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Quando entro per per la prima volta al “nuovo” hub per i transitanti a Milano, tutto è diverso dal vecchio hub che conoscevo, ricavato da un bar ferroviario sotto il tunnel Mortirolo, dove passa via Tonale. Ma una cosa riconosco: i colori dei disegni a pennarello fatti dai bambini. Lo staff li appendeva fino a coprire una parete, e così fa qui, in via Sammartini, e quei verdi e rosa fluorescenti sono il punto focale del primo stanzone dove arrivano i profughi. Qui il dottore ha uno studiolo più grande, un altro stanzone è dedicato alla mensa, e a differenza del bar di via Tonale, c’è anche posto per fermarsi a dormire. Ma l’energia è la stessa dell’inverno del 2015, fatta della sofferenza dei profughi e della loro forza di volontà, di un’accoglienza che allevia senza fare domande, e del peso della Storia.
Il corpo pesante della Stazione Centrale – costruito nel 1931, un tempo annerito dagli anni e poi sbiancato da un recente restauro – si stende dall’entrata monumentale su piazza Duca d’Aosta fino al fascio di binari che ne forma la coda. Sul lato sinistro corre via Sammartini, passato l’incrocio dove sorgeva il vecchio hub, passati i ristoranti di pesce, un locale per concerti, una fila di magazzini ferroviari dalle porte ad arco. Un chilometro a nord del vecchio hub, un gruppo di uomini africani dal sorriso pronto aspetta sotto la pensilina di una fermata d’autobus che però è stata soppressa: “lo sappiamo, grazie” dicono a gesti, e fanno segno verso l’alto. Qualche ora prima ha piovuto, e quello è un buon posto per stare asciutti. Poco più in là, via Sammartini si restringe curvando a sinistra, dopo Largo San Valentino, alle spalle del quartiere operaio di Greco, e lì c’è l’hub, lontano da tutto. Laggiù dove la curva della strada si fonde con la massicciata dei binari c’è il naviglio Martesana, dove 70 uomini hanno dormito all’addiaccio la notte prima che arrivassi, perché all’hub non c’era più posto.
Le persone che lavorano per la Fondazione Progetto Arca si ricordano tutte la data di nascita dell’hub, il 18 ottobre del 2013. Alberto Sinigallia, presidente della fondazione, ricorda: “l’hub è nato sui gradini dell’ammezzato della Stazione Centrale; avevamo appena realizzato la nostra Notte dei Senza Dimora, che si tiene ogni anno il 17 ottobre. Il 18 abbiamo avuto un incontro con l’assessore Majorino e con la Caritas perché alla stazione c’erano alcuni bambini che dormivano sul marmo. In quel momento, come soluzione per forse una decina di persone, si è deciso di dar loro un letto e una doccia calda al rifugio della Caritas. Ma non sapevamo che stava scoppiando un problema, e che nei giorni successivi avremmo cominciato a ricevere centinaia di persone al giorno. In tutto, da quel giorno, per Milano sono transitate 107.000 persone: poco meno di 40.000 nel 2014, 40.000 nel 2015, 28.000 fin adesso nel 2016. In tutta la storia dell’hub, il picco di arrivi è stato di 1270 in un giorno solo, nel 2014.”
Quell’inverno prendevo un treno dalla Stazione Centrale ogni settimana. Fra valigie con le rotelle e scale mobili, era impossibile non accorgersi di quello che stava succedendo. Nell’androne gelato, alto decine di metri, giovani madri allattavano neonati sedute sulle panche di marmo, e famiglie siriane e afgane senza alcun bagaglio si accampavano sulla balconata. Gruppi di giovani uomini fumavano sigarette. Qualcuno si inginocchiava sul marmo per pregare. Pennacchi di vapore si alzavano nel freddo dai piatti di pasta serviti dai volontari. Intorno, la folla che arrivava e partiva, gli annunci dei treni e dei ritardi, il rimbombo dei soffitti.
