La campagna referendum cittadinanza in soli 22 giorni ha portato 637.487 cittadine e cittadini a firmare per chiedere l’abrograzione di una parte della legge 91 del 1992, che regola la cittadinanza italiana.
Il referendum è stato promosso dal partito Più Europa, insieme ad altri, e da 66 associazioni della società civile – tra cui Coordinamento nazionale delle nuove generazioni italiane, Italiani senza cittadinanza, Conngi, Idem Network, A buon diritto, Melting pot Europa, ARCI, Oxfam Italia, Dimmi di storie migranti e Open arms Italia. Il quesito referendario è semplice: si chiede di cancellare una lettera – e una parte di un’altra – dell’articolo 9 della legge sulla cittadinanza in modo che quest’ultima possa essere concessa a chi «risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni», invece che da dieci. Nonostante il quesito chieda la cancellazione di una parte minima della legge – le cui implicazioni riguardano, comunque, milioni di persone senza cittadinanza – il numero di cittadini italiani che ha partecipato alla campagna contiene, soprattutto, un significato simbolico.
La storia della legge 91 è legata ai cambiamenti avvenuti nella società italiana negli ultimi tre decenni, da quando è stata scritta e mai più toccata. Ѐ la storia di una delle tante contraddizioni esistenti tra il piano politico a quello della realtà. Quest’estate i media hanno riaperto il dibattito. La medaglia d’oro olimpica vinta dalla squadra femminile italiana di pallavolo, in finale con la squadra statunitense, ha portato l’attenzione del pubblico sull’identità delle protagoniste. Delle 13 giocatrici con cittadinanza italiana convocate alle olimpiadi, cinque hanno come prima cittadinanza quella di un altro paese. Due perché nate all’estero, tre perché nate in Italia da genitori con cittadinanza straniera. Le pallavoliste Loveth Oghosasere Omoruyi e Paola Ogechi Egonu sono figlie di genitori con cittadinanza nigeriana, la schiacciatrice Myriam Fatime Sylla di genitori con cittadinanza ivoriana. La squadra femminile di pallavolo veicola un’immagine che si scontra con l’idea della bianchezza associata all’identità italiana. Quest’immagine è riemersa come contraddizione dell’idea di italianità, difesa da uno spettro populista sempre più ampio della politica, che fa leva sulla paura dello straniero per guadagnare consenso.
All’incirca negli ultimi 6 anni le forze populiste del Paese si sono appropriate del discorso sulla cittadinanza italiana.
L’attuale sottosegretaria di Stato del governo Meloni, Wanda Ferro, il 16 settembre ha detto in Parlamento che «non bisogna dimenticare che dare la cittadinanza a chi nasce in Italia, come spesso alcune forze politiche sottolineano incitano e vorrebbero, finirebbe per mettere – ribadisco un tema del quale non ci dobbiamo mai dimenticare – sui barconi dei trafficanti migliaia di donne, di bambini, di donne in gravidanza, pronte ovviamente a sfidare i pericoli del mare, della traversata, per far nascere i figli nel nostro Paese». Le parole della sottosegretaria Ferro rafforzano la filosofia sottesa all’attuale legge sulla cittadinanza, risalente al 1992, il cosiddetto ius sanguinis, cioè il diritto di sangue: chi nasce da un genitore italiano è de iure cittadino italiano, qualunque sia il suo luogo di nascita. Al di là delle contraddizioni – nella prima frase Ferro parla di chi nasce sul territorio italiano e nella seconda modifica i soggetti politici e giuridici del suo discorso, riferendosi a “donne e bambini” che attraversano il Mediterraneo – la categoria di cittadini stranieri inquadrata nel discorso della sottosegretaria è parziale.
