Dalla Giungla a Porte de la Chapelle
Ogni mattina alle sette Tabib, 25 anni e un viso da bambino, si mette in fila e aspetta. Insieme ai suoi amici, originari del Sudan come lui, alle prime luci dell’alba abbandona il giaciglio di fortuna che si è costruito su boulevard Ney, attraversa la strada a quattro corsie che da Porte de la Chapelle porta verso l’autostrada, e spera che per lui sia il giorno giusto. “Prima o poi dovranno aprire quella porta”, ripete da due mesi. “Ogni tanto qualcuno ci riesce, e così proviamo tutti i giorni. Finora siamo stati sempre respinti dalla polizia. Usano i gas e gli idranti contro di noi, ma non ci arrendiamo”. Questa odissea quotidiana Talib la condivide con altre centinaia di persone che vivono accampate agli angoli del quartiere nord di Parigi, dove sorge la bulle, il centro umanitario che la sindaca Anne Hidalgo ha costruito per dare prima accoglienza ai migranti e ai richiedenti asilo. Una tensostruttura bianca e gialla, che può accogliere fino a 400 persone, e che ormai da mesi è quasi sempre piena. Riuscire a entrarci è diventata una lotteria. Proprio per questo a Porte de la Chapelle si è ricreato un maxi-accampamento informale, fatto di tende, materassi, cartoni.
Tabib si sistema per terra, con le spalle appoggiate alla rete del campetto dove un gruppo di bambini gioca a calcio. Mi racconta che prima di arrivare qui ha vissuto sei mesi a Calais, sperando di riuscire in qualche modo ad arrivare in Inghilterra. Ma non c’è stato niente da fare, tutti i tentativi di passare la Manica sono stati vani, e così dopo lo sgombero della cosiddetta Giungla è arrivato a Parigi. Vive in strada da circa un anno. “Prima ero in uno squat, poi sono venuto qui dove mi hanno detto che c’era questo centro umanitario. Ma non immaginavo che fosse così difficile, di ritrovarmi peggio che nella Giungla”. Come molti altri connazionali, anche lui è passato dall’Italia dopo aver trascorso un periodo in Libia. Arrivato in Sicilia, ha attraversato la penisola e poi ha aspettato settimane a Ventimiglia prima di riuscire a varcare il confine. Nella valle del Roja, racconta, ad aiutarlo è stato Cédric Herrou: il ricordo del contadino francese è l’unico a strappargli un sorriso. “Dove sono gli avvocati, dove sono i giuristi che dovrebbero fare qualcosa per queste persone? È vergognoso quello che succede qui”, ci interrompe Hasna, un’attivista molto conosciuta a Parigi per il suo impegno al fianco di migranti e rifugiati. Kefiah nera sulla testa, sguardo determinato, ripete che “su questi marciapiedi si infrange l’impegno della Francia nel campo dei diritti dell’uomo. Qui non c’è dignità, queste persone vivono nell’immondizia: dove sono la fraternità e l’uguaglianza?”.
Il numero di persone accampate sui boulevard di Porte de la Chapelle varia da una settimana all’altra: in media sono 300 o 400, ma nei giorni di maggiori arrivi se ne contano anche mille. Sono tutti uomini, fra i 17 e i 30 anni, che arrivano da Sudan, Afghanistan, Eritrea, Siria. Le famiglie con bambini sono le uniche ad avere accesso immediato alla bulle, così come i minori soli. Nei mesi scorsi la zona è stata sgomberata più volte: l’ultima grande evacuazione risale al mese di maggio. Ma ogni volta il campo informale risorge. Sotto uno dei cavalcavia, che taglia il viale principale, l’amministrazione ha sistemato enormi sassi per impedire che vengano montate nuove tende. Un gruppo di artisti battezzatosi Coeurs de pierres et solidaires ha deciso di trasformare il divieto in un’installazione artistica, così ha fatto una chiamata pubblica su Facebook all’intera popolazione per scolpire queste grosse pietre con le tre parole simbolo su cui si fonda la repubblica francese: liberté, égalité et fraternité. Una delle incisioni sui massi è stata dedicata anche a tutte le persone morte nel tentativo di varcare la frontiera: en memorie de ceux qui ne sont pas arrivés (in memoria di coloro che non sono arrivati).
