A novembre del 2015 era chiaro che la politica delle porte aperte ai rifugiati dell’Unione europea, e in particolare della Germania, stava per finire. Ora della fine di quel mese, solo a persone provenienti da tre paesi era ancora permesso attraversare il confine senza conseguenze per raggiungere la loro meta finale: i siriani, gli iracheni, e gli afghani. Qualche mese dopo, a febbraio del 2016, anche gli afghani sono stati esclusi dalla lista. Migliaia di persone, però, continuavano ad arrivare ogni giorno sulle coste delle isole greche del mar Egeo. Dopo mesi di speculazioni, è arrivata la risposta dell’Unione europea ai grossi flussi migratori che entravano dalla Turchia: sotto forma di una dichiarazione di buona volontà fra la Ue e la Turchia.
Il 18 marzo 2016, le due parti hanno adottato la Dichiarazione Ue-Turchia, un documento non vincolante, meglio conosciuto come accordo Ue-Turchia, progettato al solo scopo di scoraggiare i profughi dal raggiungere l’Europa.
Cosa dice l’accordo Ue-Turchia
Il nucleo centrale dell’accordo Ue-Turchia è un meccanismo di scambio. “Per ogni rifugiato siriano rimandato in Turchia dalle isole greche, un altro siriano verrà ricollocato nell’Unione europea tenendo conto dei criteri di vulnerabilità previsti dalle Nazioni Unite”, dice il testo dell’accordo. In cambio, la Turchia si impegna a prevenire gli attraversamenti via mare dalle sue coste e l’Unione Europea le destina più di tre miliardi di euro, con altri tre miliardi aggiuntivi in una fase successiva, destinati ai rifugiati nel paese. L’accordo ha significato anche che l’Unione europea avrebbe considerato la Turchia come paese terzo sicuro per i rifugiati; che riportare i rifugiati in Turchia non sarebbe stato considerato un respingimento, che le leggi internazionali considerano illegale; e infine, che l’Europa e l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite avrebbero monitorato e seguito i casi delle persone rimandate indietro. Lo scopo era quello di limitare, se non di fermare del tutto, gli attraversamenti via mare, prevenire le morti in mare e creare una politica migratoria percorribile per l’Unione europea: un modello sperimentale che forse si poteva replicare anche in altre regioni.
Per coloro che erano in attesa sulle terraferma in Grecia, solo pochi mesi prima che entrasse in vigore l’accordo con la Turchia, l’Unione europea ha introdotto il meccanismo di ricollocazione di emergenza, nel tentativo di sollevare Grecia e Italia delle migliaia di persone che arrivavano ogni giorno. Con questo meccanismo, i paesi membri dell’Unione accettavano di ricollocare circa 98 mila profughi da Grecia e Italia; ma questo progetto aveva una data di scadenza. L’Unione ha concluso le ricollocazioni il 26 settembre 2017, anche se chi era arrivato entro quel giorno aveva ancora diritto a usufruirne. In totale, da ottobre del 2015 a ottobre del 2017 sono stati ricollocati nei paesi dell’Unione da Grecia e Italia soltanto 31.503 rifugiati.
A marzo di quest’anno, l’accordo Ue-Turchia ha festeggiato due anni di implementazione, e le statistiche ufficiali mostrano che funziona. Mentre nel 2015 sono arrivati in Grecia 856.723 rifugiati, nel 2016 gli arrivi sono stati soltanto 173.450, e nel 2017 i numeri sono stati notevolmente bassi, con solo 29.718 persone che hanno raggiunto le isole dell’Egeo. Allo stesso tempo, la mortalità sulla rotta mediterranea orientale è stata apparentemente bassa. In aggiunta a questo, sono stati 2.177 i rifugiati che sono stati rimandati in Turchia dalla Grecia utilizzando sia l’accordo Ue-Turchia che il protocollo bilaterale fra i due paesi. Infine, a marzo 2018 il totale di rifugiati siriani ricollocati dalla Turchia verso diversi paesi europei era di 12.778, con la Germania e l’Olanda ad accogliere il maggior numero di persone.
