Una piccola società
“Una piccola società, una grande famiglia. Non siamo altro che questo”. Alì, occhi scuri, sguardo fiero, pulisce le verdure per il pranzo. È arrivato in Grecia dall’Afghanistan più di un anno fa, a marzo del 2016, e mai avrebbe pensato di diventare parte di un progetto di condivisione che comincia anche dalla cucina. Dopo essere stato in diversi campi per migranti, è arrivato ad Atene per vivere in questo stabile di sette piani su via Acharnon, a pochi passi dal Museo archeologico nazionale e da piazza Vittoria: il City Plaza, un vecchio albergo che è diventato lo squat più grande della città. L’hotel aveva chiuso per via della drammatica crisi economica, e il 22 aprile del 2016 un gruppo di attivisti e rifugiati ha deciso di occuparlo e di rimetterlo a nuovo. Le 92 stanze oggi ospitano circa 400 persone, di cui la metà bambini. La maggior parte sono richiedenti asilo, ma ci vivono anche molti volontari e attivisti che arrivano da tutta Europa per partecipare a questa esperienza di accoglienza dal basso che sta facendo scuola. Nel suo primo anniversario, infatti, il City Plaza festeggia una scommessa vinta: all’inizio era solo un esperimento di autorganizzazione con cui rispondere – dopo la chiusura della rotta balcanica e la stipula dell’accordo tra Unione europea e Turchia – alla crisi dei rifugiati nel cuore dell’Europa. Oggi è diventato un modello, seguito e studiato a livello internazionale.
In questi dodici mesi sono state qui circa cento famiglie: in gran parte arrivano da dall’Afghanistan e dalla Siria, ma ci sono anche curdi, iracheni e pakistani. Il criterio di accesso al City Plaza è di tipo sociale: si dà priorità a chi ha bambini o problemi di natura sanitaria. Per questo molti all’ex albergo ci sono dall’inizio e sono diventati stanziali, mentre altri hanno preso il posto di chi – anche entrando nel programma europeo di relocation – è riuscito a continuare il viaggio verso altri paesi del nord. Ogni nucleo familiare ha la sua stanza, ma partecipa al progetto collettivo facendo turni in cucina (dove ogni giorno vengono serviti 800 pasti), in lavanderia, e negli altri servizi dedicati alla cura degli spazi comuni. Chi arriva viene accolto alla reception da altri occupanti, che consegnano un foglio per la registrazione in cui inserire i dati essenziali: se si è in Grecia per chiedere asilo, se si vuole partecipare al programma di relocation o se si sta aspettando un ricongiungimento familiare.
In base alle informazioni fornite, le persone saranno accompagnate in un percorso legale. Un’équipe medica si occupa invece dell’assistenza sanitaria. “Per i rifugiati in Grecia non c’è niente come questo posto”, spiega Alì, “perché qui siamo considerati innanzitutto esseri umani. Nei campi ci si dimentica troppo spesso che i rifugiati sono persone. Qui è diverso, volontari, attivisti, coordinatori, rifugiati, tutti collaborano a questo grande progetto, che ha una natura anche fortemente politica. Sono orgoglioso di farne parte anche perché al City Plaza diamo molta importanza a due aspetti: la salute e l’istruzione. Che sono fondamentali per chi viene da paesi in cui tutto questo non c’è più”.
Un luogo sicuro per quelli che aspettano
Fatima viene dalla Siria. Seduta accanto alla finestra, guarda i suoi bambini giocare a nascondino dietro le vetrate dell’albergo. È qui in attesa di raggiungere il marito in Germania. Rimasta bloccata ad Atene dopo la chiusura della rotta dei Balcani, ora condivide la stanza con un’altra donna e le sue due gemelline. “Stiamo aspettando di poter andare da lui seguendo la procedura”, spiega. “Nell’attesa abbiamo trovato questo posto dove almeno i nostri figli possono stare bene”. Il suo caso non è raro. Secondo l’ultimo rapporto Unicef sono circa 75 mila, compresi quasi 24.600 bambini, i migranti e i rifugiati che oggi sono bloccati in Grecia, Bulgaria, Ungheria e nei Balcani Occidentali. Unicef sottolinea come la situazione sia particolarmente grave per le madri sole e i bambini. “In molti casi”, spiega l’organizzazione, “gli uomini adulti sono i primi membri delle famiglie a intraprendere il viaggio verso l’Europa, mentre il resto della famiglia li segue in un secondo momento. Ma con la chiusura dei confini nel 2016 e l’implementazione della dichiarazione Ue-Turchia, altri membri delle famiglie sono stati trattenuti nei paesi di transito, dove devono presentare richiesta di ricongiungimento, un processo che generalmente richiede da 10 mesi a due anni di tempo”.