Fa caldo e alla bulle è impossibile entrare
Nei giorni della canicule l’aria è irrespirabile, l’odore dell’immondizia si mescola allo smog delle macchine che sfrecciano a poca distanza. Quando piove, invece, l’acqua ristagna per giorni. Le condizioni igienico-sanitarie sono al limite, non ci sono né docce né bagni chimici: per lavarsi i migranti usano l’unica fontanella situata a poca distanza dal campo da calcio; i bisogni invece si fanno all’aperto. Non sempre viene assicurato il servizio di pulizia delle strade, ed è per questo che la sera del 25 giugno i migranti hanno gettato a terra i rifiuti della cena in segno di protesta, proprio sotto il grande pannello con la scritta “Paris en mode” che sponsorizza le giornate olimpiche organizzate per lanciare la candidatura di Parigi ai prossimi giochi del 2024. Dopo la polizia, è intervenuta anche la nettezza urbana. Ma la situazione è ogni giorno più difficile. Un gruppo di Ong tra cui Jrs, Caritas France e Cispm, ha lanciato un appello congiunto: “L’abuso amministrativo che regna all’interno del centro, così come l’abuso fisico imposto alle persone che, giorno dopo giorno, tentano di entrare e sono, nel frattempo, costrette a dormire per strada, non sono in alcun modo il prodotto di un ‘afflusso’ insopportabile di profughi che la Francia, la sesta potenza mondiale, non poteva gestire” – si legge nell’appello – “ma le conseguenze di uno strutturale sottodimensionamento del fenomeno, e fanno parte di una strategia di deterrenza che la Francia, come più in generale l’Europa, sta mettendo in campo nei confronti di persone che necessitano di protezione”. Le associazioni chiedono che vengano aperte più strutture di prima accoglienza, a Parigi ma anche a Calais e a Ventimiglia.
Intanto alla bulle è impossibile entrare, dicono tutti, ma tutti comunque ci provano. Il gruppo più agguerrito è quello degli afgani, la seconda nazionalità più rappresentata dopo i sudanesi. Alcuni di loro ormai dormono davanti alle transenne messe dalla polizia per respingere i migranti. K.K., 22 anni, ha sistemato la sua piccola tenda proprio all’ingresso, a poca distanza dal presidio della polizia e da un pastore tedesco che nonostante la museruola continua ad abbaiare. “Sono arrivato qui circa due mesi fa”, mi racconta, “prima ho vissuto due anni in Germania. Ho fatto domanda d’asilo lì, ma mi hanno rifiutato perché considerano l’Afghanistan un paese sicuro. Ora vorrei provare in Francia, ma credo che anche qui sarà difficile”. Per arrivare in Germania è passato per la rotta dei Balcani, attraversando la Bulgaria, la Serbia, la Slovenia, l’Austria. “Pensavo che tutto si sarebbe risolto per il meglio ma ora mi trovo a ricominciare il mio percorso da capo, col rischio che mi rimandino nel mio paese”.
