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Homepage >> Approfondimento >> Vietato respingere, così un gruppo di eritrei ha vinto lo storico ricorso contro l’Italia

Vietato respingere, così un gruppo di eritrei ha vinto lo storico ricorso contro l’Italia

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3 settembre 2020 - Eleonora Camilli
Per la prima volta il Tribunale di Roma ha stabilito che, dopo un respingimento, ha diritto ad un visto di ingresso per chiedere protezione chi non è presente sul territorio italiano. Una sentenza storica che arriva dopo il ricorso di alcuni cittadini eritrei respinti illegalmente in Libia nel 2009 dalla Marina militare italiana. Eleonora Camilli ha incontrato il primo gruppo sbarcato - con visto - a Fiumicino e ci racconta come si è arrivati alla sentenza.

“Una cicatrice” ripete “un’enorme ferita”. Quel 1 luglio del 2009 per H.* è un ricordo indelebile: era partito dalle coste libiche tre giorni prima, il 29 giugno, insieme ad altre 88 persone, a bordo di un gommone carico. Tutti eritrei, tra cui 75 uomini, nove donne e tre bambini. I trafficanti, che avevano organizzato il viaggio, li avevano scortati per qualche miglia, per poi lasciare i migranti in alto mare, con poco cibo e poca acqua. Anche la benzina scarseggiava, così dopo tre giorni il motore si spense. I naufraghi riuscirono comunque a lanciare un Sos. Esausti per la navigazione, stremati dalla fame e dal sole, attesero ancora per ore. Solo nel pomeriggio del 1 luglio, quando il giorno volgeva verso sera, arrivarono i soccorsi: prima un elicottero, poi una motovedetta, finché furono fatti salire su una nave della Marina militare. “Presto sarete in Italia” li rassicurano, ma quando iniziava ad albeggiare i migranti riconobbero all’orizzonte le coste della Libia: erano stati riportati indietro, nell’inferno da cui scappavano.

Sono passati undici anni da quel respingimento operato dalle autorità italiane, e dopo una battaglia legale lunghissima e una sentenza storica, H. ed altri cinque migranti, che erano a bordo di quel gommone, sono arrivati in Italia. Sono sbarcati nella tarda mattinata di domenica 30 agosto al terminal 3 dell’aeroporto di Fiumicino. Le valigie stracolme con dentro i pezzi di una vita, il sorriso stampato in faccia e l’emozione del primo viaggio con un visto regolare. “È la fine di un incubo: ora vogliamo solo vivere da uomini liberi – afferma H.-. Dopo tanti viaggi difficili, la prigionia in Libia, le torture nel Sinai e gli anni in Israele, arrivare in aereo, regolarmente è stata un’emozione fortissima”.

Ad accoglierli a Fiumicino ed accompagnarli nel viaggio verso Roma (dove i cinque dovranno restare in quarantena prima di poter chiedere asilo) gli avvocati, Salvatore Fachile e Cristina Laura Cecchini di Asgi, che hanno portato avanti la causa contro l’Italia e i rappresentanti di Amnesty International, che hanno fornito la documentazione necessaria per il contenzioso. Dopo una ricerca durata anni, infatti, 16 degli 89 migranti respinti dall’allora governo Berlusconi, sono stati rintracciati in Israele proprio dai funzionari dell’organizzazione internazionale.

Qui i ragazzi erano arrivati dopo essere riusciti a scappare dalla Libia, passando per il deserto del Sinai. “È stato un viaggio bruttissimo: per noi il 2009 è un anno da dimenticare ma che è rimasto come una cicatrice nel nostro cervello” racconta ancora il richiedente asilo. “Quando siamo tornati in Libia abbiamo avuto tantissimi problemi, ci hanno messo in prigione. Siamo stati torturati e minacciati. Nel centro di detenzione dove eravamo c’era un continuo traffico di persone, rischiavi di essere venduto ogni giorno. Ma dopo un anno, un gruppo di noi è riuscito ad arrivare nel Sinai. Anche qui le cose non erano facili: abbiamo subito violenze di ogni tipo, ma poi siamo arrivati in Israele”.

L’ingresso nel paese, però, è stata l’ennesima doccia fredda: “pensavamo che fosse uno Stato democratico, invece non ci hanno concesso la protezione: senza documenti eravamo di nuovo invisibili. Spesso ci sfruttavano anche lavorativamente: ci facevano fare mansioni manuali, ma poi qualcuno si permetteva anche di non pagarci, tanto si sapeva che non avremmo denunciato. Anzi, senza documenti rischiavamo noi di finire in prigione senza motivo. Ho sempre vissuto in case con altre quattro o cinque persone, per dividere le spese e il cibo. Non è stata mai una vita normale”.

