Più navi, più migranti, più morti?
Quando il 14 dicembre 2016 il Financial Times è uscito con un’esclusiva, citando un documento confidenziale di Frontex dove si accusavano le Ong di avere connessioni con i trafficanti di uomini, la stessa Agenzia europea ha smentito e ottenuto una rettifica. Il documento era uno dei report bisettimanali – pubblicato poi da Zach Campbell per The Intercept – che gli analisti di Frontex stilano per fare il punto della situazione. Dove si registra un fatto: i flussi sono aumentati, passando dai 154 mila del 2015 ai 172.229 al 4 dicembre 2016 (181 mila a fine anno). Alla stessa data, i morti erano passati da 3.186 a 4.527 nel solo Mediterraneo centrale (5096 a fine anno). Contemporaneamente, la presenza di navi umanitarie è cresciuta: sono 12 quelle operative, anche se, ha spiegato il contrammiraglio Nicola Carlone della Guardia Costiera, “non c’è mai stata la presenza in contemporanea di tutte le navi nell’area di ricerca e soccorso”.
È un fatto che le navi umanitarie (e militari) incrocino nella cosiddetta “zona contigua”, quello specchio di mare che sta tra le 12 e 24 miglia dalla costa. Quella sulla presunta correlazione fra presenza delle navi, aumento dei flussi e aumento delle vittime in mare “è un’accusa molto intelligente, perché mette in discussione lo scopo ultimo delle Ong: salvare più vite possibile”, spiega a Open Migration Eugenio Cusumano, assistant professor di Relazioni Internazionali all’Università di Leiden. Era stato per primo il Direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, a dichiarare che con la loro sola presenza le Ong costituiscono un “pull factor”, un fattore d’attrazione, che ha come conseguenza indesiderata l’aumento dei morti. “Sono aumentati”, dice il professor Cusumano, “ma ci sono altri aspetti da considerare: è aumentata anche la capacità di monitorare la situazione, di contare morti e dispersi, abbiamo più assetti navali di ricerca, chiediamo ai migranti chi manca all’appello, recuperiamo i gommoni e li utilizziamo per fare stime. Diversi ufficiali della Guardia Costiera dicono di usare cautela con questi dati, perché è il nostro metodo di raccolta che oggi potrebbe essere più accurato”. E aggiunge che anche “la polemica sull’aumento dei flussi è infondata: nel 2015 sono arrivate in Europa oltre un milione di persone, e con l’accordo Ue-Turchia del 18 marzo 2016 di fatto si è chiusa la rotta balcanica. In queste condizioni, l’incremento di 27 mila unità nel Mediterraneo centrale fra 2015 e 2016 è una cifra risibile”.
La stessa agenzia Frontex è più cauta del suo direttore: nel rapporto Risk Analysis 2017, Frontex usa l’espressione “pull factor” quattro volte in 60 pagine (di cui una volta non in relazione alle missioni in mare) e sempre affiancando anche i “push factor”, i fattori che invece spingono le persone a partire. Secondo gli analisti, il vero effetto indesiderato della presenza di tante imbarcazioni nella “zona contigua” è un altro: il cambiamento di tattica dei trafficanti, che ha reso più complessa la sorveglianza delle frontiere marittime e ostacolato le indagini nei confronti di reti criminali, facilitatori e scafisti.
Agli stessi dubbi ha risposto l’ammiraglio Enrico Credendino, che guida la missione europea Eunavfor Med – Operation Sophia (Enfm), varata due anni fa con lo scopo di contrastare i traffici non solo di esseri umani. Una missione che oggi si trova a cavallo fra la fase 2 “Alpha” (acque internazionali più addestramento Guardia Costiera libica) e la fase 2 “Bravo”, che prevede l’ingresso in acque libiche per svolgere operazioni di polizia, a patto di trovare un accordo in sede Onu e un interlocutore credibile a Tripoli. “Quanto al “pull factor””, ha dichiarato Credendino il 4 febbraio 2016 – quando l’accusa di Frontex non era rivolta alle Ong ma ai mezzi navali militari– “faccio presente che ogni giorno circa 20, 22 mercantili vanno e vengono dalla Libia, e decine circolano nell’area. Se non ci fossero le navi militari, i migranti verrebbero salvati da altre imbarcazioni, anche se noi abbiamo impedito la morte di altre 1.500 o 2.000 persone”. Quest’anno Credendino ha notato come dopo la fine di Mare Nostrum i flussi non siano affatto diminuiti, e ha aggiunto che “i migranti sono consapevoli dei rischi che corrono, come confermato all’Onu da cinque ambasciatori di paesi del Sahel. Sanno che il rischio di morire nel deserto o in mare è alto e che le donne vengono sistematicamente stuprate, ma preferiscono affrontare i pericoli piuttosto che rimanere nei paesi d’origine”.