Alcuni cittadini stranieri sono arrivati – e arrivano – in Italia con l’aereo. Altre, come le campionesse italiane di pallavolo, nascono in Italia, ma, a causa della legge 91, non sono cittadine italiane. Il dispositivo giuridico di cittadinanza regola un fenomeno sociale che è collaterale a quello dell’immigrazione, eppure riguarda una realtà più complessa dell’atto di ingresso sul territorio italiano. Inoltre, sostenere che la giurisdizione interna dello Stato italiano sia un pull factor è falso – com’è stato dimostrato per lo stesso potere di attrazione attribuito ai salvataggi dei naufraghi nel Mediterraneo da parte delle organizzazioni non governative.
Una questione seria
La legge 91 proviene dal passato. Emanata a febbraio 1992, è stata una delle ultime della decima legislatura italiana e della cosiddetta Prima Repubblica, con cui ci si riferisce all’Italia dal dopoguerra fino al primo governo Berlusconi. È stata scritta pensando ai figli e alle figlie degli emigrati italiani, un fenomeno che ha caratterizzato il passato e il presente del Paese. Eppure, nonostante l’Italia del dopoguerra avesse appena iniziato a conoscere il fenomeno opposto, il governo Andreotti ha inserito nella legge 91 degli articoli riguardanti l’immigrazione.
Così, se da una parte l’articolo 1 ha sancito in modo netto che «è cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini», dall’altra l’articolo 4 ha stabilito che «lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data».
Con il passare del tempo, l’arrivo di un numero crescente di cittadini stranieri andati a lavorare in Italia, e la crescita dei loro figli e le loro figlie nel Paese, i limiti della legge del 1992 hanno iniziato a farsi sentire. Le seconde e terze generazioni – categoria che comprende tutti i figli dell’immigrazione, anche coloro che, pur essendo nati all’estero, sono arrivati in Italia, dove sono cresciuti, contro la loro volontà – sono diventate una parte fondamentale del tessuto sociale italiano. La loro voce ha preso spazio all’interno del discorso pubblico e vari gruppi della società civile hanno chiesto una modifica della legge 91. La discriminazione dovuta all’essere di fatto italiane ma senza cittadinanza ha dato luogo a un conflitto identitario all’interno delle seconde generazioni. Queste si sono accorte di avere meno possibilità degli altri italiani. Succede che ad alcuni studenti minorenni con cittadinanza straniera vengano precluse delle attività scolastiche, come le gite all’estero, per problemi legati al permesso di soggiorno. Oppure che non possano partecipare a gare di sport a livello agonistico. Inoltre, i problemi per le seconde generazioni non finiscono con la maggiore età. Pur avendone la possibilità, ad alcune persone, come vedremo, non viene rilasciata la cittadinanza italiana. Così viene loro precluso il diritto di voto e di accedere ai concorsi pubblici, e di avere un documento permanente, senza cicliche scadenze per il rinnovo in questura.
Le proposte di legge del passato
La storia dei tentativi di superamento della legge 91 è tanto lunga quanto infruttuosa. Possiamo notare, in modo paradossale rispetto all’urgenza determinata dal peggioramento delle condizioni sociali create dalla suddetta, una regressione politica delle discussioni in seno alle istituzioni preposte. Una delle prime discusse in Parlamento è la cosiddetta “legge Bressa”, esposta ad agosto del 2006, durante la XV legislatura. In questa proposta, che si basa sugli studi della sociologa Giovanna Zincone, iniziati alla fine del millennio scorso, si è descritta l’arretratezza del diritto italiano in materia di cittadinanza, comparato a quelli degli stati dell’Europa settentrionale, come la Germania. Nella proposta leggiamo che uno dei tre metodi per ottenere la cittadinanza italiana sancito dall’articolo 9 – oltre a quello del matrimonio con un cittadino italiano e a quello per nascita sancito dall’articolo 4 – cioè la naturalizzazione in seguito a dieci anni di residenza legale del cittadino straniero, fosse «nella fascia di severità estrema, che è anche la soglia massima prevista dalla convenzione del Consiglio d’Europa del 1997». La proposta ha tentato di superare la legge 91, sia rafforzando il concetto, già forte in altre giurisprudenza europee, dello ius soli, sia riducendo i tempi per la naturalizzazione. La proposta non ha, però, assunto valore di legge.
