Per chi fugge da guerre e carestie, povertà e dittature, la possibilità del naufragio è il prezzo da pagare per re-esistere dall’altra parte del Mediterraneo. Per quanto si cerchi di scoraggiare gli aspiranti richiedenti asilo attraverso blocchi, respingimenti, rimpatri e campagne di comunicazione ad hoc, quel mare di mezzo – Mare Medi Terraneum in latino, il mare in mezzo alle terre – che i romani definivano Mare Nostrum, resta più attraente dell’impossibilità di attraversarlo.
Ponte tra Oriente e Occidente, il Mediterraneo è oggi divenuto teatro di diaspore e conflitti, di speranze naufragate sotto forma di stragi, di traffico di essere umani, di arresti e di solidarietà. Non solo luogo geografico, ma immaginario mutevole che contribuisce a influenzare la percezione dell’altro. A volte rappresentandolo come prossimo, simile, fratello dell’altra sponda. Altre categorizzandolo come alieno, disumanizzandolo, e alimentando così una indifferenza, quando non vera e propria xenofobia, che finisce per considerare inevitabili le tragedie del mare prodotte dalle politiche di respingimento.
Nel passaggio dalle morti fantasma di pochi anni fa all’iper-visibilità dei naufragi contemporanei vengono a galla le incrinature che contrappongono una cultura all’altra. Quella ebraica o cristiana contro quella araba e islamica, quella del cosmopolitismo contro la chiusura identitaria, quella della sicurezza e del controllo dei confini contro l’afflato solidale che mira ad aprire corridoi umanitari.
Un dualismo costruito sulla paura dell’altro crea muri intangibili che cancellano una storia di comuni contaminazioni, generando incomprensioni da entrambe le parti. Una contrapposizione inquietante che, oggi più che mai, vede l’area mediterranea solcata dalla divisione di muri concreti, materiali. Muri che rischiano di far crollare i tanti ponti che hanno sempre legato le due rive.
Il muro tra Israele e Palestina, la barriera tra Egitto e Gaza, la Linea verde di Cipro che separa la parte a maggioranza greca da quella sotto il controllo turco, la fortificazione delle enclave di Ceuta e Melilla in Marocco, il muro disseminato di mine anti-uomo tra Marocco e Repubblica Araba Saharawi, quello tra la Tunisia e la Libia in funzione antiterroristica. E sulle sponde europee, la barriera che separa la Grecia della Turchia, le recinzioni innalzate da Bulgaria, Serbia, Ungheria, Slovenia e Croazia e per bloccare i flussi migratori provenienti dal Sud del Mediterraneo, la Grande Muraglia di Calais costruita nel 2016 per impedire ai migranti di salire clandestinamente sui camion diretti in Gran Bretagna, sino al muro di via Anelli costruito nel 2006 a Padova per dividere il quartiere abitato da immigrati dalle villette a schiera dei veneti.
Meno significanti nella loro materialità e fisicità rispetto alle narrazioni ideologiche che in essi si sedimentano, questi muri oggi appaiono marcatori di una geografia morale del mondo in cui convivono apertura e chiusura, universalizzazione e esclusione. Segni concreti dei paradossi di una globalizzazione che ha nella localizzazione identitaria l’altra faccia della medaglia. Un wall-being edificato sulle macerie del well-being.
Ma qual è il significato di questi muri?
Turisti e vagabondi
La crisi dello Stato-nazione tenta di nascondersi dietro muri che promettono di difendere i cittadini dai pericoli esterni, ma che sembrano più utili a distogliere l’attenzione dalla crisi economica e dall’erosione del welfare. E il migrante diventa il perfetto capro espiatorio in una società in cui chi ha perso reddito e futuro sta diventando la maggioranza. Con un ascensore sociale bloccato, o che ha addirittura invertito la sua corsa (non più ascesa sociale ma declassamento), e con l’impossibilità di identificare i colpevoli in alto, si reagisce costruendo un altro più in basso di sé, da schiacciare ancora più in basso per ristabilirne la distanza.
Basta seguire le rotte dei traghetti che da Brindisi viaggiano in direzione Patrasso, con i volti dei passeggeri ansiosi di mettere a mollo le loro carni unte di creme e rassodate da un tempo libero dedicato alla cura del corpo, o la scia delle crociere appesantite dall’aria condizionata e dai buffet a disposizione 24 ore su 24, e confrontarle con le partenze notturne di precarie imbarcazioni libiche o tunisine stipate di esseri umani che hanno atteso mesi per essere presi a bordo in massa, accompagnati dalla sola speranza di non finire risucchiati nelle viscere del mar Mediterraneo. Le rotte del Mediterraneo disegnano un mondo diviso tra “turisti” e “vagabondi”, che come sostiene Bauman, rappresentano l’uno l’alter ego dell’altro, con la differenza che il vagabondo è legato con catene doppie alla territorialità, umiliato dall’obbligo di dover restare fermo, a fronte dell’ostentata libertà di movimento degli altri.
Vagabondo è colui da bandire, il clandestino e il barbone dalla strada, lo zingaro e il migrante, il clochard e il richiedente asilo, criminalizzandolo e confinandolo negli hot spot o in lontani ghetti dove non si va, chiedendone l’esclusione, l’esilio o l’incarcerazione. Vagabondi sono tutti gli stranieri morti senza nome, annegati nel tentativo disperato di raggiungere l’Europa. Vite “non degne di lutto” le definisce Judith Butler.
Se il vagabondo invidia la vita del turista e vi aspira, a sua volta il turista, nella sua fascia media, ha il terrore che il suo status possa cambiare all’improvviso. Per quanto affamato di diversità durante la vacanza, di quell’esotico che permette di rompere con la noia del quotidiano, il turista di ritorno a casa vive il diverso come minaccia, l’incubo che risveglia il rischio della precarietà e l’odore amaro della sconfitta.