Neppure l’accusa di complicare le indagini su scafisti e trafficanti sembra reggere. Credendino e Enfm hanno sempre sottolineato i loro successi nel reprimere e indagare il fenomeno del contrabbando di esseri umani: 414 imbarcazioni distrutte o sequestrate, 109 persone consegnate alla giustizia italiana e l’11,8 per cento dei salvataggi effettuati – che sono considerati pochi, ma il mandato principale di Enfm non è il soccorso in mare. Sono questi i dati al 6 aprile 2017, sempre citati dall’ammiraglio al Senato. Già dopo sei mesi di operazione, Enfm vantava, nel I° report semestrale, risultati d’intelligence nell’aver individuato il modello di business dei trafficanti, stimato fra i 250 e i 300 milioni all’anno (pari al 50 per cento dell’intera economia locale per alcune città della Tripolitania); nell’aver impedito il recupero delle imbarcazioni in legno (definite “preziose”) proprio grazie al progressivo avvicinamento alle acque libiche; e nell’aver mappato le rivalità fra gruppi di trafficanti, milizie nemiche e addirittura un caso di protesta, il 27 agosto 2015, da parte dei cittadini di Zuwarah contro i contrabbandieri di uomini – una reazione della società civile libica che ha costretto le organizzazioni criminali a spostare le proprie attività fuori dalla città.
Le dichiarazioni rese negli ultimi due anni restano valide anche oggi, nonostante i rapporti fra Enfm e Ong sembrino più freddi che in passato (era stata proprio la missione europea a organizzare i forum SHADEMED congiunti, come quello del 12-13 maggio 2016 con 175 rappresentanti di 74 organizzazioni diverse fra governi, Forze Armate e Ong), e nonostante i dispositivi dell’operazione Sophia abbiano arretrato le loro posizioni per non alimentare le polemiche di Varsavia. Il punto è semplice: ha ragione Frontex nel dire che stare vicini alla Libia crea problemi nelle gestione delle frontiere e complica le indagini, oppure hanno ragione Enfm e l’ammiraglio Enrico Credendino nel vantare i successi ottenuti? Le due tesi non possono essere vere entrambe.
Perché non li portiamo a Malta?
Malta è il fulcro di questa vicenda. Perché lì ha sede la Ong più contestata, Moas, perché ci troviamo nel semestre maltese di Presidenza della Ue, e perché dal porto internazionale di Malta transitano i gommoni di fabbricazione cinese utilizzati dai trafficanti in Libia (e su questo punto Aaron Farrugia, il Ceo del porto franco di Malta, il Malta Freeport Terminals, ha preferito non rispondere alle domande di Open Migration). A La Valletta da due anni si tengono vertici sul tema dei flussi, l’ultimo dei quali, a gennaio 2017, tra il Ministro degli Interni Carmelo Abela e il suo omologo italiano Marco Minniti. Infine, le recenti soffiate ai giornali hanno parlato della Ong Moas come di una copertura del governo Usa per svolgere attività di sorveglianza e intercettazioni.
In realtà, il Procuratore di Siracusa, Francesco Paolo Giordano, che ha competenza sul porto di Augusta, il più usato in Italia per lo sbarco di migranti soccorsi in mare, e il commissario Carlo Parini del gruppo interforze che dal 2006 si occupa di contrasto all’immigrazione illegale, hanno dichiarato a Palazzo Madama che “da un’analisi macroscopica sulle imbarcazioni Moas nei nostri porti non risulta la presenza di apparecchiature per lo spionaggio elettronico”.
Il Procuratore Capo di Catania, Carmelo Zuccaro, si è domandato più volte perché la piccolissima Malta non collabori facendosi lei carico dei flussi. Se la ritrosia de La Valletta è un fatto politico certo, nel resoconto sulle attività di soccorso del 2015 stilato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, si legge però: “Oltre alla propria area SAR (Search and Rescue, ricerca e soccorso, NdR), adottata con D.P.R. 662/94 in esecuzione della Convenzione di Amburgo del 1979, l’Italia opera di fatto in un’area di 630.000 km² di responsabilità degli Stati frontisti del nord Africa (Tunisia, Libia ed Egitto) e di Malta. Tale situazione è dovuta alla sostanziale inadeguatezza degli assetti di Guardia Costiera dei Paesi frontisti, ovvero, come nel caso di Malta, dell’eccessiva estensione dell’area SAR di competenza rispetto alle risorse disponibili”.