Tra il 2011 e il 2012, durante la XVI legislatura, le istanze delle seconde e terze generazioni sono confluite in una campagna chiamata l’Italia sono anch’io. Questa in pochi mesi è riuscita a raccogliere oltre 200.000 firme per modificare la legge 91. La proposta di legge di iniziativa popolare è quindi arrivata a marzo 2012 in Parlamento, dov’è stata discussa. Vi è scritto che la cittadinanza «non può costituire una sorta di privilegio da elargire discrezionalmente e a seguito di un tortuoso percorso burocratico, ma deve essere il naturale coronamento della legittima aspirazione del richiedente, a seguito di un soggiorno legale sul territorio di durata ragionevole». E, di conseguenza, che «il percorso giuridico verso la cittadinanza deve essere concepito come diritto soggettivo all’acquisizione e non come interesse legittimo: in tal modo si determinano conseguenze anche in tema di tutela giurisdizionale, con la competenza dell’Autorità giudiziaria ordinaria». La proposta di legge di iniziativa popolare è rimasta all’ordine del giorno fino allo scioglimento delle camere.
Nel 2018, durante la XVII legislatura, sono state portate alla Camera dei deputati altre proposte, che in larga parte hanno ripreso quelle precedenti. In materia di cittadinanza per naturalizzazione non si legge più della diminuzione degli anni di residenza legale del cittadino straniero. Viene, tutt’al più, descritta la necessità di un «accorpamento in un unico regolamento delle disposizioni di natura regolamentare in materia di cittadinanza, prevedendo in particolare la disciplina dei procedimenti amministrativi per l’acquisto della cittadinanza». L’amministrazione, come vedremo, rappresenta un ostacolo lungo il percorso burocratico che il cittadino straniero si trova ad affrontare se sceglie la naturalizzazione. Oppure, viene inserita una diminuzione dei tempi di residenza, ma solo per i cittadini stranieri residenti in Italia dalla minore età e che abbiano completato un ciclo di studi, rafforzando l’idea giuridica che è stata definita ius scholae. Alla fine del governo Gentiloni neppure questa proposta è diventata legge. All’inizio della precedente legislatura, con la nascita del governo Conte, le proposte si sono concentrate intorno allo ius scholae, appiattendo le passate discussioni giuridiche e filosofiche. Una di esse ha ottenuto la maggioranza dei voti favorevoli alla Camera dei deputati, ma prima che potesse essere votata in Senato, il Parlamento è stato sciolto.
La rimozione, il presente, e la realtà
Una costante delle passate discussioni parlamentari intorno alla legge 91 è stata quella delle poche cittadinanze rilasciate dallo Stato italiano rispetto al numero di quelle rilasciate dagli altri paesi europei. Il governo Meloni ha negato anche questo problema.
In un’intervista rilasciata a fine agosto a Il Giornale il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha dichiarato che «l’Italia è il Paese che ha concesso il numero maggiore di cittadinanze a livello europeo negli ultimi 10 anni, molto più di Paesi che alcuni indicano come un modello da seguire». Come la sottosegretaria Ferro, il ministro ha spostato il discorso sulla forza di attrazione della legge sulla cittadinanza per chi lascia il proprio Paese, affermando che «in molti potrebbero essere incoraggiati dai trafficanti ad arrivare da noi con traversate molto pericolose nel miraggio di poter ottenere la cittadinanza con solo pochi anni di frequenza scolastica dei propri bambini perché questo renderebbe inespellibili anche i loro genitori».