Ora di giugno del 2015, mentre alcune centinaia di profughi africani a Ventimiglia chiedevano di poter varcare il confine con la Francia, erano migliaia di eritrei, somali e sudanesi, a fare la coda per mangiare alla Stazione Centrale. I transitanti africani erano, e sono, i superstiti dei naufragi fra la Libia e la Sicilia, che per fuggire dalla povertà e dalla guerra hanno attraversato mezzo continente e assistito a orrori che molti di loro non riescono nemmeno a raccontare – estorsioni, stupri, amici e congiunti abbandonati dai trafficanti a morire nel deserto, mesi di lavoro in schiavitù per pagare i contrabbandieri, e la condanna al naufragio nel Mediterraneo.
Da quel giorno di ottobre sull’ammezzato della Stazione Centrale, l’hub ha assunto varie forme. Dopo aver risposto alla prima emergenza a pochi metri dai binari, ha trovato rifugio in uno dei negozi ancora sfitti all’esterno della stazione. Passando, si vedevano sui vetri i cartelli scritti a mano dai volontari: Cucina! Bambini! Vestiti! Sono arrivati pannolini e medicine, coperte, vestiti, giocattoli, scarpe. Poi, all’inizio dell’estate 2015, Grandi Stazioni ha concesso al Comune i locali rivestiti in fòrmica della vecchia mensa del dopolavoro ferroviario in via Tonale. I locali malmessi sono stati riqualificati in fretta dal Genio militare, la Protezione Civile e la Fondazione Progetto Arca, a cui è affidata ancora oggi la gestione dell’hub coordinata dal Comune di Milano in accordo con la Prefettura.
Il Progetto Arca ha messo a frutto nell’hub un’esperienza quotidiana di aiuto ai poveri e ai senza fissa dimora di Milano, e un lavoro con le mense e le unità di strada anche a Ragusa, Torino e Roma. Ad aprile del 2016, dopo dieci mesi, Grandi Stazioni si è ripresa bruscamente i locali di via Tonale con l’intenzione di venderli, concedendo poi in cambio quelli di via Sammartini, dove il Comune è riuscito a far ripartire l’hub il 6 maggio. In tre anni, le nazionalità prevalenti sono cambiate, e così lo status dei profughi. “All’inizio,” racconta Alberto Sinigallia, “erano per il 90% famiglie siriane, 30.000 l’anno; di solito persone agiate, che per non farsi rapinare lungo il tragitto non partivano con tutto quello che possedevano, ma si fermavano a Milano giusto due o tre giorni, ad aspettare che venisse loro spedito altro denaro da casa.”
In quella fase, solo un transitante ogni quattro richiedeva asilo in Italia, e tutti gli altri proseguivano verso altri paesi europei. Ma da quando è entrata in vigore la politica europea degli hotspot, che obbliga a identificare il 100% dei profughi all’arrivo, vincolandoli così a richiedere asilo in Italia come primo paese d’arrivo secondo il regolamento di Dublino, le percentuali si sono rovesciate, e la maggior parte dei profughi che sbarcano in Italia non ha altra scelta che chiedere asilo. A Milano si è formato un “tappo,” e tutti i posti letto sparsi per la città che prima erano riservati ai transitanti, sempre diversi ogni giorno, adesso sono occupati dai “dublinanti,” i richiedenti asilo fissi a Milano finché il loro caso non verrà esaminato. ” L’hub dava a queste persone esauste una piccola autonomia prima di rimettersi in viaggio,” spiega Sinigallia, “e fino a gennaio di quest’anno, quando è scattata la chiusura delle frontiere in Francia, nei Balcani, in Svizzera e nei paesi nordici, il 90% delle persone che arrivavano a Milano ripartiva dopo quattro o cinque giorni per il Nord Europa, nella speranza di ricongiugersi a parenti e amici. Adesso a ripartire sono solo il 15/20%, con permanenze a Milano molto più lunghe.” E’ questo il motivo per cui adesso i posti-letto satellite che il Comune ha gestito ogni giorno – 1100 posti che d’estate diventano anche 1400 – sono sempre pieni, perché ospitano i richiedenti asilo che sono in aumento. All’hub di via Sammartini, oltre a tutti i servizi che venivano offerti in via Tonale, erano già stati allestiti alcuni posti letto supplementari. La convenzione coperta dal Comune con Arca è solo per 75 persone, ma grazie alle donazioni e alla campagna Tende della Fondazione AVSI, l’hub in realtà ne serve anche 500 al giorno; nei giorni più critici di ottobre si è arrivati fino a 700, finché l’ATS (ex ASL) non ha messo uno stop a 500, e qualche volta si è dovuta dare la precedenza a donne e bambini. A novembre sono state ospitate all’hub circa 420 persone per notte.
