Arrivano all’alba, ti svegliano urlando e ti intimano di lasciare la tua casa per sempre: come i talebani. Così una donna afgana descrive l’operato della polizia greca, che venerdì scorso a Lesbo ha sgomberato la struttura privata di accoglienza del Pikpa Camp. A differenza però dai fondamentalisti islamici i poliziotti in tenuta antisommossa agivano per ordine diretto del Ministro delle migrazioni greco Notis Mitarachi.
Il governo greco non ha badato a spese: sei camionette, un centinaio di poliziotti, alcuni mezzi dell’esercito, e infine due pullman turistici per trasferire i migranti. L’operazione è durata alcune ore, in cui l’accesso al campo è stato bloccato anche alla stampa e agli stessi mediatori dell’organizzazione. Mentre all’esterno alcune decine di persone manifestavano la loro solidarietà al Pikpa Camp, e venivano bloccate da un cordone di poliziotti, la brutalità dell’azione all’interno ha causato a vari residenti attacchi di panico – una donna è stata portata in ospedale.
Ad essere sgomberate sono state in tutto 74 persone, tra cui 32 bambini. Provenienti da differenti Paesi, in comune hanno tutte un elevato grado di vulnerabilità: donne sole con bambini piccoli e neonati, minori non accompagnati, persone affette da malattie mentali o croniche, malati di cancro. Una condizione a cui si è aggiunta l’esperienza traumatizzante del loro percorso migratorio verso l’Europa, di cui l’ultimo tratto via mare.
Proprio per queste ragioni l’Unhcr aveva indirizzato i migranti nella struttura di accoglienza di Pikpa, giudicata più adeguata nelle loro condizioni rispetto ai campi ufficiali sull’isola. A differenza di questi ultimi Pikpa offriva ai suoi ospiti un ambiente sereno, non militarizzato, e un sostegno ad ampio raggio, dalla copertura delle necessità basilari e mediche a varie attività ricreative. Un valore riconosciuto dall’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati che per anni ha collaborato con il campo.
Nata nel 2012 in modo spontaneo dall’iniziativa di un gruppo di cittadini del posto, l’esperienza del Pikpa Camp è cresciuta negli anni, anche grazie al sostegno di volontari internazionali, dando vita alla Ong Lesvos Soldiarity. Efi Latsoudi, rappresentante legale della organizzazione, è stata onorata nel 2016 con il Premio Nansen Refugee dell’Unhcr proprio per il suo impegno nei confronti dei migranti sull’isola.
“È inaccettabile e assurdo che un posto come Pikpa sia costretto a chiudere, mentre il governo greco e quello europeo promuovono un modello di campo disumano e degradante come Moria 2.0”, commenta Latsoudi. Un punto di vista condiviso dal mondo dei lavoratori umanitari e degli attivisti in tutta Europa. Messaggi di solidarietà e appelli contro la chiusura sono stati lanciati da campagne informali come Leave No One Behind e Lesvos Calling, ma anche da organizzazioni come Amensty International, Oxfam, Intersos e Greek Council Refugees. Proprio quest’ultima Ong ha sottoposto alla Corte europea dei diritti umani il caso di due residenti di Pikpa: una donna e la sua bambina neonata, le cui condizioni di salute non avrebbero dovuto permetterne il trasferimento.
La Corte di Strasburgo non ha fatto però in tempo a giudicare i casi, il governo di Atene non aveva intenzione di aspettare. A settembre il ministro Mitarachi aveva annunciato alla stampa la chiusura di Pikpa entro la fine di ottobre ed è poi comparso in televisione per sottolineare la tempistica puntuale dell’operazione. A questo impegno nella comunicazione mediatica non è però corrisposto alcun tipo di dialogo con Lesvos Solidarity: “abbiamo appreso l’annuncio dello sgombero dai media come tutti”, racconta Carmen Dupont – attivista belga che cura la comunicazione dell’Ong.
Non solo la modalità, ma le stesse cause addotte dal ministro nel suo comunicato non convincono Dupont: “Il ministro ha usato la retorica della legalità, come se fossimo un’occupazione illegale, senza considerare che Pikpa è stato parte del sistema ufficiale per anni: l’Unhcr e la municipalità ci chiedevano di ospitare i migranti. Ora non gli serviamo più e ci chiudono, facendo riferimento alla pressione della comunità locale. È un argomento che polarizza e distorce: noi abbiamo sempre lavorato sostenendo tutti, anche le persone del posto”, spiega Dupont.
