto mesi gli arrivi di cittadini dell’Africa Subsahariana sono cresciuti in maniera esponenziale e la loro presenza in quartieri popolari e periferici ha spesso acuito le situazioni di disagio già esistenti. Ci sono stati attacchi contro di loro da parte di gang tunisine, in alcuni casi anche tra loro si sono formate delle bande con propri traffici e una giustizia auto-amministrata secondo codici criminali. Molti proprietari di case, poi, hanno approfittato della presenza dei migranti per guadagnare il più possibile da ogni singolo alloggio, affittandolo anche a dieci persone contemporaneamente e pretendendo una quota da ognuno. Noi cerchiamo di fare quello che possiamo, come società civile, per offrire acqua, cibo, un’assistenza medica. Dal punto di vista legale, come avvocati, denunciamo anche i comportamenti non conformi di alcuni membri delle forze dell’ordine: non è la norma, ma talvolta durante i fermi avvengono degli abusi, parliamo di percosse e per le donne di molestie sessuali. Cerchiamo di dare il nostro supporto dove possibile, dato che qui l’Alto commissariato delle Nazioni Unite non fa assolutamente nulla.”
Un lavoro a Zarzis
Da Sfax c’è anche chi è andato via a seguito di una tentata parenza finita con un naufragio e un intervento della Guardia Nazionale. È il caso di Ibrahim, originario della Sierra Leone, che oggi fa il muratore a Zarzis, quaranta chilometri a sud dalla ben più turistica Djerba, dove l’attività principale è la pesca.
“In questa città ho trovato accoglienza e un lavoro dignitoso – racconta mentre prepara il cemento nel piccolo cantiere dove lavorano in tre, tutti subsahariani – ma ho avuto tante esperienze
negative in passato. Purtroppo se sei nero devi farci i conti, in molti non distinguono fra le persone, i paesi di provenienza, sei nero e questo basta per destare sospetti. Io sono fortunato
perché riesco a sopravvivere del mio lavoro, ma quando finisco mi chiudo in casa, evito di frequentare locali, anche perché non bevo, non fumo, non ho vizi e non voglio problemi.”
Due anni fa, dopo aver messo da parte 5mila dinari (circa 1.500 euro) per pagarsi il viaggio nel Mediterraneo, è salito su una barca che è naufragata al largo delle coste tunisine. Alcuni dei suoi compagni sono annegati, lui si è salvato ma è stato riportato indietro e ha dovuto ricominciare da zero. Il sogno dell’Europa si è fatto ancora più lontano. “Ho buttato via tutto quello che avevo per ritrovarmi di nuovo qui, e probabilmente è qui che devo restare, mi sono detto – ricorda – oggi mi accontento. L’ultimo mio desiderio è di rivedere mia moglie, che adesso è bloccata nel deserto al confine con l’Algeria. Sto cercando un modo per farla arrivare qui, poi non chiederò altro.”
La foto di copertina, strada Ben Gardane e Sfax e quella nell’articolo, Nooman Mezid, sono di Ilaria Romano