Si aggiunga che, delle quattro missioni presenti oggi nel Mediterraneo e cioè Triton-Frontex, Sophia, Mare Sicuro (più la Sea Guardian della Nato), la prima effettua salvataggi con una sola imbarcazione da diversi mesi, la norvegese Siem Pilot, mentre per Sophia, ha spiegato l’ammiraglio Credendino che “tutte le persone che prendiamo in alto mare (migranti e scafisti) le consegnamo all’Italia perché questa è la decisione presa dal Consiglio dell’Unione europea quando ha lanciato l’operazione”. Mare Sicuro è un’operazione della Difesa italiana a tutela degli interessi energetici nel Mediterraneo, quindi un loro ingresso in acque straniere senza autorizzazione si configurerebbe come un atto di guerra. Le Ong, invece, agiscono sotto l’egida del Maritime Rescue Coordination Centre di Roma (Mrcc), che stabilisce il porto di destinazione. Tra questi, su suggerimento di Frontex, la Commissione europea sta ipotizzando di inserire quello di Tunisi, nonostante la Tunisia non abbia alcuna legge sull’asilo, né un vero sistema di accoglienza. La stessa “legge del mare”, spesso citata quando si parla di soccorsi, e che distingue fra “porto vicino” e “porto sicuro”, non trova spazio dentro a un unico codice, ma deriva piuttosto dalla sovrapposizione delle Convenzioni Solas e Salvage di Londra (1974, 1989), la Sar di Amburgo (1979) e quella di Montego Bay (Giamaica, 1982), recepite dall’ordinamento italiano negli anni Ottanta e Novanta e che trovano forma compiuta nel Piano Sar Nazionale 1996 disponibile sul sito della Guardia Costiera.
Le accuse della Guardia Costiera libica
La Guardia Costiera di Tripoli si è unita al coro di accuse sostenendo che le Ong sarebbero la causa dell’aumento delle partenze. Si tratta della stessa Guardia Costiera a sua volta accusata di collusioni con i trafficanti di uomini, quella che il 17 agosto 2016 ha sparato 13 colpi contro lo scafo e il ponte della Bourbon Argos di Medici Senza Frontiere (Msf). La stessa che il 9 settembre ha prelevato due membri dell’equipaggio della Sea-Eye che erano entrati nelle acque territoriali libiche a bordo di un gommone, per trattenerli 48 ore in un centro di detenzione. La stessa, infine, che il 21 ottobre 2016 ha interferito con un’operazione Sar impedendo la distribuzione dei giubbotti salvagente, bastonando i migranti e facendoli rovesciare in acqua. L’incidente, denunciato dalla Sea-Watch, è stato inizialmente negato, ma è menzionato nel II° report semestrale di Enfm. E sono di nuovo militari libici quelli che si vedono in un video discutere con uomini dell’operazione Mare Sicuro per il diritto a riportarsi in Libia un gommone vuoto e il suo motore. Di fronte al diniego dei militari, propongono un baratto: “Voi il gommone, noi il motore”. Tripoli ha spesso sostenuto che in questi incidenti fossero coinvolte milizie non identificate che indossano uniformi della Guardia Costiera libica. Se questa versione fosse vera, non si capisce come milizie non meglio precisate possano essere in combutta con le Ong e allo stesso tempo sparare loro addosso.
Le Ong spariscono dai radar?
La polemica sui transponder è interessante: da una parte si accusano le navi umanitarie di “oscurare” la propria posizione alle autorità, mentre dall’altra Enfm riferisce a Bruxelles, il 30 novembre 2016, che “i trafficanti sembrano essere a conoscenza delle posizioni delle navi di soccorso proprio perché le Ong trasmettono la loro posizione attraverso l’Automatic Identification System (AIS)”, lo stesso che diversi siti web utilizzano per mappare rotte e posizioni. Se contrabbandieri e piccoli servizi online possono conoscere le coordinate delle navi umanitarie, allora possono farlo anche Frontex, le Procure italiane e i comandi militari europei.
Può fra l’altro accadere che i sistemi satellitari globali – come Iridium GPS – non funzionino. È buona norma, soprattutto per la sicurezza del proprio equipaggio, verificare la connettività e la risposta dei satelliti ogni 30 o 60 minuti (almeno alla notte) e inviare mail periodiche al Mrcc per comunicare coordinate, velocità di crociera, eventuali incidenti o guasti, e annotare queste informazioni sul libro di bordo. Accorgimenti che gli equipaggi delle Ong adottano di continuo, senza che esistano dei veri e propri protocolli operativi per gli operatori umanitari.
È curiosa anche la polemica, rilanciata dal procuratore di Catania, sull’utilizzo di luci e fari di notte per farsi notare dai migranti. Infatti, qualsiasi veicolo in mare tiene accese luci di posizione per rendersi visibile ed evitare collisioni. Inoltre, i gommoni cinesi senza chiglia sono di fatto ingovernabili già quando il mare è forza 2, e spesso gli scafisti a bordo sono migranti improvvisatisi timonieri, che non possono condurre il gommone dove vogliono.
