“Bisogna aver vissuto un po’, per capire cos’hanno passato queste persone,” mi aveva detto al vecchio hub di via Tonale Gianluca, un volontario dalla barba bianca che dormiva sul pavimento con due cellulari accanto, “uno per orecchio,” nel caso lo chiamassero nel cuore della notte per andare a prendere qualcuno che si era perso. Adesso, in via Sammartini, Gianluca dorme in un camper parcheggiato davanti all’hub, ma i giovani transitanti eritrei continuano a perdersi.
Porta Venezia, molto più giù lungo i bastioni rispetto alla Stazione Centrale, è il posto dove ogni milanese impara a mangiare cibo eritreo, e dove molti eritrei sono diventati milanesi fin dagli anni Settanta. L’indipendenza, ottenuta nel 1993 dopo decenni di lotta armata, ha portato all’Eritrea soltanto nuova oppressione. Il presidente Isaias Afewerki, ex capo del movimento indipendentista, ha ridotto il paese alla fame, eliminato oppositori e libertà di stampa, imposto censura, delazione, coscrizione obbligatoria per uomini e donne, divieto di espatrio, sparizioni forzate, tortura. L’Eritrea ha 5 milioni di abitanti, e secondo le Nazioni Unite a tentare la fuga sono 5.000 ogni mese.
Molti eritrei che arrivano alla Stazione Centrale di Milano cercano per prima cosa di raggiungere Porta Venezia a piedi o con i mezzi pubblici, allontanandosi dall’hub. Silvia Panzarin del Progetto Arca spiega che non è perché a Porta Venezia abbiano parenti o amici, “ma perché sanno che lì troveranno qualcuno che parla tigrino.” Reema, mediatrice linguistica, dice che avere qualcuno che parla la tua lingua viene perfino prima di mangiare, dormire o un paio di scarpe. Così il Progetto Arca ha creato un’unità mobile che gira per le strade intorno a Porta Venezia e avvisa i transitanti che all’hub possono ricevere aiuto. Lì trovano il primo riposo dopo mesi, se non anni, di viaggio e di soprusi. Per la maggior parte scendono dagli autobus partiti dai luoghi di sbarco nel Mediterraneo, altri arrivano in treno o con mezzi propri. Per prima cosa si registrano, una procedura che non ha nulla a che vedere con l’identificazione che hanno subìto allo sbarco in Italia, durante la quale hanno anche dovuto scegliere dove andare e se chiedere asilo. All’hub forniscono il nome che credono, nessuno fa domande, e viene loro assegnato un posto letto telefonando a una delle strutture sparse per la città, oppure, sempre più spesso, direttamente all’hub.
Ogni transitante riceve un doppio cambio di vestiti e scarpe e un kit igienico, e all’hub può riposare, mangiare, lavarsi, essere curato dal medico, avere un interprete, ricaricare il cellulare, comunicare su Skype con amici e parenti che non sente da settimane. Inoltre, l’hub fornisce pasti anche per tutte le strutture satellite che non sono in grado di farlo. Questo significa che alla mensa vengono serviti fino a 2.000 pasti al giorno, tre volte al giorno, tutti i giorni. Ho imparato a riconoscere il richiamo che avvisa dei pasti dentro l’hub e per strada -“mangerìa! mangerìa!”
“Lavorare con i profughi mi ha cambiato la vita,” dice Reema, che oggi ha 29 anni e fa parte dello staff. A maggio del 2014 il Progetto Arca cercava mediatori linguistici per dare una mano con gli arrivi. Reema è siriana e parla un perfetto italiano. Nel 2003 la sua famiglia benestante è emigrata in Italia da Idlib, nel nord del paese. Così Reema ha fatto il liceo a Milano, ma nel 2009, quando la crisi economica ha colpito l’Italia, è rientrata in Siria. Fino alla primavera del 2011.
