Subotica, Serbia, al di qua del muro di Orban
Siamo a Subotica, nel nord della Serbia, cittadina a poche decine di chilometri dalla frontiera con l’Ungheria, con i cartelli stradali scritti in doppia lingua e i palazzi dell’era sovietica che si alternano a quelli in stile austroungarico. Intorno, la Pianura Pannonica è una landa sterminata di terra e arbusti secchi. Poco più a nord c’è la frontiera che sta segnando un solco nero nella storia dell’Europa: il muro di Orbán, una doppia cortina di 4 metri di rete metallica con lame di rasoio e filo spinato, lunga centinaia di chilometri e protetta da 50 mila agenti con cani, rivelatori termici e droni. Costruito nel 2015 e subito esteso a tutta la frontiera con la Croazia, è stato il primo muro “anti-migranti” edificato fra due paesi già appartenenti all’Unione Europea. Il primo di una serie ormai lunga.
Da allora, i tanti migranti che percorrevano la “rotta balcanica” sono rimasti bloccati in Serbia. Lo scorso inverno, dopo numerose morti per ipotermia a causa delle temperature che di notte scendevano sotto i meno 20 gradi, le immagini dei rifugiati tremanti e malvestiti nella neve fitta hanno fatto il giro del mondo. Poco dopo i riflettori si sono spenti, ma secondo l’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati in Serbia (Unhcr), al 28 maggio il loro numero era ancora fermo a poco meno di 7 mila, e non tutti trovano rifugio nei campi organizzatil’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr).
Cosa fanno i volontari che aiutano i migranti
Federica Maiucci, una ragazza romana di 26 anni partita per il servizio civile internazionale che da tre mesi fa volontariato con la piccola Ong Fresh Response, racconta che questa associazione è nata nell’estate 2016 “dall’idea di un gruppo di giovani volontari internazionali che si trovavano sul posto, inorriditi dalle condizioni disumane in cui erano stati abbandonati i rifugiati”. Completamente auto-organizzata, Fresh Response “si finanzia con donazioni raccolte dal crowdfunding su internet”.
“Provvediamo ai bisogni essenziali delle centinaia di migranti che vivono o transitano nei dintorni di Subotica, esclusi dall’unico campo ufficiale dell’area, strapieno, che ospita perlopiù famiglie siriane con figli”, mi spiega Federica. “Tutti gli altri dormono dove possono, senza i minimi servizi o l’acqua corrente”. Gli accampamenti spontanei si trovano in tre punti: la “train station”, uno stabile abbandonato della ferrovia di stato; la “brick factory”, una fabbrica di mattoni dismessa e fatiscente, che di giorno viene progressivamente demolita da un gruppo d’operai; e la “jungle”, una vasta area boschiva dietro ai binari del treno. Ci vivono in maggioranza giovani fra i 16 e i 30 anni, provenienti soprattutto dall’Afghanistan e dal Pakistan, ma anche dalla Siria, dall’Iraq e da paesi del Nordafrica. Aspettano l’occasione migliore e, ripetutamente, tentano di oltrepassare l’ultima frontiera, la più crudele, che li separa dal sogno europeo. “La settimana scorsa circa 150 persone sono riuscite a passare, protette dalla nebbia, così fitta che si tagliava col coltello”, mi racconta Federica, “ma ne è arrivato subito un altro centinaio da Belgrado”.
L’attività di Fresh Response, nonostante l’enorme mole di lavoro, sembra molto efficace. In un grande magazzino nel centro della città vengono stipati beni essenziali come vestiti, sacchi a pelo, tende, coperte o pentole. In un magazzino poco lontano, invece, si conservano le riserve di cibo e acqua. La mattina vengono spartiti i compiti: un gruppo resta al magazzino a preparare le buste da distribuire; altri gruppi, servendosi dei due furgoni a disposizione, vanno a visitare gli accampamenti, tenda per tenda, per monitorare la situazione e ascoltare le esigenze dei migranti, compilando liste precise dei beni di cui hanno bisogno, che poi consegneranno nel pomeriggio.
