Ritorno al passato: si potrebbe ribattezzare così il piano per l’immigrazione del governo italiano, basato su istituti che giuristi e attivisti per i diritti umani speravano di aver accantonato una volta per tutte. Alla riapertura dei Cie (ora chiamati Centri di permanenza per il rimpatrio) e all’eliminazione di un grado di giudizio nei procedimenti per la richiesta d’asilo, si aggiunge un nuovo accordo con la Libia (dopo quelli del 2008 e del 2012), siglato a inizio febbraio per delegare al paese nordafricano il blocco delle partenze di migranti. La Libia, infatti, è il principale punto di imbarco per i migranti e rifugiati che arrivano in Italia.
Giuristi e attivisti, da entrambi i lati del Mediterraneo, hanno immediatamente denunciato i profili di antigiuridicità dell’accordo. Un gruppo di avvocati e intellettuali libici, rivolgendosi al tribunale amministrativo di Tripoli, è riuscito a far sospendere l’applicazione di questo Memorandum of Understanding (MoU). Ma qual è il contenuto dell’accordo? Quali le sue criticità e quale, a oggi, il suo stato di attuazione?
Il contenuto dell’accordo
In base al testo del Memorandum – sottoscritto, per la parte libica, da Fayez al-Serraj, presidente del Governo di accordo nazionale – Roma e Tripoli puntano a risolvere “alcune questioni che influiscono negativamente sulle Parti, tra cui il fenomeno dell’immigrazione clandestina e il suo impatto, la lotta contro il terrorismo, la tratta degli esseri umani e il contrabbando di carburante”. Sorvolando sul preoccupante ritorno della locuzione “immigrazione clandestina”, più volte ripetuta nel testo del MoU,e l’arbitrario collegamento tra immigrazione e terrorismo, le parti dicono di voler:
- cooperare per il “sostegno alle istituzioni di sicurezza e militari (libiche) al fine di arginare i flussi di migranti illegali” (art. 1). In concreto, l’Italia fornisce “supporto tecnico e tecnologico” alla Guardia costiera libica
- chiudere il confine meridionale della Libia (art. 2), principale punto di transito per i migranti dell’Africa sub-sahariana
- si parla poi di “adeguamento e finanziamento” di quelli che eufemisticamente vengono definiti “centri di accoglienza” esistenti in Libia – e che sono, invece, veri e propri centri di detenzione dove la tortura e la privazione costituiscono la regola
- infine, le parti si impegnano “a proporre, entro tre mesi… una visione di cooperazione euro-africana più completa e ampia, per eliminare le cause dell’immigrazione clandestina”.
L’Italia, poi, si impegna a provvedere al finanziamento di tutte le iniziative previste dall’accordo, compreso “l’avvio di programmi di sviluppo… nelle regioni libiche colpite dall’immigrazione illegale”.
Per sintetizzare, la Libia si impegna a sbarrare il passaggio ai migranti del Centrafrica, chiudendo il confine a sud, e a intercettare e bloccare i barconi in partenza dalle sue coste. L’Italia offre il supporto organizzativo (formando e attrezzando la Guardia Costiera libica e il personale dei “centri di accoglienza”), e finanzia non meglio precisati “programmi di sviluppo”.
I (presunti) vantaggi dell’esternalizzazione
Con l’accordo, l’Italia delega alla Libia la gestione dei flussi migratori, come l’Unione Europea aveva fatto con la Turchia offrendole 6 miliardi di euro per bloccare la rotta greco-balcanica. E’ il ritorno della (inefficiente) pratica dell’esternalizzazione dei confini, con cui si lascia a un altro stato il compito di fare la parte del cattivo con i migranti in cambio di aiuto economico. Pur di sbarazzarsi di “questioni che influiscono negativamente”, cioè di questioni impopolari, si scende a patti con paesi terzi senza verificare quale sia lo stato dei diritti umani in questi luoghi, come fatto appunto con la Turchia, col Sudan di Omar al Bashir, con la Libia di Gheddafi.
In questo il contraente europeo, che sia l’UE o l’Italia, cerca di sottrarsi agli obblighi internazionali sulla protezione dei rifugiati (in primo luogo la Convenzione di Ginevra, come evidenziato dall’Asgi) e usa i fondi per lo sviluppo per comprare la serenità nel proprio giardino. In realtà, stringere accordi con partner inaffidabili espone a veri e propri ricatti: lo si è visto in occasione del recente attrito tra la Turchia e alcuni paesi europei, quando il governo di Ankara ha minacciato l’UE di sciogliere unilateralmente il patto sui migranti.