Le disastrose condizioni negli hotspot in Grecia
Sul campo, però, succedono cose molto diverse da quello che suggeriscono le cifre. “La realtà è molto diversa dalla narrazione europea sull’accordo Ue-Turchia”, ci dice Louise Roland Gosselin, capo missione di Medici senza frontiere (Msf) in Grecia.
Una delle conseguenze dell’accordo è stata una restrizione di movimento per coloro che sono arrivati sulle isole dopo il 20 marzo 2016. Costoro sono obbligati a restare sull’isola dove sono sbarcati, e sono obbligati a restare nei centri di accoglienza dell’isola fino alla completa registrazione della loro richiesta di asilo. Sono in gran parte da imputare a questo le condizioni disperate che i rifugiati affrontano nelle principale strutture governative sulle isole. Dal momento in cui l’accordo è entrato in vigore, coloro che raggiungono la Grecia attraverso l’Egeo in maniera irregolare possono presentare le loro richieste di asilo presso gli hotspot sulle isole – i luoghi di identificazione creati per registrare i profughi e prendere loro le impronte digitali. Una volta che hanno fatto domanda di asilo, aspettano finché non arriva l’esito dal servizio greco per l’asilo. Ma la lentezza delle procedure, e gli arrivi costanti – anche se in proporzioni più basse – fanno sì che non tutti possano vivere dentro gli hotspot, o che, se ci vivono, saranno assiepati in tende o piccoli container.
“Le persone sono assolutamente disperate. L’accoglienza è ancora in condizioni catastrofiche. Le persone finiscono per vivere in tende, o in 25 in un container, compresi bambini che continuano ad ammalarsi perché non hanno abbastanza aria fresca e non vengono protetti. I genitori non riescono a tenere i figli puliti e in salute. Centinaia di persone devono usare gli stessi servizi igienici o la stessa doccia, di cui non viene fatta adeguata manutenzione. Dei miglioramenti ci sono stati, ma a Moria abbiamo ancora un numero di persone che è più del doppio della capienza”, dice ancora Louise Roland Gosselin. Moria è l’hotspot più affollato di tutte le isole greche nell’Egeo. In totale, le isole ospitano più di 13.500 rifugiati, mentre la loro capienza, fra hotspot e altri servizi, non arriva a 9 mila. Lesbo, per esempio, ospita più di 7.400 persone, di cui 5.404 che vivono nell’hotspot di Moria, che ha una capienza massima di 3 mila persone.
Le Ong e gli altri soggetti che sono attivi sul campo hanno chiesto conto delle condizioni terribili che l’accordo Ue-Turchia ha creato. Sebbene i rifugiati non siano rinchiusi in centri di detenzione, le restrizioni di movimento, così come le condizioni sempre più deteriorate negli hotspot, hanno creato un circolo vizioso per coloro che ci abitano. Le persone sono libere di spostarsi in giro per l’isola, ma le condizioni in cui vivono e le scarse opzioni che hanno sono una seria limitazione al loro benessere.
Sulle isole greche, rivolte e violenza sono costanti in quasi tutti gli hotspot, ma soprattutto in quelli che hanno di molto superato la capienza. Dopo una rivolta scoppiata di recente a Moria, Msf, che mantiene una clinica di emergenza fuori dal campo, ha curato 20 persone fra cui un bimbo di sei mesi che presentava un’infiammazione da gas lacrimogeni e attacchi di panico. Ma le rivolte sono solo un aspetto di quello che sta succedendo a Moria. La conseguenza più devastante è l’effetto che la vita nei campi ha sulla stabilità mentale delle persone, al punto che Msf ha descritto le condizioni sulle isole greche come un’emergenza di salute mentale.