A pranzo ci si riunisce per la distribuzione del cibo, che avviene in un punto fisso vicino ai binari del treno. “Non vogliamo servire piatti pronti ai rifugiati”, precisa Federica, “preferiamo distribuire gli ingredienti e lasciarli liberi di cucinare quello che vogliono, anche perché così occupano un po’ il tempo e cucinare rimane un rituale condiviso”. Verso l’una i migranti si avvicinano al punto stabilito, cominciano a formare capannelli qua e là intorno ai binari. Più volte si sentono fischi, ad annunciare il treno che, poco dopo e a qualche metro di distanza, taglia con la sua corsa quella situazione d’attesa. Non appena si intravede il furgone bianco di Fresh Response in lontananza, con un rapido movimento di folla i profughi formano una lunga fila parallela ai binari. Il rituale appare ben collaudato: si fa a gara per i posti davanti, c’è chi cerca di infilarsi di nuovo nella coda per prendere una doppia razione, vola qualche spintone, ma a parte questo il clima è decisamente scherzoso, cameratesco, come non ti aspetteresti in questo girone infernale. Diversi ragazzi cercano di intercettare i primi volontari giunti sul posto, che ormai chiamano per nome, per fare quattro chiacchiere o chiedere piccoli favori.
Fra loro c’è Shahid, che ha 22 anni e viene dal Pakistan, da dove è partito più di sei mesi fa, pagando 6 mila euro a un trafficante per un viaggio terribile. “Quando siamo partiti eravamo più di 80, abbiamo camminato per due giorni fino alla frontiera con l’Iran, e lì la polizia ha sparato. Hanno il permesso di spararti a vista”. Sospira, prima di continuare il suo racconto: “con quelli che ce l’hanno fatta abbiamo raggiunto la frontiera turca e lì ci siamo trovati davanti un fiume. L’acqua era altissima e io non so nuotare, non volevo entrare ma il trafficante mi ha spinto dentro. Ero terrorizzato, con l’acqua alla gola, ma il mio amico mi ripeteva che ce l’avevamo fatta, che la Turchia era ormai vicina”. E da lì, camminando tutte le notti, Shahid ha raggiunto la Bulgaria e infine la Serbia, dove il viaggio si è bloccato in un inverno infinito. “Sono stato prima al campo di Obrenovac, in periferia di Belgrado, e lì mi sono ammalato per il freddo”. È stato ricoverato per due settimane in ospedale per gravi problemi respiratori: “appena uscito sono venuto qui a nord. Sono sfinito, ma voglio raggiungere mio fratello in Austria”.
“Un rito brutale”
L’indomani mattina seguo i volontari che perlustrano la “jungle”. Dietro ogni albero si nascondono gruppi di due o tre tende, dove convivono una decina di migranti. La prima che raggiungiamo è la tenda di Ahmed, un ragazzo pakistano di 23 anni che vorrebbe raggiungere al più presto la sua famiglia a Francoforte. “La sola speranza è di riuscire a tagliare la rete senza essere visti, correre come pazzi fino alla macchina del trafficante e sperare che non ti fermi nessuno fino in Austria. La polizia ungherese è un bel problema…” Ahmed la conosce bene, ha già provato tre volte a passare la frontiera. “Ogni volta ti distruggono il cellulare e ti rubano i soldi. Se ti prendono ti sguinzagliano i cani addosso e ti picchiano con gli stivali; sono ubriachi e si divertono a sputare il vino in faccia alla gente. Ti tolgono i vestiti e le scarpe, prendono l’acqua dagli zaini e te la svuotano addosso!”. Tutti i resoconti di chi ha avuto a che fare con la polizia ungherese restituiscono dettagli d’una brutalità sconcertante, un sadismo che viene sfogato su dei corpi già esausti, che ne conservano le tracce: ematomi, morsi e ferite si aggiungono così alla malnutrizione, alla scabbia e alla fatica.