Omar, invece, dopo tre anni l’asilo è riuscito a ottenerlo in Francia, eppure vive anche lui per strada insieme agli altri migranti della Chapelle: “al centro umanitario non c’è spazio per tutti, ci ripetono, penso che facciano distinzione fra le nazionalità. Noi sudanesi non veniamo presi in considerazione”, dice. Più scaltro degli altri, da quando vive qui Omar si diverte a intervistare tutti quelli che arrivano per monitorare la situazione, compresi i giornalisti. La prima cosa che chiede è se l’interlocutore abbia una casa e un tetto sotto cui dormire; la seconda se, trovando davanti all’uscio un rifugiato che dorme per terra, sarebbe disposto a dargli assistenza. Conserva poi le interviste con l’idea di realizzarci qualcosa in futuro. “Lo faccio con tutti”, spiega, “anche con i poliziotti quando ci respingono, quando ci rimandano indietro usando spray e idranti. Spesso non sanno cosa rispondermi, penso che sappiano anche loro che quello che fanno è profondamente ingiusto”. L’associazione Gisti (Group d’information et de soutien des immigrès) ha filmato una delle azioni di polizia in cui i migranti vengono respinti con l’uso dei lacrimogeni. “Questo campo umanitario, inaugurato nel novembre 2016 su iniziativa del sindaco di Parigi e gestito da Emmaus solidarietà, è stato proposto come una vetrina per l’accoglienza dei rifugiati ma nasconde una realtà diversa”, scrivono in una nota, “dopo mesi a Porte de la Chapelle, il comitato di accoglienza degli esuli in fuga da Afghanistan, Siria, Sudan, Eritrea è costituito da gendarmi. Alcuni sono armati, altri hanno in mano degli spray, tutti sono posizionati dietro barriere protettive. Perché succede questo? Perché il campo è saturo e perché manca la volontà del governo di aprire altri luoghi di accoglienza”. Entrare nel “campo umanitario” è difficile anche per i giornalisti: la nostra richiesta di accesso è stata rifiutata. L’ufficio comunicazione dell’associazione Emmaus solidarietà, che gestisce la struttura, mi fa sapere che in questo momento ci sono “troppe richieste da parte dei media” e che è loro dovere “preservare il lavoro degli operatori nel campo”.
All’ingresso incontro Yann Manzi, di Utopia 56, l’associazione che collabora con Emmaus per la gestione della bulle. Mi dice che sono tutti consapevoli di quello che c’è lì fuori, ma se il centro è pieno non si può fare niente. La Francia dovrebbe pensare ad aprire nuovi centri, perché i numeri dell’immigrazione qui non sono certo quelli dell’Italia. Secondo l’ultimo rapporto Eurostat relativo al primo trimestre del 2017, il numero più alto di richiedenti asilo in Europa è stato registrato in Germania (con oltre 49 mila domande pari al 30 per cento di tutte le richieste negli stati membri dell’Ue), segue l’Italia con 36.900, ossia il 22 per cento, e la Francia con 22 mila, ovvero il 13 per cento del totale. Il nostro paese, con 14.600 richiedenti in più (+66 per cento), è quello che ha registrato l’aumento più consistente rispetto allo stesso quarto del 2016, mentre la Francia, pur in controtendenza rispetto agli altri paesi del Nord (dove le domande sono in diminuzione) si stabilizza sul +19 per cento. Per quanto riguarda l’accoglienza, in Francia sono circa 17 mila le persone presenti nei Cao (centri di accoglienza straordinaria) mentre sono 13.500 i posti previsti nei Cada (centri di accoglienza per richiedenti asilo). A Parigi, in particolare, sono in tutto circa 8 mila le persone accolte nel centro di prima accoglienza di Porte de la Chapelle negli ultimi quattro mesi.
