Casa Abramo, centro di accoglienza della cooperativa “L’Arcobaleno” di Lecco, sorge su un colle che domina la città e il lago. Una vecchia struttura in pietra immersa nel verde che per Issa, Anwar, Biko, Lisimba e Chika è diventato l’avamposto di resistenza alle prescrizioni del decreto Salvini. Per oltre un anno questo luogo è stato per loro un luogo di formazione e crescita, e affinché continui ad esserlo la Caritas Ambrosiana — da cui dipende la cooperativa — ha deciso che continuerà a farsi carico delle spese per l’accoglienza di quei migranti, ospiti delle sue strutture, che ai sensi del decreto sicurezza non hanno più diritto ai servizi previsti dai progetti.
È il caso di questi cinque ragazzi — due maliani, un ghanese e due nigeriani — che in quanto titolari di permessi di soggiorno per motivi umanitari rappresentano una delle categorie di persone più colpite dalla legge che ha abrogato questa fattispecie di permesso.
“Il punto è che a queste persone, pur non avendo il formale riconoscimento giuridico della protezione internazionale — spiega Roberto Castagna, coordinatore dei progetti di accoglienza della cooperativa L’Arcobaleno — è stato riconosciuto un permesso perché ne hanno diritto, un tribunale o una commissione territoriale hanno stabilito che non potevano essere rimpatriate per gravi motivi umanitari, e poi da un giorno all’altro gli viene detto che non possono più stare nei Cas, né negli Sprar, né possono essere assegnati ai Comuni perché non hanno più spazio e risorse, in pratica sono abbandonati in strada“.
Includendo anche quelli che riceveranno i nuovi permessi di protezione speciale, che comunque non dà diritto ai servizi del sistema di accoglienza, la Caritas Ambrosiana ha stimato che dei 4.514 ospiti delle sue strutture in Lombardia saranno almeno 500 quelli mantenuti a proprie spese nei centri, e che secondo la legge 132/18 sarebbero invece dovuti uscire dal sistema di protezione.
Si tratta forse di una stima per eccesso, ma che comunque traccia le linee di un nuovo scenario, aprendo a nuovi preoccupanti interrogativi sugli effetti del decreto sicurezza.
Nel report “I sommersi e i salvati della protezione umanitaria“, Oxfam Italia ha stimato che nei prossimi due anni circa 120 mila persone finiranno nell’irregolarità, e in proporzione i numeri più alti sono proprio quelli dei permessi per motivi umanitari non rinnovati (32.750), non rilasciati (27.300), e le pratiche arretrate che le Commissioni Territoriali dovranno esaminare secondo le nuove disposizioni di legge (70 mila).
“Anche se non gli è stato assegnato lo status di rifugiato — sottolinea Roberto Castagna — chi ha avuto la protezione per motivi umanitari nasconde sempre un trascorso complesso e doloroso, si va da donne sole con bambini o uomini con fragilità di vario tipo, comprese quelle psichiche“.
È il caso di Chika, nigeriana 34enne, una dei cinque “graziati” dalla decisione di Caritas Ambrosiana. Gli è stato diagnosticato un “disturbo post traumatico da stress”, una definizione generica e a volte utilizzata per le persone vittime di tortura o di traumi di guerra, anche quando si tratta di patologie complesse e poco conosciute, e per affrontare le quali psicologi e psichiatri italiani non sempre hanno la preparazione adatta.
“Una donna come Chika sarebbe finita in strada, senza nessuno da chiamare e senza un posto dove andare — racconta Roberto Castagna — e come lei ce ne sono tanti che nella migliore delle ipotesi sono finiti a Rosarno o nelle campagne foggiane, e nella peggiore nelle braccia della criminalità, perché quando hai fame anche la tua morale finisce per scricchiolare”.
Anche Issa, 21 anni, e Lisimba, di 23, sarebbero usciti dal sistema di protezione. Uno ha lasciato il Mali a causa della desertificazione di terre che ha condannato a morte centinaia di famiglie di agricoltori, l’altro è stato torturato in Ghana, insieme allo zio, ha le mani visibilmente bruciate e ha perso l’uso di alcune dita. Il “regalo” per loro è arrivato proprio due giorni dopo Natale, quando la Prefettura di Lecco gli ha comunicato la cessazione delle misure di accoglienza, in quanto titolari di permesso per motivi umanitari. Il documento inviato alla cooperativa riportava il taglio dei contributi previsti e chiedeva di allontanare i migranti usciti dal sistema di protezione, suggerendo di rivolgersi ai servizi sociali del Comune.
Anche a Lecco, come altrove, un copione già visto: la prefettura manda le persone ai Comuni, e questi le rifiutano per mancanza di posti e di risorse.
“Così lo Stato traccia una riga, mandando al macero tutto il lavoro fatto fin qui e lascia fuori quasi tutti, magari sperano che il problema si risolva da solo — spiega Roberto Castagna — ma il punto è che è pericoloso far coincidere il percorso di integrazione di una persona con la dimensione burocratico-amministrativa, perché la storia individuale delle persone ha tempi diversi e non può essere legata a un contratto con la prefettura“.