Ed è proprio qui che H. e i suoi compagni, chiedendo aiuto, sono entrati in contatto con il personale di Amnesty. “In Israele ci sono tante straordinarie persone che si occupano dei rifugiati, perché lì il tema è serio. Non hanno la protezione e c’è sempre il rischio che siano rimandati in paesi africani con cui Israele ha fatto accordi, come l’Uganda e il Ruanda – spiega Riccardo Noury di Amnesty Italia -. E così nell’ambito di una ricerca complessiva su che fine avessero fatto gli 89 respinti del 2009, e sapendo che c’era questa rotta per il Sinai, abbiamo chiesto ai nostri  partner israeliani se ci fossero persone che arrivavano da quel respingimento. Hanno trovato queste 16 persone eritree, che si trovavano tutte in un limbo giuridico”.  Raccolte le procure, gli avvocati italiani hanno chiesto giustizia per i migranti respinti. 

Delle altre donne e degli uomini a bordo del gommone le notizie sono frammentarie: si sa solo che alcuni hanno perso la vita provando nuovamente la via del mare. Altri sono riusciti a raggiungere le coste italiane e da qui i paesi del nord Europa. Solo questo gruppo di 16 è stato rintracciato. La causa è stata intentata il 25 giugno del 2014: i ricorrenti chiedevano l’affermazione del loro diritto di fare ingresso in Italia per accedere alla protezione internazionale e il risarcimento danni. Cinque anni dopo, il 28 novembre 2019, con una sentenza storica (la 22917), il Tribunale civile di Roma ha dichiarato illegittimo il respingimento, ordinato il rilascio di un visto d’ingresso per permettere di accedere alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale e condannato le autorità italiane al risarcimento di 5 mila euro per ogni ricorrente.

La sentenza afferma, in particolare, che per rendere effettivo il diritto di asilo è necessario “espandere il campo di applicazione della protezione internazionale volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente nel territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione dei principi costituzionali e della Carta dei diritti dell’Unione europea.” 

Secondo le due organizzazioni che hanno curato il ricorso la decisione rappresenta un precedente importantissimo: per la prima volta un tribunale italiano stabilisce che dopo un respingimento ha diritto ad un visto di ingresso per chiedere protezione chi non è presente sul territorio italiano. “Finalmente si restituisce valore legale agli obblighi di protezione sanciti dall’art 10 della Costituzione – sottolineano gli avvocati, Fachile e Cecchini -. Questo arrivo rappresenta un precedente importante: le autorità italiane sono state costrette per la prima volta  a garantire l’ingresso sul territorio per accedere alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale e questo avviene non già in ragione di una concessione umanitaria ma dell’affermazione di un diritto di cui queste persone sono titolari. Sono evidenti le ricadute di tali principi verso tutte quelle politiche volte ad implementare il sistematico svuotamento degli obblighi di protezione e quanto mai attuale in questo momento storico”.

Per i due avvocati, in futuro lo stesso principio  potrebbe essere applicato anche per i “respingimenti delegati”, quelli cioè operati dalla cosiddetta guardia costiera libica nel mar Mediterraneo o a tutti i “respingimenti occulti”: negli aeroporti, nei porti o sul confine terrestre, con tra la Slovenia e l’Italia.

Padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo e fondatore dell’agenzia Habeshia ricorda che nel 2009, quando ministro dell’Interno era Roberto Maroni, i “respingimenti erano palesi mentre oggi sono delegati a navi commerciali o a fantomatiche guardie costiere”. Per Zerai però con questa sentenza “ il senso di giustizia viene ristabilito: certe scelte politiche – afferma – vogliono far passare l’idea che il diritto dei più vulnerabili sia un diritto calpestabile. Cercano di ignorarlo e vogliono trasformarlo in elemosina da concedere o negare. Invece il diritto è diritto e in quanto tale va riconosciuto. Così questa sentenza fa giustizia anche per le persone che hanno perso la vita tentando di nuovo la traversate e per coloro che sono morti nel deserto del Sinai. Se non ci fosse stato quel respingimento non ci sarebbero state sofferenza e perdite di vita”. 

 

* Per tutelare la privacy non riportiamo il nome per esteso

Etichettato con:Eritrea, Libia, Marina militare italiana, respingimenti in Libia, respingimenti in mare

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