Il Regolamento di Dublino nelle sue tre incarnazioni è stato oggetto di forti critiche – da parte di soggetti istituzionali e non – circa diversi aspetti, tra cui il più evidente è forse quello di essere un sistema che ha un impatto differente sugli stati membri dell’Ue a seconda della loro posizione geografica, lasciando particolarmente esposti i paesi sul confine meridionale.
Tali paesi hanno tradizionalmente risposto alla pressione imposta dal sistema di Dublino in due modi: formalmente, lamentandosi e chiedendo più solidarietà dagli altri stati dell’Unione, informalmente, evitando di prendere le impronte digitali alle persone in arrivo e quindi permettendo loro di aggirare il sistema burocratico (questo è il caso dell’Italia) oppure determinando, o comunque permettendo, condizioni talmente misere nei propri centri di accoglienza per richiedenti asilo da costringere gli altri stati membri – sotto la pressione della società civile e della magistratura – a cessare il ritorno dei cosiddetti “casi di Dublino” per evitare violazioni dei diritti umani (questo è il caso della Grecia).
Gli eventi degli ultimi mesi hanno portato alla sospensione de facto del Regolamento di Dublino e allo stesso tempo intensificato le richieste di una riforma sostanziale di un sistema le cui limitazioni appaiono ormai evidentissime.
Alla luce di ciò, non è stata un gran sorpresa che il commissario Ue per le migrazioni Dimitris Avramopoulos abbia annunciato questa settimana che la Commissione sta pianificando un radicale ripensamento del regolamento di Dublino, che ruoterebbe intorno all’introduzione di un criterio di ripartizione “semi-automatico”. Come Avramopolous ha detto ai rappresentanti parlamentari dei comitati dedicati alle libertà civili, «Dublino non deve più essere un mero strumento di allocazione di responsabilità». Lo scopo è infatti quello di creare «uno strumento di solidarietà tra gli stati membri».
Non c’è bisogno di andare molto indietro con la memoria per ricordare la strenua opposizione manifestata durante l’estate da molti stati membri relativamente alla prospettiva di una “relocation” di richiedenti asilo registrati in Italia, Grecia e Ungheria verso altri paesi dell’Unione Europea. Dopo innumerevoli summit e l’esercizio di una considerevole pressione da parte di Italia e Germania, in settembre gli stati Ue hanno infine, per quanto con riluttanza, dato il consenso alla sistemazione di 160mila richiedenti asilo nell’arco di due anni.
Al 14 gennaio, tuttavia, gli stati membri avevano messo a disposizione 4237 posti (e cioè il 2,5% di quanto promesso) ma effettivamente proceduto alla relocation di solo 272 rifugiati (rappresentanti solo lo 0,17% dei 160mila promessi). Allo stato attuale, l’implementazione dello schema non dà molta speranze sulle capacità della Commissione Europea di implementare un sistema di redistribuzione semi-automatica, peraltro presumibilmente per numeri significativamente più ampi.
Il lento avvio del meccanismo di re-distribuzione dei richiedenti asilo non solo conferma l’esistenza di una “crisi di solidarietà” interna all’area europea, ma evidenzia anche la facilità con cui la Ue è in grado di creare nuovi, costosi e inutili “mostri burocratici”. Fino adesso, sono stati assunti 40 funzionari di collegamento e 200 esperti al fine di implementare il sistema di redistribuzione: stando ai numeri attuali, vi è un funzionario per ogni rifugiato e un esperto ogni cinque. Trattasi chiaramente di una allocazione di risorse poco efficiente che sta determinando una (ulteriore) erosione della fiducia dei cittadini europei relativamente alla capacità delle istituzioni Ue di gestire la crisi dei rifugiati.
Twitter: @nandosigona