A mio giudizio non c’è dubbio che, attualmente, la crisi dei rifugiati sia la questione globale più importante di tutte, e in assoluto quella in cui abbiamo riportato gli insuccessi più gravi. Milioni di persone sono costrette ad abbandonare le loro case, quasi sempre perché le loro case non esistono più.
L’altro giorno sono stato preso di petto da un anziano e ben intenzionato signore americano, il quale sosteneva semplicemente che “qui non c’è abbastanza spazio per tutti”. Capisco che questo punto di vista derivi da una certa volontà di autoconservazione, e che assorbire i rifugiati è un carico enorme per qualsiasi economia, ma non ha importanza: si tratta di una questione di vita o di morte per milioni di individui, e non dovremmo neppure porci un dilemma morale quando sappiamo bene (per quanto cerchiamo di ignorarlo) che l’alternativa all’aprirgli le porte è altra morte e altra sofferenza.
Per fortuna, molte brave persone si stanno prendendo a cuore il problema e cercano di trovare soluzioni autentiche. Io passo le mie giornate sul ponte traballante che sta fra la tecnologia e i cambiamenti sociali, per cui ho visto fin troppi progetti che vogliono sfruttare la tecnologia per contribuire a risolvere la crisi dei rifugiati. Questo impulso sembra scaturire principalmente da due percezioni:
- Tanti, tantissimi specialisti di tecnologia vogliono Fare Qualcosa e hanno imparato, nel corso degli anni, che il loro appoggio è apprezzato e preziosissimo (benché a volte troppo orientato verso soluzioni tecnologiche);
- Le grandi istituzioni di primo soccorso umanitario sono viste alla stregua di goffi pachidermi da quanti vivono connessi in maniera radicale e sanno organizzarsi tramite la tecnologia molto più rapidamente ed efficacemente quando aggirano le pastoie burocratiche dei vecchi dinosauri.
Voglio essere chiaro: apprezzo e condivido a livello personale questa convinzione, sentita e ingenuamente sincera, che la tecnologia abbia una capacità incredibile di migliorare le vite umane. E ammettiamo che io sia uno specialista di database seduto sotto le luci al neon di un ufficio in una qualsiasi capitale del “mondo occidentale”, che passa quasi tutto il suo tempo ad aiutare una qualsiasi azienda a guadagnare di più. Coglierei al volo la possibilità di usare le mie capacità per migliorare le vite umane. E in tanti hanno fatto proprio questo.
Ed è proprio qui che abbiamo fallito, noi che ci battiamo per i cambiamenti sociali: la cosa migliore che abbiamo partorito fin qui lavorando con gli specialisti di tecnologia sono le hackathon.
Le hackathon fanno schifo
Le hackathon fanno schifo. Chiunque abbia parlato con me da un anno circa a questa parte sa quanto il modello delle hackathon mi abbia profondamente deluso. Non fraintendetemi: trovo che siano un modo fantastico di instaurare delle reti, potenziare le comunità e consolidare la fiducia negli obiettivi comuni.
Sono solo pessime per creare davvero delle cose.
In molti casi in cui le hackathon sono parte di un problema più vasto, i vantaggi superano gli svantaggi: ci sono molti esempi in cui la semplice opportunità di riunirsi intorno a un obiettivo comune dà ottimi frutti nel lungo periodo. Ma se chiediamo agli specialisti di tecnologia di dedicarci il loro tempo per una hackathon che migliorerà la vita di qualcuno, gli stiamo mentendo.
Nel complesso, non abbiamo in programma di portare avanti progetti emersi dalle hackathon, né la capacità per farlo. Non abbiamo l’infrastruttura necessaria a sostenerli. Non abbiamo modo di sapere con certezza che l’impegno richiesto da questi eventi farà una differenza significativa. Le persone oneste che s’impegnano duramente ci dedicano il loro tempo e le loro abilità nella speranza di produrre cambiamenti significativi, e noi le tradiamo. Peggio ancora, le hackathon sono diventati un vero e proprio modello di business per le organizzazioni globali. Con il pretesto dell’efficacia, le ONG ricevono milioni di donazioni per fare ben poco a parte community building: hanno una causa, ma non producono effetti.
Stiamo sfruttando invece di sostenere
Tornando alla crisi dei rifugiati: sono stati spesi milioni di dollari per progetti tecnologici di “sensibilizzazione”, mega eventi che si svolgono nelle capitali del mondo al fine dichiarato di “risolvere il problema dei rifugiati”, organizzazioni internazionali con migliaia di sedi, centinaia di hackathon e letteralmente zero progetti. Esistono innumerevoli app, piattaforme e progetti digitali rivolti ai rifugiati, e molti di questi cercano ripetutamente di risolvere lo stesso problema, in una serie di tentativi tanto sinceri quanto contraddittori di risolvere in maniera processuale dei problemi che invece sono sistemici.
