1. Linea dura sui rimpatri forzati
Nella visione del Viminale, la prima e più fondamentale esigenza pare una soltanto: rimandare a casa quanti più “irregolari” possibili. E davvero, perché “il foglio di via non basta: chi non ha diritto a restare deve essere riportato nel paese di provenienza”.
Questo vuol dire accelerare ed aumentare i rimpatri forzati, soprattutto attraverso la firma di accordi bilaterali con i paesi di origine e transito dei migranti – anche se si tratta di dittature come quella sudanese o paesi noti per le sistematiche violazioni dei diritti umani come la Libia. E infatti l’effettiva esecuzione del memorandum appena firmato con il governo libico internazionalmente riconosciuto – e tanto criticato – è tra le prime priorità del Ministero.
Nonostante tale accordo sia, per dirla con l’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), “in totale spregio del diritto di asilo consacrato nella Costituzione italiana e del dovere di rispettare i diritti umani”.
2. Estensione del sistema della detenzione amministrativa
Nell’attesa di stipulare e rendere esecutivi altri accordi come quelli già siglati ed ottenere così (ad ogni costo) l’accelerazione delle procedure di rimpatrio, la soluzione principe pare sempre quella della detenzione amministrativa, che cambia nome ma non sostanza. Il secondo elemento della ricetta di Minniti è infatti quello dell’estensione del sistema della detenzione amministrativa per gli immigrati. Quadruplicazione della capienza – dai nemmeno 400 posti attuali a 1600 – tramite l’apertura di nuovi centri, che, nella visione del Ministro, con gli attuali Centri di identificazione e espulsione (Cie) non dovrebbero avere proprio niente a che fare. Centri nuovi, nomi nuovi – da Cie a Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) – uno in ogni regione, dovrebbero essere “di piccole dimensioni, con governance trasparente e poteri di accesso illimitato per il Garante dei detenuti” – per cambiare la sostanza. Peccato che in questo modo si continua a ignorare il fallimento storico del sistema della detenzione amministrativa, che è innanzitutto disumano – le condizioni nei centri sono tanto disperate che alcuni casi di rivolta violenta sono stati ritenuti dai giudici legittima difesa dei trattenuti contro la privazione dei propri diritti fondamentali – ma anche inutile – la maggior parte delle persone che transita nei Cie non viene poi effettivamente rimpatriata – e incredibilmente costoso.
La realtà è che, come dichiara Gabriella Guido, portavoce della campagna LasciateCIEntrare, “Non vanno aperti nuovi centri, ma chiusi quelli che ci sono”.
3. Accorciare i tempi delle procedure d’asilo riducendo le garanzie
La situazione cambia in peggio non solo per i cosiddetti “irregolari” ma anche per i richiedenti protezione internazionale. Per intervenire sul sovraccarico del sistema di asilo ed accoglienza e ridurre i tempi eccessivamente lunghi delle procedure, il governo propone una soluzione molto semplice: ridurre le garanzie in sede giurisdizionale.
Questo sarebbe infatti il principale effetto della proposta di riforma del processo civile per la trattazione dei ricorsi in materia di protezione internazionale che, tra le altre cose, prevede l’eliminazione del grado di appello per chi ha ricevuto un diniego dell’asilo in primo grado, sacrificando così in maniera evidente i diritti delle persone vulnerabili all’esigenza di alleggerire il carico dei Tribunali e dei centri di accoglienza. In altre parole, la proposta di riforma vuole fare ricadere sui richiedenti asilo le disfunzioni di un sistema amministrativo e la sofferenza del sistema giudiziario, non solo in materia di rifugiati.
Con conseguenze molto gravi perché, come spiega l’avvocato Asgi Dario Belluccio, “non avere la possibilità di appellare la decisione di primo grado in questa materia, vuol dire rinunciare a tutelare pienamente un diritto che, se violato, può comportare violenze, torture, discriminazioni, mettere a rischio la vita delle persone”.
4. Lavoro non retribuito per i richiedenti asilo
Intanto, per evitare “il vuoto dell’attesa” – così il ministro definisce, eufemisticamente, il limbo disperante in cui si trovano migliaia di persone abbandonate in condizioni di accoglienza precaria in attesa di ricevere risposta alla propria richiesta o ricorso – si propone la soluzione di “lavori di pubblica utilità, finanziati con fondi europei”. Con l’immediata precisazione che però “non si creerà una duplicazione nei mercati del lavoro, perché non sarà un lavoro retribuito”. Ed allora, visto che le parole contano, sarebbe forse meglio non parlare di lavoro ma bensì di un volontariato. In ogni caso, come sottolinea il Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir), assolutamente inammissibile sarebbe rendere questo lavoro socialmente utile obbligatorio ai fini dell’accoglienza o in qualche modo condizionante il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.
5. Aspetti positivi: l’investimento in accoglienza diffusa e rimpatri volontari e l’impegno per la trasparenza
Nelle linee programmatiche presentate da Minniti ci sono anche dei buoni propositi: all’eccessivo affidamento sui rimpatri forzati – assai lontani da essere usati come extrema ratio e anzi identificati come strumento fondamentale della strategia di gestione dei flussi – si affianca comunque la volontà di raddoppiare i fondi per i programmi di rimpatrio volontario assistito (RVA), l’alternativa umana su cui è importante investire. Poi c’è l’impegno per garantire un maggior coinvolgimento degli enti locali nella rete Sprar e far quindi crescere l’accoglienza diffusa e integrata. E infine tentativi di migliorare la trasparenza di un sistema notoriamente ed insopportabilmente opaco: da un lato, la rivoluzione degli appalti di gestione per i servizi dei centri per gli immigrati “lottizzati” (e cioè non a gara unica ma ciascuno messo a gara singolarmente) già approvata dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac); dall’altro, l’estensione del mandato del Garante nazionale dei detenuti sui centri.
Ma tutto questo non basta per compensare le forti criticità di un piano che pare innanzitutto limitare ulteriormente diritti e garanzie già fragili.
Foto di copertina: il ministro Minniti e il premier Gentiloni – via Palazzo Chigi (CC BY-NC-SA 2.0).