Non esistono dati né prove che dimostrino un peso del diritto interno nella scelta di chi viaggia. Né, tantomeno, sulla sua strumentalizzazione da parte dei cosiddetti trafficanti. Esistono, invece, studi che hanno dimostrato l’affluenza e il contributo di cittadini stranieri nel mercato del lavoro italiano nei decenni passati. Questi lavoratori, dopo anni di residenza nel Paese, hanno richiesto la cittadinanza.
Inoltre, il ministro di Fratelli d’Italia (Fdi) ha tralasciato il fatto che il rapporto tra cittadini italiani e cittadini stranieri residenti in Italia è più alto che in altri paesi europei. Per esempio, in Francia, secondo i dati del ministero dell’interno, nel 2023 erano residenti 5.300.000 cittadini stranieri, su una popolazione totale di 67.800.000 di persone, di cui rappresentano quindi il 7,8%. In Italia, nello stesso periodo, secondo l’Istituto nazionale di statistica (Istat) erano residenti 5.050.257 persone con cittadinanza straniera su una popolazione di 58.997.201 persone. Il rapporto è più alto di quasi un punto percentuale: l’8,56%.
Cioè, in Italia ci sono più cittadini stranieri che in altri paesi dell’Europa. Comparare solo il dato assoluto di cittadinanze rilasciate dallo Stato italiano e da questi ultimi è, quindi, fuorviante. Anche un erede del berlusconismo, il leader del partito Forza Italia (Fi) e vicepresidente del Consiglio e ministro degli esteri, Antonio Tajani, ha risposto alla rinnovata attenzione pubblica sulla legge di cittadinanza. A fine agosto il vicepresidente ha spiegato, al meeting annuale del movimento cattolico Comunione e liberazione (Cl) a Rimini, che la sua idea è di lavorare su una proposta di legge basata sullo ius scholae. Secondo il ministro, una legge che dia accesso alla cittadinanza italiana dopo aver completato «un corso di studio completo, cioè la scuola dell’obbligo, garantisce molta più integrazione di quella che è prevista dalla legge attuale».
Nella proposta di legge arrivata in Senato nel 2022, il numero minimo di cicli scolastici per acquistare la cittadinanza per chi nasce o cresce in Italia è fissato a uno. Il vicepresidente ha parlato dell’intera scuola dell’obbligo, di fatto diminuendo l’età per la dichiarazione di elezione di soli due anni, rispetto ai 18 stabiliti dall’attuale legge. Inoltre, una legge di cittadinanza basata solo sullo ius scholae riduce l’integrazione del cittadino straniero all’adattarsi a quei valori e principi a cui lo stesso ministro degli esteri, nel suo discorso sulla cittadinanza al meeting di Cl, ha fatto riferimento, parlando della propria identità di cittadino – e vicepresidente – italiano: «Sono cristiano e sicuramente la prima cosa che mi hanno insegnato è che siamo tutti uguali di fronte a Dio. C’è un’anima europea, di cui fa parte anche l’identità cristiana».
Il tema della partecipazione del cittadino straniero alla vita dello Stato italiano, i suoi diritti e doveri civili, il suo contributo lavorativo allo sviluppo economico, e anche il suo apporto politico non sono stati toccati dalle parole del ministro. Il carattere populista dell’idea del leader di Fi è risultato evidente quando, durante una recente votazione alla Camera sulla sua stessa proposta di legge, i deputati del suo partito hanno votato contro, infrangendo un’immaginata maggioranza formata insieme ai partiti dell’opposizione, e impedendone il passaggio in Senato.
Le idee politiche dell’opposizione
Tra i partiti all’opposizione il discorso sulla cittadinanza si è fossilizzato su una polarizzazione tra ius soli e ius scholae, trascurando i limiti reali dell’attuale legge italiana. Come scritto sopra, nelle passate legislature le due o più filosofie riguardanti la cittadinanza sono state spesso complementari e integrate in un’unica proposta.