Oggi al City Plaza i minori sono circa 180, più o meno la metà di tutti gli occupanti. E sono loro ad accogliere chi arriva, correndo su e giù per le scale del grande edificio, tappezzato di fotografie che ritraggono momenti di vita comune. In occasione dell’anniversario dell’occupazione è stato inaugurato un nuovo spazio per l’infanzia al primo piano, una sorta di asilo, con giocattoli e libri per disegnare e colorare. Lì Clementine, volontaria francese, fa attenzione che i più piccoli non si facciano male. Alcuni hanno solo un anno. Insieme a lei incontriamo Vittoria Morrone, una ragazza di Torino che si è trasferita qui cinque mesi fa. Ormai tutto il sesto piano del palazzo è dedicato ai volontari, che arrivano di continuo da ogni parte. “Dopo la laurea in psicologia ho deciso di prendermi un periodo di tempo per capire cosa fare nella vita”, racconta Vittoria. “Avevo sentito parlare di questo progetto e ho pensato che potesse farmi bene. All’inizio dovevo restare un mese, invece sono ancora qui”. Come tutti qui, anche Vittoria si occupa di coprire i turni, dalla reception alla lavanderia. Ma da due mesi è responsabile dello spazio donne, creato per andare incontro alle esigenze delle rifugiate. “Per motivi culturali molte di loro rimangono nelle loro stanze perché trovano difficile stare nelle zone comuni, come il bar”, racconta, “per questo era importante creare un posto che fosse soltanto loro”. Nella stanza delle donne c’è una classe di yoga e rilassamento, e una volta alla settimana una ragazza afgana tiene lezioni di bellezza. Inoltre, qui vengono date informazioni importanti di carattere ginecologico, pre e post gravidanza: “è il loro piccolo rifugio”. Vittoria insegna anche nella classe femminile di inglese: “alcune delle rifugiate non sono mai andate a scuola. Adesso qui hanno la possibilità di imparare, e questo è molto importante”. Anche Uwe Khorl, 28 anni, arriva dall’estero. Si è unito al progetto dopo essersi laureato in medicina; l’assistenza medica nell’albergo occupato è assicurata di continuo, “ma se c’è un’emergenza do una mano anch’io”, dice. “Per il resto faccio quello che serve. Sono finito qui mentre ero in vacanza in Grecia. Mi hanno parlato del problema dei profughi ad Atene e ho pensato che fosse importante investire in un’esperienza come questa”.
Un modello di accoglienza nel cuore della crisi
“We struggle together, we live together. Solidarity will win” è il motto che hanno coniato gli attivisti, per sottolineare che quello del City Plaza è un vero e proprio atto di resistenza contro le politiche europee sull’immigrazione. Come tutte le occupazioni ad Atene, però, anche questo squat potrebbe avere i giorni contati. Da quando il governo di Syriza ha deciso di riappropriarsi di alcuni spazi, tutte le occupazioni sono a rischio di sgombero. A differenza degli altri squat, però, il City Plaza è una proprietà privata. La proprietaria, l’ex attrice Aliki Papahela, ha detto l’inverno scorso a Time che non può permettersi di pagare le tasse di proprietà e vorrebbe quindi venderlo, cosa che l’attuale occupazione rende impossibile, ma allo stesso tempo ha riconosciuto che il progetto di accoglienza del City Plaza era necessario e importante. A salvarlo potrebbe essere proprio l’eco mediatica suscitata dal progetto, che ora viene studiato anche da alcuni accademici come best practice da replicare.
Valeria Raimondi ha vissuto qui per alcuni mesi per la sua tesi di dottorato in studi urbani al Gran Sasso Science Institute dell’Aquila. Lo studio si concentra sull’accoglienza ai migranti e sulle forme di resistenza che i rifugiati mettono in atto ogni giorno. “Il City Plaza punta a costruire una comunità partendo da un progetto di accoglienza organizzata. Lottiamo insieme, viviamo insieme è lo slogan che contiene anche il senso politico dell’occupazione”, sottolinea la ricercatrice. “L’esperienza è positiva e importante, si tratta di una buona pratica che va esportata per tante ragioni. Innanzitutto perché è un’accoglienza davvero dignitosa, dal punto di vista della vita quotidiana delle persone, intendo. Inoltre, perché, se parliamo in termini di vita integrata, il City Plaza porta i rifugiati all’interno del contesto urbano”, continua Raimondi. “Ad Atene i campi istituzionali sono tutti fuori dal centro, alcuni anche lontani dalla città, senza collegamenti, e le persone non possono muoversi liberamente. Invece questo albergo è vicino al quartiere Exharchia, che è centrale non solo a livello geografico ma anche sociale: è lì che in questi anni è stata messa in atto una vera e propria economia della crisi, con strutture autorganizzate, mense solidali e autogestite, punti di raccolta dei farmaci. Un substrato sociale che ha reso possibile questa accoglienza dal basso in maniera più facile che in altre città europee”. Secondo Raimondi, però, alcuni punti critici ancora ci sono: “il modello di collaborazione funziona ma fino a un certo punto, perché viene portato avanti attraverso una forte organizzazione gerarchica all’interno della struttura”, aggiunge, “i rifugiati vanno spronati di continuo all’attività, molti partecipano in prima persona, ma altri si sentono ospiti”.
Da un punto di vista economico, il progetto si regge su donazioni esclusivamente private, che si possono fare direttamente sul sito dedicato : “C’è chi porta vestiti e cose da mangiare ogni giorno”, spiega Nasim alla reception, “e chi ci invia denaro. Ormai abbiamo sostenitori in tanti paesi”. Da quando i media hanno iniziato a parlarne, infatti, il City Plaza è conosciuto a livello internazionale. Per il primo compleanno gli attivisti hanno organizzato una grande festa a Platia Protomagias, con concerti di musica tradizionale ed etnica e cibi di diversi paesi. Gli occupanti hanno anche realizzato alcuni gadget con il brand del refugee accomodation space: taccuini, magliette, e un piccolo libro che raccoglie un anno di storie, attraverso i pensieri di chi è riuscito a proseguire il percorso migratorio. “È stata una delle esperienze migliori della mia vita”, scrive Rabyee, che oggi è a Digione. “Ora sono in Francia, ma cercherò di viaggiare ancora per tornare a casa, e la mia casa è il City Plaza”.
Foto di copertina: City Plaza di Atene, bimbi giocano a nascondino. Tutte le foto nell’articolo sono di Alberta Aureli.