Il sovraffollamento dell’isola e la pressione conseguente sugli abitanti sono un dato evidente, in continua crescita dal momento che dalla stipula dell’accordo tra Europa e Turchia, nel 2016, i migranti che approdano a Lesbo non posso lasciare l’isola prima che la loro richiesta d’asilo sia processata. Alla quotidianità dell’isola appartengono così anche episodi di insofferenza, a volte violenta, nei confronti degli stranieri. Tra febbraio e marzo scorso, allo scoppio del coronavirus, cittadini greci avevano più volte bloccato le strade dell’isola con barricate, per evitare il passaggio di migranti e attivisti internazionali. Ora salgono alla cronaca singole aggressioni a migranti in strada da parte di abitanti dell’isola.
In via eccezionale, dopo l’incendio dell’hotspot di Moria lo scorso 8 settembre molti migranti sono stati trasferiti sulla terra ferma. Secondo i dati ufficiali i migranti presenti ora sull’isola sono poco più di 9.000. Nonostante la diminuzione nei numeri l’emergenzialità della gestione del fenomeno è però aumentata. Sgomberato Pikpa, restano solo i luoghi istituzionali destinati ai migranti: il nuovo hotspot, cosiddetto “Moria 2.0”, che si estende dal mare verso l’entroterra nella zona di Kara Tepe, dove si trova anche l’omonimo campo gestito dalla municipalità di Lesbo. Una struttura che ospita in container alcune centinaia di persone, tra di loro ora anche quelle sgomberate da poco: “sono tutti ancora traumatizzati dall’aver lasciato Pikpa, alcuni dopo anni. Cerchiamo comunque di assisterli anche lì, di cercare altri alloggi possibili. Nei container fa freddo e l’inverno sta arrivando”, commenta Dupont al riguardo.
In una condizione molto peggiore si trovano i circa 7.300 migranti all’interno di “Moria 2.0”: circondati dal filo spinato, in tende già allagate dalle prime piogge, senza docce, senza cibo sufficiente, con un crescente numero di casi di coronavirus. Enormi file contraddistinguono l’ingresso e l’uscita del campo, date le lunghe procedure da espletare in entrambi i casi. Presto potrebbe non essere più possibile lasciare l’hotspot, dal momento che il sindaco di Mitilene vorrebbe trasformarlo in un campo chiuso, adducendo come motivazione il pericolo della diffusione del coronavirus. Inoltre molti giornalisti sul posto lamentano la difficoltà d’accesso per la stampa.
They call it an "open camp", but this is what it looks like every morning on #Lesvos #Greece.
Walk freely in #Mytilini, relax & enjoy your freddo. You'll see this isn't about public safety or natl security. This is just about power & punishment #EuropeMustAct#LeaveNoOneBehind pic.twitter.com/N3S462ucyI— refocusmedialabs (@refocusmedialab) November 3, 2020
Allo stesso tempo cresce la presenza della polizia sull’isola: i poliziotti pattugliano le strade, fermano e controllano i migranti – in quello che sembrerebbe essere un tentativo di dissuaderli rispetto al loro spostarsi liberamente sull’isola. Anche gli attivisti vengono sempre più di frequente fermati, soprattutto al loro arrivo sull’isola: “al porto tutte le macchine con targhe straniere vengono controllate a fondo e i poliziotti si informano per quale organizzazione si è attivi”, racconta Markus G. – attivista tedesco del collettivo No Border Kitchen. Insieme a lui una decina di altri volontari internazionali si occupa di distribuire cibo per circa 300 migranti ogni giorno. Anche durante le distribuzioni capita spesso che la polizia si presenti e interrompa l’attività – la pandemia e il conseguente divieto di assembramenti sarebbero il motivo ufficiale.
Non solo piccoli gruppi subiscono la repressione della legge. Anche l’organizzazione Legal Centre Lesvos, che da tempo assiste i migranti sul piano legale e ne promuove i diritti, denuncia quella che l’operatrice britannica Amelia Cooper definisce come una generalizzata “repressione amministrativa” per le ong: più richieste da adempiere sul piano burocratico, ispezioni intimidatorie nei locali dell’organizzazione, la minaccia di multe esose. Anche Medici senza frontiere, organizzazione che da anni coopera con le istituzioni locali, è finita di recente nel mirino delle autorità ed è stata costretta a chiudere una clinica ad hoc per il coronavirus a causa di un cavillo formale.
La repressione della solidarietà e l’emarginazione dei migranti sembrano andare di pari passo. In questi giorni a Lesbo è presente una task force dell’Unione Europea: insieme al governo greco deve individuare il luogo adeguato per costruire il prossimo lager ufficiale, previsto per l’anno prossimo e molto probabilmente nella forma di una struttura completamente chiusa. L’attuale “Moria 2.0” dista poco più di sei chilometri dalla città di Mitilene: troppo vicino agli occhi dei turisti, alla frustrazione dei cittadini, alle telecamere dei giornalisti.