Come nella discussione tra i partiti di maggioranza, una parte del dibattito tra il Partito democratico (Pd) e il partito Movimento 5 stelle (M5s) si è svolta fuori dai luoghi istituzionali. La segretaria del Pd Elly Schlein, alla festa dell’Unità di Terni ad agosto, ha ribadito la sua idea di una legge sulla cittadinanza basata sullo ius soli. A due anni dall’inizio di questa legislatura è stata depositata, per essere discussa alla Camera, solo una proposta da parte dei partiti all’opposizione: il partito Alleanza Verdi e Sinistra (Avs) ha presentato la stessa proposta incentrata sullo ius scholae, formulata dal governo precedente.
Un’altra proposta è arrivata dal Pd, ma riguarda solo i cittadini stranieri che praticano uno sport a livello agonistico. Questa proposta rischia, come già sottolineato in precedenti discussioni parlamentari, di trasformare la cittadinanza italiana in un privilegio regalato in base a meriti individuali.
Il problema reale della legislazione italiana sulla cittadinanza
L’organizzazione nazionale apartitica Rete G2 – Seconde Generazioni ha pubblicato a luglio 2021 un dossier di approfondimento sull’applicazione dell’articolo 4 della legge 91, all’interno del territorio di Roma Capitale. Il problema evidenziato da associazioni, che da anni lavorano a contatto con persone con background migratorio – tra cui 21 Luglio, ActionAid Italia, Asgi, Comunità Sant’Egidio e Lucha y Siesta – Casa delle Donne – è che «a tanti giovani nati nel nostro Paese da genitori stranieri viene sistematicamente negata la possibilità di diventare cittadini al compimento del diciottesimo anno di età».
L’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha rilevato l’uso tra i funzionari dell’amministrazione di «richiedere al cittadino straniero un “permesso di soggiorno stabile”». «Una prassi – si legge nel dossier – non conforme a legge, dal momento che l’unica verifica che l’Ufficio cittadinanza è chiamato a svolgere è se al momento della richiesta lo straniero sia titolare di un documento che ne legittimi il soggiorno sul territorio». Questo documento può essere anche un’attestazione di richiesta asilo o una ricevuta postale per il rinnovo del titolo di soggiorno. Oppure accade che venga richiesto il possesso di un passaporto. «Anche questa prassi – ha scritto Asgi – non risulta conforme alla legge e alla ratio evidentemente sottesa alla stessa. L’art. 4 della legge n. 91/1992 chiede, infatti, solo il requisito della residenza legale».
Altre inefficienze degli amministratori sono evidenziate da Comunità Sant’Egidio. L’associazione ha scritto che «accade ancora oggi, purtroppo, che al giovane presentatosi al Comune venga consigliato di desistere [dal presentare la dichiarazione di elezione della cittadinanza] invitandolo piuttosto a presentare alla Prefettura la domanda di naturalizzazione». La naturalizzazione richiede – continua nel dossier l’associazione – «un requisito reddituale che non è di solito posseduto dal giovane richiedente o dalla sua famiglia». Il reddito non è stato, però, stabilito dall’articolo 9, e viene così fissato a discrezione del prefetto, con cui il cittadino straniero si deve interfacciare una volta intrapresa questa strada.
Infine, l’associazione Lucha y Siesta ha sollevato la questione del potere inibitorio creato dall’attuale legge 91 nel percorso di liberazione delle donne da condizioni di violenza domestica. Vincolando la dichiarazione di elezione di cittadinanza per naturalizzazione al reddito, la legge rafforza la dipendenza della donna dall’uomo, titolare per tradizione, italiana e non, di quest’ultimo.
La legge 91 richiede una riforma lontana dalle corde dei partiti al governo. Le soluzioni vengono dalla società civile, che cerca di sopperire, con gli strumenti forniti dalla democrazia partecipata, ai vuoti lasciati dalla classe dirigente.
Immagine di copertina dalla pagina Facebook di Italiani Senza Cittadinanza