“Per queste persone un percorso di accompagnamento è fondamentale per l’impostazione della loro vita in Italia e in Europa — chiarisce Daniela Messina, responsabile CAS della Cooperativa L’Arcobaleno — serve a conoscere il territorio, la nostra lingua e cultura e il funzionamento delle Istituzioni, è un passaggio necessario per conquistare la piena autonomia e costruirsi una vita indipendente”.
Insomma ogni percorso di integrazione è unico, serve ad accompagnare i migranti dalla fase della debolezza, dovuta agli effetti dei traumi subiti, fino a quella della riconquista del mestiere che sapevano fare, o alla consapevolezza di avere gli strumenti per impararne uno nuovo. Per questo non dovrebbe mai essere interrotto.
Il paradosso delle persone come i cinque ragazzi di Lecco è che sono immigrati regolari, a tutti gli effetti, fino alla scadenza del permesso — come conferma l’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) — però non hanno a diritto ad alcuna tutela.
Sono titolari di un permesso di soggiorno per motivi umanitari ma non hanno mezzi, né risorse, né un posto dove andare.
Chi ha un permesso per motivi umanitari può convertirlo solo in un permesso di lavoro, se trova lavoro, o quando scade potrà sottoporre a valutazione un eventuale rinnovo ed eventualmente ottenere uno dei nuovi permessi speciali: “protezione speciale” (durata di un anno), “per calamità naturale nel Paese di origine” (sei mesi), “per gravi condizioni di salute” (un anno), “per atti di particolare valore civile” (un anno). Tutti questi permessi, di fatto, sostituiscono quelli per motivi umanitari, la cui durata massima era di due.
Tuttavia trovare un lavoro non risolve il problema, perché se è di breve durata — circostanza assai probabile per un giovane immigrato — è difficile ottenere la conversione, mentre nel caso in cui il lavoro sia a tempo indeterminato, il permesso dura massimo due anni.
Inoltre per la conversione occorre avere il passaporto, che non è un tema banale perché la maggior parte dei profughi arriva privo di documenti e non è facilmente identificabile, e la richiesta del passaporto risulta un’operazione difficile anche per le ambasciate di riferimento.
In futuro, la continuità di un progetto di vita in Italia per chi ha avuto un permesso speciale è comunque compromessa, perché la nuova normativa non prevede la conversione in permesso di lavoro e in ogni caso “è improntata a ridurre, a ostacolare, a scoraggiare la permanenza —spiega Gianfranco Schiavone, avvocato dell’Asgi — anche se al momento non abbiamo ancora avuto casi di richiesta di nuovi permessi per farci un’idea“.
L’esperienza degli operatori della cooperativa L’Arcobaleno di Lecco li ha portati a convincersi che nessuna legge restrittiva potrà correggere un sistema di accoglienza basato sul numero e sulla prestazione, e non sull’individualità delle persone: “l’approccio è quello del quanti yogurt e quante ciabatte ti porto, da caserma, e non di come si può migliorare in prospettiva la vita di queste persone e magari anche del Paese che li ospita“, precisa Roberto Castagna, “serve un progetto che vada oltre il ti pago o non ti pago, a meno che, quando mi dici che qualcuno non ha diritto, entro 24 ore lo prendi, lo metti su un aereo e lo riporti al suo Paese”.
La mancanza di visione, ma anche il nuovo clima politico sono evidenti anche dall’atteggiamento delle prefetture, che in tutti questi anni non sempre è stato lineare. Nel periodo più complicato dell’emergenza sbarchi, quando il flusso era continuo e numeroso, tra il 2014 e il 2015, le prefetture erano disposte a tutto pur di trovare aiuto e collaboratori nella gestione dei flussi.
“Si appellavano alla nostra umanità e Papa Francesco era più citato dal Prefetto che dall’Arcivescovo — racconta Roberto Castagna — ci pregavano di trovare un posto, di aprire chiese ed oratori, ed erano così in difficoltà che per recuperare posti letto hanno chiuso accordi con chiunque, comprese persone poco raccomandabili“.
Prima di lasciare Casa Abramo, un ragazzo del progetto Sprar esce per buttare l’immondizia e un’educatrice gli chiede di firmare l’uscita. Secondo la nuova normativa devono farlo ogni volta che escono ed entrano, anche per andare in giardino. “A volte mi sembra di essere in carcere“, commenta lui; “Beh, più o meno…“, risponde ironica lei.
“Oggi è cambiato tutto — conclude Roberto Castagna — oggi non siamo più quelli del buon cuore a cui chiedere aiuto ma tendenzialmente dei delinquenti, perché l’accoglienza è un lavoro sporco così come salvare vite in mare; oggi chi lavora con gli immigrati è per definizione uno che ci mangia su, e quindi è chiaro che, sottoposto a controllo continuo, il sistema di accoglienza finisce per assomigliare a un sistema di polizia“.
Immagine di copertina: La comunità “Casa Abramo”, inaugurata nel 1996 in una struttura gestita dalla Caritas Ambrosiana, accoglie adulti in situazione di marginalità e disagio per sviluppare percorsi individuali di recupero e risocializzazione (foto di Marco Todarello, come tutte quelle presenti nell’articolo)