(Se cercate una lista di cattivi da additare, siete nel posto sbagliato. Non sono qui per accusare; vorrei solo che ripensassimo tutti in maniera radicale al modo in cui valorizziamo le reciproche, e considerevoli, capacità.)
Smettiamo di creare app
La questione fondamentale, e che non vogliamo ammettere, è che ai rifugiati non servono app. Nei miei scambi con gli operatori umanitari, dalle grandi organizzazioni internazionali che fanno sì che ogni giorno i rifugiati abbiano un letto pulito e una doccia calda ai volontari delle comunità che comprano di tasca loro pacchetti di dati mobili affinché i rifugiati bloccati nelle stazioni possano mandare messaggi su Whatsapp ai loro cari, c’è una sola questione fondamentale che va risolta tramite la tecnologia: quella dell’accesso.
Non serve trovare ai rifugiati un modo migliore di comunicare: usano già le stesse app che usiamo noialtri.
Non serve creare mappe digitali dei punti di servizio: sono impossibili da tenere aggiornate, difficili da usare, e il problema si può risolvere molto più facilmente gestendo le informazioni offline.
Non serve trovare “soluzioni digitali” a tutti i problemi che c’immaginiamo un rifugiato possa avere: non siamo in grado di risolvere quelli di casa nostra, con che coraggio crediamo di poter risolvere quelli altrui?
Iniziamo a fornire accesso
Ai rifugiati serve accesso: a Internet e all’energia. Ai rifugiati serve prima di tutto accesso al potere decisionale politico — ma onestamente non ho idea di come risolvere quello squilibrio profondamente imbarazzante.
Quel che dobbiamo fare è assicurarci che i rifugiati abbiano entrambe le cose in abbondanza. Purtroppo il cablaggio non è una cosa che fa colpo, e non si può programmare a migliaia di chilometri di distanza. Per farlo occorrono soldi e manodopera sul campo.
Ciò significa dunque che le hackathon sono del tutto inutili per risolvere la crisi dei rifugiati? Sì, per come sono fatti oggi. Ma se invece li cambiassimo in maniera drastica? Magari il nuovo procedimento non farà altrettanto colpo e non sarà immediatamente gratificante, ma potrebbe dare risultati concreti.
Per la manodopera sul campo non c’è molto che possiamo fare. Credo anzi che sia sempre meglio usare i superpoteri che uno ha, anziché costringersi a un ruolo in cui non ci sente a proprio agio. A questo punto ci resta il denaro, e su quello possiamo lavorare.
Workathon: un’idea che può funzionare
Mediamente per una hackathon si trovano 15-20 individui altamente qualificati che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie abilità in vista della soluzione di un problema. In sintesi, progettano, programmano e scrivono finché il problema non è risolto. Dunque anziché gettarli in un buco nero di progetti fichissimi sulla carta ma destinati a non vedere mai la luce, perché non chiedere ai volenterosi di belle speranze di fare quel che gli riesce meglio, e di venire pagati per farlo?
Ecco la mia idea: un evento in cui i partecipanti portano a termine dei lavori concreti per delle aziende, e tutto il ricavato va alle organizzazioni che aiutano i rifugiati. Fare quello in cui si è bravi per generare profitti da destinare a soluzioni reali di problemi reali.
Fase 1: Trovare aziende che hanno bisogno di lavori in tempi rapidi
Una rapida occhiata alle piattaforme per freelance come UpWork mostra che non mancano certo le aziende che devono affidare lavori tecnici o creativi da svolgere in tempi brevi: progettare un logo, creare wireframe per la nuova sezione di un sito, ripulire un database back-end, scrivere contenuti per un sito di alimentazione. Possiamo rivolgerci a un gruppo di organizzazioni che hanno bisogno di affidare lavori, chiedergli un prezzo equo e metterci a disposizione durante lo hackathon per verificare e approvare i lavori. I progetti dovrebbero essere piuttosto complessi e stimolanti, e idealmente realizzabili nel giro di 8-10 ore.
Fase 2: Istituire un fondo separato e un sistema trasparente di trasferimento di denaro
Innanzitutto le organizzazioni che ricevono il lavoro devono poter pagare qualcuno, dunque ci serve un fondo per le workathon distinto dagli organizzatori e/o dai partecipanti (o in comproprietà fra questi). Idealmente i partecipanti portano a termine un progetto, l’azienda lo approva e lo paga, e il fondo separato cresce di un tot. L’aumento del fondo è l’obiettivo condiviso delle workathon!