Diritti, questi sconosciuti
L’accordo con la Libia ha molti punti oscuri. In primo luogo, cosa accade ai migranti che si trovano già in Libia? Tripoli non aderisce alla Convenzione sui rifugiati, quindi identifica tutti i migranti illegali come criminali, imprigionandoli, senza riguardo al fatto che, in ragione della loro provenienza o storia personale, possano aver diritto alla protezione internazionale. Non solo: non essendo vincolata nemmeno da norme, come quelle della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che obbligano al rispetto dei diritti umani, non c’è alcuna garanzia che tali diritti siano riconosciuti ai migranti. In questo senso, dire che “le parti si impegnano ad interpretare” gli impegni assunti “nel rispetto degli obblighi internazionali e degli accordi sui diritti umani di cui i due Paesi siano parte” (art. 5 del MoU) è una formula vuota.
Occorre anche considerare la composizione dei flussi migratori in partenza dalla Libia: nonostante sia opinione diffusa che l’Italia sia “invasa” da migliaia di migranti economici africani, che non hanno titolo per ottenere la protezione internazionale, non è affatto così: nel 2016 sono state presentate in Italia 123.600 domande d’asilo. Su un totale di 91.102 domande esaminate, le Commissioni territoriali hanno riconosciuto protezione internazionale nel 40% dei casi (così ripartite: 5% status di rifugiato, 14% protezione sussidiaria, 21% protezione umanitaria). Vuol dire che ogni cinque persone esaminate, due ricevono protezione in prima istanza, un trend che si conferma nei primi due mesi del 2017 (diniego in prima istanza nel 58% dei casi, con un’incidenza della percentuale di rifugiati che a febbraio ha raggiunto il 10%). A questa percentuale si aggiunge quella di chi ottiene il riconoscimento della protezione internazionale in fase di ricorso. Secondo il Consiglio Italiano per i Rifugiati, tra il 2014 e il 2016 il 70% dei ricorsi definiti si è concluso in modo favorevole al ricorrente.
Dunque non si tratta solo di migranti economici. In ogni caso, anche i migranti economici hanno diritto al rispetto dei diritti umani, cosa che la Libia non è in grado di garantire.
Queste persone rimangono esposte a una scelta fra due alternative agghiaccianti: affidarsi ai trafficanti di esseri umani o finire in centri di detenzione dove l’unica norma è la legge del più forte. A questo proposito, il Memorandum of Understanding fra Italia e Libia parla di “centri di accoglienza”; ma in Libia la “gestione dei flussi migratori (è) basata sulla detenzione automatica di rifugiati e migranti in condizioni disumane”, come denunciato da UNHCR e OIM. Le testimonianze raccolte da Amnesty International e Medici Senza Frontiere raccontano una realtà fatta di violenze fisiche e psicologiche, stupri, lavori forzati imposti tanto dai trafficanti quanto dalle autorità ufficiali. Questo è uno degli aspetti più preoccupanti: l’Espresso ha raccolto testimonianze di come la Guardia Costiera libica, proprio l’autorità più coinvolta nel blocco delle partenze, sia collusa con i trafficanti, cui consegna i migranti fermati come merce di scambio. Secondo l’Ispi, il governo di Roma non può non essere informato circa la situazione di “endemica” corruzione nella Guardia Costiera libica, più volte documentata nel corso dell’operazione EuNavforMed.
La Libia non è la Turchia
Riassumendo, con questo accordo l’Italia si sottrae ai suoi obblighi internazionali in tema di non respingimento dei rifugiati, ed espone i migranti a trattamenti disumani e degradanti. Il MoU con la Libia è una brutta copia del contestato patto tra UE e Turchia; ma, a differenza di quello, il pactum sceleris congegnato dall’Italia potrebbe rivelarsi, oltre che disumano (e illegale), anche inefficace. La Libia, infatti, non è la Turchia: non è unita. L’interlocutore dell’Italia è il capo del Governo di accordo nazionale, cioè uno dei centri di potere che insistono (e si fronteggiano) in Libia, non riconosciuto dal Parlamento di Tobruk. Il governo riconosciuto dalla comunità internazionale, invece, è troppo debole per essere considerato un partner affidabile e per sgominare la rete di trafficanti: questi, ammesso che non continuino a corrompere le autorità ufficiali, troveranno facilmente un altro punto per imbarcare i migranti.