Ad aiutare i migranti sono i volontari
Salah, che viene dal Darfur, mi spiega che la situazione dell’accoglienza è difficile in tutta la Francia. “Ora sono nel centro, ma anch’io per lungo tempo ho vissuto in strada, ai Jardins d’Eole, a nord di Parigi”. Mentre camminiamo mi racconta che nel suo paese studiava e per vivere faceva il trasportatore di merci per committenti privati. “Ho avuto diversi problemi perché sono di etnia Zaghawa, e il governo del mio paese pensava che anch’io facessi parte dei ribelli. Per cui sono stato costretto ad andarmene. Sono fuggito in Libia e ci sono rimasto due anni e mezzo: era molto difficile, come tutte le persone di pelle scura venivo stigmatizzato. Ma avevo comunque trovato un lavoro, facevo il fieno per i pascoli. Poi la situazione nel paese è precipitata: a un certo punto non c’era più un governo ed era impossibile restare, c’era il caos, era molto pericoloso. Alcuni miei amici sono stati rinchiusi in centri detenzione, altri rapiti. Era troppo pericoloso, così mi sono imbarcato verso l’Italia”. Salah mi spiega di essere stato per un periodo in un centro di accoglienza a Rovigo: “devo dire che si stava molto bene, ci trattavano con dignità. Ma non volevo restare in Italia, così sono andato a Ventimiglia, ho passato la frontiera e sono arrivato qui. Ho avuto molti problemi, ma ora sto aspettando il colloquio per la domanda d’asilo, spero che sia la volta buona”. Il suono di un clacson ci interrompe: un uomo, Salim, parcheggia una station wagon, e subito dietro si forma una lunga fila, proprio davanti al muro dove qualcuno ha scritto Where is my dignity?. È l’ora della cena. L’associazione di volontari Oumma ha preparato cinquecento pasti questa sera: in ogni pacchetto ci sono riso, pollo, datteri e una bottiglia d’acqua. L’associazione è formata in prevalenza da musulmani, ma vi partecipano anche cattolici: insieme si preparano i pasti con i generi alimentari ricevuti da donazioni private. “Cuciniamo tutti insieme per queste persone che hanno bisogno d’aiuto”.
Ad aiutare i migranti accampati a Porte de la Chapelle ci sono diverse reti di volontari, sia privati che associazioni. Vengono qui nonostante il ministro dell’Interno Gérard Collomb abbia annunciato una stretta sugli aiuti alle persone in strada. “È scandaloso che tutto dipenda dai volontari”, sottolinea Maurizia Balmelli, traduttrice italiana che vive da anni a Parigi e che fa parte di Baam, un’associazione nata nel 2015 per sostenere i migranti con l’insegnamento della lingua, la tutela legale e altre forme di assistenza. “Molto spesso i volontari sono completamente persi, le pratiche sono aleatorie”, aggiunge, “in nome di alcune leggi, come il Regolamento di Dublino, lo stato fa quello che vuole”. Anche Billel, dell’associazione Un monde sans faim, dice che quello che succede qui è “una vergogna, non si può vivere in queste condizioni. Per quello che possiamo li aiutiamo, ma è lo stato che dovrebbe mettere a disposizione degli alloggi”. “Tutto questo fa male al cuore”, gli fa eco Hamine, una donna di origine algerina che vive nel quartiere, e che ogni tanto passa a portare qualcosa. “Molti abitanti si lamentano di questa situazione”, dice, “alcuni hanno paura che i migranti restino stabilmente qui, ma c’è anche chi li aiuta”. Nei giardini che separano i due grandi vialoni centrali una signora distribuisce pane e biscotti, insieme al marito e ai suoi due bambini.
Poco più in là Mousavi, che viene dall’Afghanistan, esce dalla bulle tenendo in mano un pacco di generi alimentari. Indossa una maglietta della Pallacanestro Trieste. Mi racconta che l’ha avuta da una volontaria italiana di nome Ilaria quando viveva alla stazione di Belgrado. “Ora vivo in un albergo a boulevard Schuman, insieme a mia moglie e ai nostri quattro figli”, racconta mostrando fiero la foto della sua famiglia, scattata alla stazione. “Veniamo qui solo a prendere da mangiare. Forse siamo tra i pochi che possono dire di avercela fatta”.
In copertina: la cancellata del campetto di calcio accanto all’accampamento informale di Porte de la Chapelle, nord di Parigi, dove i migranti appendono i loro pochi averi (foto di Veronica Di Benedetto Montaccini, come tutte le fotografie nell’articolo)