L’hub diventa, suo malgrado, un termometro delle rotte migratorie. Le conseguenze dei cambiamenti nella risposta politica alla crisi dei profughi qui diventano visibili quasi immediatamente – questione di giorni. Ogni volta il Comune e le associazioni devono inventarsi una soluzione nuova. All’hub lavorano Save the Children e Albero della Vita con i bambini e i minori, i volontari del Comune con le loro pettorine arancioni, Informatici Senza Frontiere per le postazioni con i computer per chiamare casa, Terre des Hommes con un operatore e i kit igienici che vengono forniti per il viaggio, e poi il Banco Farmaceutico, Re.Ma per i trasporti, Insieme Si Può Fare che suddivide tutte le donazioni di vestiario, e Cambio Passo, un gruppo di mediatori culturali che aggiunge altri interpreti dal tigrino.
Dove via Sammartini diventa una strada chiusa, ci sono un fornitore di piastrelle e una piccola officina, con un cane da guardia che abbaia dietro un cancello, qualche gabinetto chimico, e poi un giardinetto con due file di panchine e qualche giovane albero. Nel mio primo giorno all’hub, un’ambulanza carica un transitante ammalato, tre ragazze eritree passeggiano a braccetto mangiando uno yoghurt, e un vigile cerca di allontanare con calma un attaccabrighe; l’assessore alle Politiche Sociali Majorino cammina avanti e indietro parlando un momento con lo staff, un altro con un giornalista e un altro al cellulare, mentre un bambino di tre anni corre ridendo avanti e indietro, con una giacca a vento rosa così rigonfia che non riesce a piegare le braccia. Una ventina di giovani giocano a calcio nel prato, nel primo momento di pace dopo mesi di viaggio. Ci sono due ragazze incinte, e un’altra sull’angolo che parla fitto al cellulare; sui legnetti che proteggono gli alberi nuovi è appeso del bucato ad asciugare. Davanti alla mensa, alcune transenne formano un corridoio dove si forma la fila all’ora dei pasti.
L’hub è una specie di villaggio, con una topografia tutta sua. Al civico 120, accanto al magazzino, avviene la registrazione dei transitanti; al 118 ci sono i posti letto; al 114-112 c’è il Rifugio Cuore Immacolato di Maria della Caritas, con gli infissi verniciati di rosso e una targa che ricorda una visita di Madre Teresa; e ai civici più bassi ci sono altri magazzini, uno dei quali, quasi all’angolo con il tunnel stradale sotto i binari, ospita la mensa. Così, per comodità, lo staff si riferisce alle varie parti dell’hub chiamandole per numero civico. Nel vecchio hub, qualcuno aveva scritto a pennarello sulla porta di vetro del bar: “non è l’Hilton.” Chiedo a Silvia Panzarin del Progetto Arca se si ricorda quella scritta, e lei sorride e mi dice, “fra l’altro, lo sai? Dall’Hilton lì vicino ci arrivava sempre da mangiare. Non ho mai saputo chi lo portasse, ce lo lasciavano lì e basta.”
L’hub è così carico di energia che dovrebbe luccicare al buio, e invece puoi vivere a Milano senza neppure accorgerti che esiste. Di fronte, i cassonetti traboccanti dell’immondizia; attraverso la plastica dei sacchi si intravede l’oro delle coperte isotermiche, le stesse che vengono usate dalle navi di soccorso nel Mediterraneo. Qui, nelle emergenze, vengono distribuite a chi deve dormire fuori. Allontanandomi, l’ultima coperta la vedo alla stazione. Un uomo latinoamericano la usa come contenitore per vendere qualcosa, accartocciata sul marciapiede come la carta di un gigantesco uovo di Pasqua, oro e argento nell’autunno della città industriale. A Lampedusa, al Museo delle migrazioni, la Madonna dei Migranti ha un pezzetto di coperta isotermica al posto del velo.
La prossima parte del nostro reportage sull’hub di Milano sarà pubblicata il 23 novembre.