Diverso è lo straniero, vissuto come totalmente alieno, extra. Ridotto e relegato a categorie generali, quali i profughi, i clandestini, gli irregolari, rimarca la logica amico-nemico, creando un solco tra noi e loro che diventa cognitivo e morale, oltre che fisico e sociale. In un’Europa che riconosce lo stato di diritto esclusivamente a chi possiede la cittadinanza comunitaria, producendo così particolarismo ed esclusione, i processi di etichettamento che categorizzano lo straniero come estraneo pericoloso o vittima da compatire contribuiscono a incasellare chi tenta di raggiungere le sponde della fortezza Europa nei contenitori culturali e giuridici da noi artificiosamente elaborati. Gli stessi contenitori che contrassegnano la traversata del turista e l’avventura del vagabondo, per il quale il mare Mediterraneo diventa muro, barricata, espressione della discrepanza tra il fuori e il dentro, la materializzazione di una chiusura identitaria che porta alla scomparsa dell’altro, alla sparizione di quell’alterità senza la quale le identità non hanno più un’esistenza sociale.
Il muro Mediterraneo
Il muro Mediterraneo diventa oggi l’icona tangibile di una debolezza e di una vulnerabilità con cui gli Stati non avevano ancora avuto modo di confrontarsi. Rappresentando simbolicamente una funzione e un’efficacia che in realtà non esercita, il Mediterraneo, come gli altri muri, appare come una “performance teatrale e spettacolarizzata del potere”, per dirla con Wendy Brown. Una performance che rispecchia il potere produttivo del confine, ovvero il ruolo strategico che esso gioca come fabrica mundi, la sua capacità di costruire il mondo. Uno spazio simbolico con una dimensione spaziale che tendiamo a considerare naturale, geografica, territoriale. Ma che è invece un’istituzione sociale complessa, segnata dalla tensione tra pratiche di rafforzamento e pratiche di attraversamento. Un dispositivo che attraversa la vita di milioni di uomini e donne che, in movimento oppure condizionati dai confini pur restando sedentari, si portano i confini addosso.
Basta osservare come la cosiddetta “crisi dei migranti” è stata declinata dai media negli ultimi anni per comprendere fino a che punto la nostra percezione del Mediterraneo sia sempre mediata da discorsi, fotografie, video e reportage che intercettano gli sguardi e interferiscono con la nostra sfera emotiva, ora dilatando ora restringendo la distanza fra lo spettatore e la trama degli eventi.
Come già evidenziato, il Mediterraneo come confine, prima ancora che fisico, è narrato, mediatizzato, spettacolarizzato.
Si pensi alla rappresentazione dell’Emergenza Nord Africa nel 2011, seguita alle cosiddette primavere arabe, rispetto alla diversa messa in scena della missione militare-umanitaria Mare Nostrum, con l’iper-visibilità dei soccorsi operati in mare dai nuovi “inviati al fronte” che evocava empatia per i soccorritori e compassione per i migranti.
Poi è cambiato il vento politico e le maree emotive. Diradati nella nebbia gli effetti della foto del piccolo Aylan Kurdi, triste icona del nostro tempo, è arrivato il tempo della criminalizzazione delle Ong. Prima osannate per la loro opera di solidarietà, nell’estate 2017 vengono da più parti accusate di collusione con i trafficanti, e si ritrovano dapprima obbligate a sottoscrivere un codice di condotta stilato dal ministro dell’Interno Marco Minniti e poi costrette a sospendere le loro attività sotto l’accusa di “crimini umanitari”. Che non sono, come si potrebbe credere, quelli commessi “contro l’umanità” ma quelli commessi per “eccesso di umanità”.
Nel giro di pochi anni, dalla fine del 2013 all’estate 2017, la militarizzazione delle frontiere nel Mediterraneo esplicitamente associata al discorso umanitario ha spostato il confine più a Sud, sulle onde del mare che si infrangono nei centri di detenzione libici. La logica di minaccia e benevolenza, alimentata dai media, ha lasciato il posto a una repressione compassionevole che oggi sembra destinata a perdere il peso morale del secondo termine.
Agli accordi tra Unione Europea e Turchia (marzo 2016), e tra Italia e Libia (febbraio 2017), segue uno sconvolgimento semantico, oltre che politico e morale, che fa scomparire i migranti dalla nostra vista. Chiusi nei centri di detenzione libici rinominati di “accoglienza”, rimpatriati volontariamente e non deportati con la forza, vittime di scafisti e trafficanti da arrestare e non di traghettatori che creano crepe in quel mondo di mezzo dai confini incerti qual è il Mediterraneo.
Quando si riduce la distanza tra le vittime e gli spettatori, l’umanitarismo ritorna a essere strumento “paternalistico” nei confronti del Sud del mondo. Quando la paura prevale sulla compassione alimenta retoriche discorsive che legittimano la chiusura delle frontiere e giustificano guerre, dapprima ai migranti che tentano di attraversare i confini a bordo di imbarcazioni di fortuna, e poi agli stessi operatori umanitari che lottano contro le onde per portarli in salvo. Con la riduzione della distanza fisica tra “loro” e “noi” si è allargato l’imbarbarimento antropologico che riproduce la relazione gerarchica tra l’“Africano” e l’“Europeo”. La solidarietà viene oggi guardata con sospetto, perseguita come reato. E il male riconfigurato come normalità. Banalità.
In copertina: Ceuta vista dall’alto (foto: Fotero, su licenza CC BY-NC 2.0)