Da ultimo, è l’Italia a sobbarcarsi tutto il peso economico dell’accordo, “senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato” (art. 4). Come intenda fare, resta un mistero: appena dopo la firma dell’accordo, l’UE ha offerto 200 milioni a copertura delle spese, ma le richieste di mezzi e apparecchiature fatte dal governo di al-Serraj sono quattro volte superiori a questa cifra. Rimane ambiguo pure il riferimento ai “programmi di sviluppo” da implementare in Libia e nei Paesi di provenienza dei migranti; l’accordo implicitamente subordina la concessione dei fondi per lo sviluppo a uno scambio (denaro a fronte del blocco delle partenze). Una recente risoluzione del Parlamento UE ha ribadito invece che “assistenza e cooperazione UE (devono essere) incondizionate: il supporto dell’UE non dovrebbe incentivare i Paesi terzi a cooperare alla riammissione dei migranti irregolari o dissuadere con la coercizione le persone dal mettersi in viaggio, oppure fermare i flussi diretti in Europa”. Questa logica, ovviamente, deve valere non solo per l’UE nel suo complesso, ma anche per i singoli paesi membri, che non possono, con accordi bilaterali, sottrarsi all’applicazione del diritto comunitario.
Altri profili di illegalità
Per i motivi esposti, quindi, il MoU si presta a determinare un’enorme violazione dei diritti umani dei migranti che rimangano bloccati in Libia, senza probabilmente risolvere il problema delle partenze illegali e delle morti in mare. L’accordo tra Italia e Libia è inficiato anche da profili di illegalità, tanto per il diritto italiano quanto per quello libico.
Per l’Italia, l’Asgi sottolinea come il trattato sia stato concluso dal governo in violazione dell’articolo 80 della Costituzione, secondo cui i trattati di natura politica e comunque quelli che comportino oneri alle finanze devono essere ratificati con una legge del Parlamento. Anche volendo accettare l’improbabile conclusione che l’accordo venga finanziato dall’Italia “senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato” (art. 4 del MoU), resta il fatto che qui non si parla di un accordo meramente tecnico, ma di un trattato che ha indubitabilmente natura politica. Del resto non è la prima volta che, nella conclusione di accordi di esternalizzazione delle frontiere, viene eluso il controllo parlamentare.
Eguali critiche vengono dal fronte libico, capitanato dall’avvocata Azza al-Maqhoor, che ha ottenuto dal Tribunale di Tripoli la sospensione dell’accordo. Come ha spiegato al Corriere della Sera, “Serraj non aveva i poteri costituzionali per firmarlo”, perché il Parlamento non lo ha mai riconosciuto come capo di Stato. Inoltre, l’accordo si richiama espressamente al trattato di amicizia siglato tra Berlusconi e Gheddafi nel 2008, ma a differenza di quello, comporta per la Libia una serie di oneri eccessivi, a fronte di un impegno finanziario dell’Italia non quantificato. “L’Italia s’avvantaggia della fragile situazione libica e della pressione internazionale, trascura ogni obbligo morale stabilito dal diritto internazionale e dalle sue stesse leggi”, commenta al-Maqhoor. “Il problema delle migrazioni ora cade tutto sulle spalle d’una Libia lacerata dalla guerra. C’è il rischio altissimo di creare un clima di razzismo, con migliaia di detenuti in uno stato che non ha polizia né esercito. Serraj non controlla nulla”.
Che ne sarà del Memorandum?
Il Tribunale amministrativo di Tripoli, accogliendo i rilievi di incostituzionalità, ha sospeso in via cautelare l’applicazione dell’accordo. L’esito del processo potrebbe demolire il già fragilissimo trattato bilaterale.
Nonostante questo stop, l’attuazione del MoU procede. Alla fine di marzo, i capi delle principali tribù del deserto libico meridionale sono volati a Roma: qui hanno siglato una tregua per controllare la regione del Fezzan, il confine sud della Libia, respingendo i migranti in arrivo dall’Africa sub-sahariana. E anche se al Viminale l’accordo è stato salutato come un successo della diplomazia, gli esperti sostengono che la pace del deserto sia costruita sulla sabbia, data la fragilità della rappresentanza dei tre gruppi tradizionalmente in conflitto e l’improbabilità che possano sorvegliare insieme 5mila chilometri di confine. A nord, invece, è iniziata l’ultima fase di addestramento della Guardia Costiera libica: sono già stati formati 90 marinai, e a breve saranno consegnate le motonavette necessarie per il controllo del confine marittimo.
FOTO: Gentiloni incontra il Primo Ministro libico – via Palazzo Chigi (CC BY-NC-SA 2.0).