Secondo il rapporto di Msf, le condizioni di vita sulle isole greche e l’esposizione a situazioni violente, compresa la paura di essere rispediti in Turchia, non solo fanno riemergere le esperienze traumatiche che queste persone hanno già vissuto, ma creano anche nuovi traumi, che deteriorano la loro salute mentale. Il sistema di asilo della Grecia, lento e complicato e condizionato dall’alto numero di richieste di protezione, conduce alla disperazione. Solo qualche giorno fa, dopo la visita del ministro per la migrazione Dimitris Vitsas, i media greci hanno raccontato che un rifugiato siriano si è dato fuoco perché la sua richiesta di asilo è stata respinta. E questi non sono eventi isolati.
L’insuccesso nel fermare il contrabbando di persone
Uno dei maggiori errori di coloro che hanno progettato l’accordo Ue-Turchia è stato credere che sarebbe servito a prendere di mira e sradicare il contrabbando di persone. È stato effettivamente limitato il traffico sulla rotta mediterranea orientale, ma il confine via terra fra Grecia e Turchia sul fiume Evros, un passaggio antico e molto pericoloso, è stato riaperto. Ci sono resoconti quotidiani di persone che cercano di attraversare via fiume, di persone trovate morte, di persone lasciate abbandonate in mezzo al nulla, e perfino serie accuse di respingimenti – un atto che la legge internazionale considera appunto illegale.
Allo stesso tempo, la rotta balcanica è ancora aperta e florida sotto gli occhi chiusi dell’Europa.
Mohammed (non è il suo vero nome), che abbiamo incontrato sul confine serbo-croato a novembre del 2017, ci ha detto, quasi scusandosi: “la mia storia non si può raccontare in due minuti. È la storia di uno che è stato migrante per due anni”*. Algerino, fuggito dalla sua città per sottrarsi a un’organizzazione terroristica che stava cercando di reclutarlo, non ha fatto che passare da un confine all’altro. Per lui, il momento di riuscire a lasciare la Grecia era una questione di fortuna e tempismo. Quando è arrivato a Lesbo, è rimasto in una foresta dietro l’hotspot di Moria; qualche giorno dopo si è nascosto in un camion che lo ha portato a Chios. Tre mesi dopo è riuscito a nascondersi in un altro camion e a raggiungere la terraferma. Ha tentato di partire dalla Grecia più di dieci volte su rotte diverse. Quando ci è riuscito, è rimasto bloccato sul confine serbo-croato.
La crisi di chi?
L’accordo Ue-Turchia è stato salutato come un successo per via dei suoi risultati statistici, ma il deterioramento delle condizioni di vita sulle isole greche si può descrivere un disastro umanitario che sta accadendo sulle coste d’Europa. L’insistenza europea nel voler fortificare i propri confini ha portato a un approccio securitario della narrazione sui migranti, che vede coloro che cercano rifugio come una minaccia. Eppure la maggior parte dei rifugiati che si trovano adesso in Grecia sono fuggiti da conflitti senza fine e da regimi oppressivi. Quando arrivano in Grecia, però, vengono spogliati della loro dignità, e affrontano l’incapacità dell’Europa di adottare politiche umanitarie sulle migrazioni.
“Deve esserci una risposta umanitaria alle necessità delle persone. Io credo che sia chiaro che l’accordo Ue-Turchia non solo è un fallimento, ma sta anche violando i diritti fondamentali delle persone. Le persone dovremmo potersi spostare sul continente; se hanno diritto a ricevere asilo, dovrebbero ottenerlo in Grecia o in un altro paese europeo”, ci dice Louise Roland Gosselin.
Quello che sta accadendo in Grecia dal 2015 è stato definito come una crisi dei rifugiati. Quello che porta a concludere la risposta dell’Unione europea, con l’accordo Ue-Turchia come modello di politica sulle migrazioni, è che si tratta di una crisi della solidarietà, che potrebbe portare ancora più sofferenze a coloro che non hanno altra scelta che fuggire.
(*questa citazione è stata in parte modificata perché fosse più chiara).
In copertina: rifugiati camminano accanto a una tenda allestita da Msf al campo provvisorio di Idomeni nel maggio 2016 (fotografia di Marianna Karakoulaki, come tutte le fotografie di questo articolo.