“La notte che è cambiato tutto ce l’ho stampata in mente,” racconta. “Idlib è un po’ la Bolzano della Siria, e da noi la guerra non era arrivata. Sapevamo che al sud il governo aveva attaccato le manifestazioni, ma la nostra vita non era cambiata. Poi lo scontento è cominciato anche fra i giovani di Idlib, che vedevano i mercenari iraniani pagati da Assad ammassare proprietà e privilegi. Un ragazzo è stato ucciso e tutti sono scesi per strada. Una notte di maggio abbiamo capito che era la fine. Dopo alcuni scontri violentissimi, chi poteva si è preparato a lasciare la città prima che le porte venissero chiuse. Quella notte si sentivano gli scontri fuori, in casa non c’erano né luce né acqua, non c’era nemmeno la luna. Siamo rimasti svegli e mi ricordo che tenevo i miei fratellini più piccoli sotto una coperta per calmarli. Avevamo i cellulari caricati solo al 50%. Abbiamo chiamato i parenti ad Aleppo, dove avevamo un’altra casa, e in quel modo abbiamo trovato una macchina per andarcene all’alba. I giovani ribelli avevano affittato dei SUV per proteggere la fuga di chi poteva. L’esercito è entrato a Idlib quel pomeriggio stesso. Noi siamo stati fortunati, avevamo documenti regolari e potevamo tornare in Italia viaggiando in aereo. Abbiamo dovuto soltanto fare la valigia. Mio padre aveva già preparato i biglietti. Prima Aleppo, e da lì a Malpensa. Mia zia era andata al ministero per i nostri documenti. All’università in Italia e all’ambasciata italiana sono stati molto gentili. Quando siamo arrivati a Milano mi sono iscritta a Farmacia all’Università Statale. Ma stavo molto male. Mi sembrava impossibile passare dalla nostra vita di commercianti, dalle nostre case di Idlib dove mio nonno teneva una cassa piena di contanti, al non avere niente di nostro ed essere guardata sempre dai vicini con sospetto. Adesso, a Capodanno, mi scade il visto di soggiorno. Per fortuna ora ho tutto, sono sposata, ho una casa e un lavoro, ma so già che devo andare a discutere con un poliziotto, probabilmente del sud, che in Italia a sua volta viene trattato come uno straniero. Mi pesa ancora. Mio marito è anche lui un siriano cresciuto a Milano, studia e lavora come imbianchino e a casa cuciniamo siriano. La prima cosa che ho messo nella nostra nuova casa quando abbiamo fatto il trasloco è stata la bandiera siriana.”
Anche a Reema, come ad altri, investire energie nell’hub ha donato una fierezza inaspettata: “facevo fatica a studiare, ero sempre triste e arrabbiata, mi sentivo derubata di qualcosa. Poi un’amica che già dava una mano al mezzanino mi ha detto: se hai due ore, andiamo alla Stazione Centrale, c’è bisogno di persone che parlano arabo. Mi ricordo benissimo quel giorno. Mio padre sul divano che mi vede uscire e come sempre dice, Reema, quando torni? Dovevo stare via due ore e sono rientrata alle dieci di sera. Perché la verità è che quando sono arrivata al mezzanino, era pieno di siriani che scappavano dalla guerra, e anche se non li conoscevo è stato come ritrovare dei parenti. Ci sono stati abbracci, lacrime, emozioni fortissime, e per la prima volta da quando ero arrivata a Milano mi sono sentita a casa. Ho cominciato ad andarci tutti i giorni, e questa cosa mi ha fatto crescere e mi ha guarito. Mi sentivo utile. Al mezzanino lavoravo dieci, dodici ore al giorno con i profughi senza mangiare, e non sentivo neanche fame. Da quel momento ho cominciato a fare un piccolo cambiamento dietro l’altro, e poi mi sono fidanzata, e poi sposata, e qui mi hanno assunto per lavorare all’hub. Ancora adesso, quando mi riposo a casa non vedo l’ora di tornare qui.”
Da quell’inizio molto identitario, in cui Reema si è messa a disposizione dei suoi connazionali, oggi si trova però ad accogliere eritrei, etiopi, somali, sudanesi. “Voglio aiutarli,” dice, i grandi occhi scuri e seri, “ma è sicuramente più difficile. Per prima cosa, io non parlo tigrino – abbiamo un traduttore, Ziggy, che è arrivato nel 2007 con gli sbarchi e parla inglese, tigrino e arabo. L’altra difficoltà è che loro sono molto chiusi. Un po’ sono riservati di natura, ma soprattutto sono molto spaventati, hanno passato cose terribili e non riescono a fidarsi di nessuno, capisci? E poi io sono una donna che porta il velo, e loro non si fidano più degli arabi per colpa di quello che hanno passato con l’ISIS in Libia.” Accoglierli è diventata una sfida con se stessa: “Fino a quel momento, le uniche persone africane che avevo mai conosciuto erano domestici nelle case in Siria. Sapevo di avere un pregiudizio, e sapevo di volerli trattare bene come avevo fatto con i miei connazionali. Adesso li conosco meglio. Spesso non ho il coraggio di chiedere la loro storia. Parlano pochissimo, e quando dicono qualcosa, dicono del viaggio. Il loro viaggio fa veramente paura.”