Infine, le Ong vengono accusate di avere imbarcazioni registrate in paradisi fiscali o che battono bandiera di nazioni a scarsa trasparenza. Utilizzare espedienti legali per abbattere i costi è un’abitudine che riguarda tutte le marinerie mercantili e non del mondo. Nel caso delle Ong, poi, le navi vengono prese in affitto da armatori che le registrano dove conviene per ragioni fiscali, da cui le cosiddette “bandiere di comodo”. I bilanci delle Ong, però, non dipendono affatto dalle bandiere, ma dalla nazione in cui ha sede l’organizzazione. Nei casi più conosciuti, quindi, Olanda, Germania, Spagna, Francia e Malta.
Le Ong non sono la polizia
Carmelo Zuccaro ha chiesto il 3 maggio al Senato che “personale di polizia giudiziaria salga a bordo delle navi delle Ong”. Qui occorre chiarire: i principi umanitari impongono, in primis per ragioni di sicurezza, di non schierarsi con istituzioni politiche e militari durante una crisi per non attirare ripercussioni dalla parte avversa, in questo caso i trafficanti. Se Msf chiedesse ai militari della Nato di difendere un proprio ospedale in Afghanistan, lo trasformerebbe in un sito sensibile per gli attacchi talebani. Quel tratto di mare è pattugliato da Enfm proprio perché non è considerato sicuro per i normali corpi di polizia. La presenza di uomini in divisa a bordo di una nave civile darebbe adito a tentativi di sequestro o crisi diplomatiche.
Infine, le marinerie mercantili o civili che vedono messa a repentaglio la propria sicurezza non si rivolgono agli eserciti, ma alle Private Security and Military Services Companies (Pmsc, compagnie private di sicurezza marittima) formate da ex contractor con regole d’ingaggio e Ruf (Rule of Force) diverse rispetto a quelle dei militari: tenere lontana un’imbarcazione dei pirati è cosa differente da doverla ispezionare, dirottare o identificarne l’equipaggio.
E infine, salvare le persone è favoreggiamento dell’immigrazione clandestina?
Il 22 marzo 2017, davanti al Comitato Schengen di Montecitorio, il Procuratore Zuccaro si era chiesto riguardo alle Ong: “Queste organizzazioni, a prescindere dal fatto che probabilmente non inseguono profitti privati, si rendono comunque responsabili del reato di cui all’articolo 12 della Bossi-Fini o no? Appena si verificherà un caso aprirò un’indagine”. L’indagine non l’ha aperta Zuccaro, ma la Procura di Trapani, nei confronti di una Ong che si sarebbe mossa prima di ricevere un SOS. Un’indagine su un singolo episodio, nata da una rissa a bordo e che non riguarda l’esistenza di un’associazione criminale fra Ong e trafficanti. Un tema, questo, che se mai dovesse essere trattato dalla giustizia italiana sarebbe di competenza della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo.
Prima che la notizia dell’indagine trapelasse, Ambrogio Cartosio, Procuratore Aggiunto proprio a Trapani, aveva detto: “Le Ong hanno necessariamente un codice etico che prescinde dalla legislazione nazionale dei singoli stati. Hanno necessità di muoversi liberamente in acque internazionali e ci sono paesi in cui il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina è reato, come l’Italia, e altri in cui non lo è”. A prescindere dai codici etici individuali, è nello stesso Testo Unico sull’Immigrazione, all’articolo 12.2, che si trova la dicitura “non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria”, ma solo se “prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato”. Non ci sono riferimenti alle acque internazionali. Ne ha parlato invece il generale Stefano Screpanti della Guardia di Finanza, nel 2015, durante una tavola rotonda al Ministero della Difesa, specificando come la tutela delle vite umane in acque nazionali, internazionali o zone contigue sia prioritaria rispetto al contrasto dei traffici illeciti anche per un organo di polizia: “la stessa operazione di polizia, quando assume profili di pericolosità, diventa un’operazione di soccorso”, ha detto il generale. Significa che se l’equipaggio di un peschereccio con 30 tonnellate di hashish a bordo lo dà alle fiamme per nascondere il reato e si butta in mare, le Fiamme Gialle interrompono l’operazione di contrasto ai narcotrafficanti per trasformarla all’istante in una di ricerca e soccorso delle persone.
Immagine di copertina: Un gommone con un principio di sgonfiamento con a bordo 125 persone viene tratto in salvo dall’equipaggio della nave Aquarius. A bordo anche due donne incinte. (Foto: Federica Mameli/ SOS MEDITERRANEE/ Luz)