Quindi sceglieremo oculatamente i beneficiari. Che abbiano motivazioni e giustificazioni chiare, e progetti chiari e pratici di investimento del denaro: esempi pratici e procedure documentate di come il denaro verrà speso per fornire accesso ai rifugiati. In Croazia, Adra sta costruendo pannelli di legno dotati di caricatori USB. I volontari possono creare punti di accesso wi-fi, mentre altri stanno costruendo robusti router wi-fi pronti da collegare, che si possono spargere lungo le rotte dei migranti.
Ancora meglio, anziché scegliere un solo beneficiario, la workathon può adottare il modello Humble Bundle e lasciare che siano i beneficiari a scegliere quanto di quel che pagano per un prodotto andrà a vari enti benefici – un partecipante potrà fare lo stesso con la parte di fondo separato che ha guadagnato.
Fase 3: Creare condizioni favorevoli
Fornire un ambiente confortevole e aperto a tutti, senza risparmiare sul sostegno materiale e tecnico. Trovare uno spazio fisico. Ordinare cibo, bevande e snack.
Il giorno della workathon, creare un’atmosfera che favorisca l’aggregazione della comunità in vista dell’obiettivo da raggiungere e che prepari tutti al ritmo di lavoro da tenere.
All’inizio della giornata, al posto della fasi di scoperta e brainstorming in cui i gruppi di una hackathon decidono quali progetti affrontare nel tempo assegnato, gli organizzatori condividono un elenco di proposte di lavoro. I partecipanti scelgono i progetti su cui vogliono lavorare, da soli o in squadre, e passano il resto del tempo a completare quanti ne vogliono, o quanti più riescono.
Qui valgono gli stessi punti di forza di una hackathon: rafforzare le reti esistenti, lavorare contro il tempo in vista di un obiettivo più grande, far parte di una comunità.
Fase 4: Follow up rapido e trasparente
La cosa che ho sentito dire più spesso ai partecipanti degli hackathon è “Spero proprio che ci sarà un follow up”. È una cosa che le hackathon fanno di rado, perché è antitetica all’idea (sbagliata) di confezionare l’impegno in un pacchetto finito. È molto deludente rendersi conto di aver investito il proprio tempo in qualcosa a cui si tiene tanto, per poi vederla dissolversi e svanire lentamente.
Nella workathon il follow up è già incluso nel metodo: alla fine non ci ritroviamo con un mucchio di prototipi raffazzonati che richiedono molto più tempo e molte più risorse di quante ne abbiamo anche solo per verificarne l’effettiva utilità. Abbiamo invece un bella somma sostanziosa che verrà incassata direttamente dall’ente benefico che tutti i partecipanti già conoscono bene, perché lo abbiamo presentato all’inizio. È un cerchio che gli organizzatori devono premurarsi di chiudere, a) accertandosi che il denaro sia stato inviato, b) contattando gli enti benefici per sapere come è andato l’investimento e c) girando le relative informazioni ai partecipanti. Spetta agli organizzatori assicurarsi di aver fatto quanto dovevano: collaborare con le organizzazioni che operano sul campo per capire di cosa hanno bisogno, e fare una proposta di valore chiara ai partecipanti.
Semplice come un lavoro
Cioè niente affatto semplice. Ci sono molti elementi in gioco (presentare gli obiettivi in maniera convincente, assicurarsi che ogni ente benefico abbia una richiesta concreta, in modo che i partecipanti possano scegliere oculatamente, organizzare presentazioni a latere per informare meglio i partecipanti sulle questioni, e su cosa fanno le organizzazioni sul campo), e francamente non li conosco nemmeno tutti. Credo che le workathon siano una buona idea, e che possano funzionare.
Forse sono anche io troppo portato a soluzioni tecnologiche? Vorrei sapere cosa ne pensate voi. È una cosa che esiste già (io spero sinceramente di sì)? E se non esiste, funzionerà? Volete provare a realizzarla? Scrivetemi via mail ([email protected]) o su Twitter (@tingeber).
Letture consigliate
The if and when of technology for the global refugee crisis, di Lina Srivastava (twitter)
An app to save Syria’s lost generation? di Marc Latonero (twitter)
Refugees don’t need your apps, by Krithika Varagur (twitter)
Mapping Refugee Media Journeys: Smart Phones and Social Media Networks, rapporto di ricerca di Gillespie et al.
Questo post è nato grazie a una serie di conversazioni con persone che mi hanno dato spunti e informazioni preziosissimi: un ringraziamento speciale a Danna Ingleton per aver perfezionato l’idea dei workathon, e a Ileana Radojević per la sua esperienza sul campo.
Originariamente pubblicato in inglese su The Engine Room, traduzione a cura di Francesco Graziosi.
Foto di copertina: Pixabay (CC0).