Reema ha scoperto la storia di una bellissima ragazza eritrea solo quando l’ha ascoltata raccontarla a un giornalista inglese. “Cercava sempre di vestirsi bene, ci teneva, metteva la minigonna e sembrava sempre allegra, e con me parlava un po’ di arabo. Aveva un sorriso bellissimo. A un certo punto ha detto che la sua bambina di due anni era morta durante il viaggio, e che l’aveva dovuta seppellire nel deserto. Sono rimasta scioccata.”
Alberto Sinigallia, presidente del Progetto Arca, mi aveva avvisato: “Molte delle donne incinte che vedrai sono incinte dei loro violentatori.” Questa consapevolezza dura, straniante, mi accompagna ogni volta che passo un po’ di tempo all’hub. “La verità,” dice Sinigallia, “è che quasi tutte le donne che passano da noi sono state violentate nei campi di detenzione in Libia prima di imbarcarsi. È atroce, ed è anche la misura di quanto sia forte il loro desiderio di mettersi in viaggio, perché queste donne sanno a cosa vanno incontro, al punto che alcune di loro fanno una terapia ormonale prima di partire per minimizzare il rischio di gravidanza.” L’hub le mette in contatto con la clinica Mangiagalli, dove c’è il pronto soccorso violenza sessuale. “Mi ricordo una giovane donna africana” dice Sinigallia, “che aveva subito violenza in Libia ed era rimasta incinta. Viaggiava per ricongiungersi col marito in un paese nordico, ma non aveva il coraggio di dirgli cos’era successo, voleva tenere il bambino ma aveva paura che lui la ripudiasse. All’hub l’hanno aiutata gli psicologi, che hanno anche mediato a distanza col marito, e lui alla fine ha acconsentito a che lei lo raggiungesse e tenesse il bambino.
È un caso limite, ma spiega la situazione. Al rifugio di via Agordat, qui a Milano, le donne sono tutte incinte, e tutte da violenze subite in Libia.” Il rifugio per le profughe incinte sotto protezione internazionale è un esperimento unico nel suo genere, perché lì, dal giugno 2016, ad accogliere queste giovani donne violentate sono le anziane di una casa di riposo.
“Per fortuna la mia coordinatrice è una donna, Fabiana,” dice Reema, “ha 30 anni ed è molto coraggiosa. Certe notti dorme solo due ore. C’era una giovane eritrea che parlava siriano perché aveva fatto la domestica in Siria – ora forse è in Germania, e spero che stia bene. È arrivata qui incinta perché l’avevano violentata, e ha detto che voleva morire piuttosto che tenere il bambino. Fabiana è riuscita a farla parlare con i medici della Mangiagalli, che in seguito l’hanno assistita con l’interruzione di gravidanza. Altre ragazze violentate decidono di tenere i bambini. Alcune invece arrivano col marito e sono incinte del loro primo figlio.” Reema mi mostra fiera un grande fiocco rosa su fondo verde appeso al muro. “L’altro giorno ci è nata una bambina. Una donna arrivata con un grosso gruppo di eritrei fatti sbarcare in Calabria, non ha fatto in tempo a registrarsi che l’abbiamo mandata alla clinica Macedonio Melloni.”Il fiocco è fatto di carta crespa e nastro da regalo.”Quando ha partorito non aveva ancora idea di dove fosse suo marito. Li avevano separati allo sbarco.”
Potete leggere qui la prima puntata del reportage. La prossima parte del nostro reportage sull’hub di Milano, la terza, sarà pubblicata il 30 novembre.
FOTO COPERTINA: Giovani eritrei aspettano il loro turno davanti allo studio del dottore, hub di via Sammartini – foto di Marina Petrillo