“È come se fosse un ‘pacchetto’ di violenze standard, un rito brutale al confine europeo progettato per far sì che le persone non tentino di varcare nuovamente il confine”, ha recentemente dichiarato Christopher Stokes, direttore generale di Medici Senza Frontiere. “È davvero scandaloso che questo stia accadendo e che i leader europei facciano finta di non vedere. A un anno dalla chiusura ufficiale della rotta balcanica, i leader europei dovrebbero discutere se è questa la brutalità con cui progettano di difendere i propri confini”.
In questo limbo maledetto, dove i canali umanitari ufficiali non riescono o non vogliono arrivare, l’unica speranza di sopravvivenza è offerta dallo sforzo estenuante delle piccole organizzazioni come Fresh Response. Presto ci si rende conto che, oltre al sostegno materiale indispensabile, che ha permesso di salvare molte vite umane, l’impegno dei volontari va ben oltre. Osservando il modo genuino e diretto con cui si relazionano con i migranti, si capisce che puntano a ricucire dei sinceri legami di solidarietà in una situazione generata dal suo opposto: l’emarginazione più brutale.
Molti giovani si sono susseguiti qui, provenienti da tutte le parti d’Europa e anche dagli Stati Uniti. C’è chi è rimasto solo qualche settimana e chi ci sta da più di un anno; al mio arrivo sono una quindicina, fra i 20 e i 30 anni. Un caleidoscopio di storie di forte impegno sociale, traiettorie nomadi che sfidano l’Europa dei muri, del razzismo. Come quella di Annika, trentenne di Birmingham, che ha abbandonato un’importante carriera da consulente aziendale per partire volontaria, prima in Grecia e poi in Serbia. Figlia di immigrati pakistani, parla l’urdu e un po’ di arabo, ed è l’interprete di riferimento per i migranti che non parlano inglese. O la storia di Rachel, ventenne di Glasgow, che dall’anno scorso viaggia in Europa con un furgone adibito a camper. “Ero venuta a Subotica solo per lasciare delle donazioni di vestiti”, mi racconta, “ma ho deciso subito di restare. È incredibile il lavoro che si fa qui, a stretto contatto con le persone. I media parlano dei migranti come se fossero dei numeri, la parola ‘rifugiato’ ha sostituito ‘straniero’ come nuova anti-identità. Qui invece puoi ascoltare le loro singole storie e ti rendi veramente conto dell’orrore che subiscono, della follia della situazione”.
Una follia che sembra non avere limiti, come dimostra il provvedimento varato a larga maggioranza dal parlamento ungherese a inizio marzo, che prevede la detenzione obbligatoria per tutti i richiedenti asilo, anche minorenni, presenti sul territorio. “Siamo sotto assedio”, “l’emigrazione è il cavallo di troia del terrorismo”, ha dichiarato Orbán, sostenendo che le nuove misure servono a tutta l’Unione, perché “renderanno impossibile l’ingresso illegale in Europa degli immigrati”. Poche e timide sono state infatti le reazioni delle istituzioni europee di fronte all’ennesima grave deroga al diritto internazionale, che viola i principi stessi dell’Unione. I migranti di qualsiasi età e provenienza saranno privati della libertà di movimento e detenuti in appositi container situati sul confine, che potranno ospitare ognuno fra le 200 e 300 persone per un tempo imprecisato, fino al termine della procedura della domanda d’asilo.
A cena da Ahmed
In serata ritrovo Shahid vicino alla “brick factory”, seduto con altri ragazzi intorno al fuoco. Hanno un’aria triste. “Due nostri amici ci hanno appena scritto che sono stati portati in prigione in Ungheria e che ci resteranno per almeno sei mesi. Dicono che gli danno pochissimo da mangiare”. Le nuove misure si aggiungono al contesto di violenze della polizia e violazioni dei diritti umani, di fatto legittimandole, come temono i rapporti dell’Unhcr sull’Ungheria.
E al di qua del muro le cose non vanno meglio. “Dicono che noi siriani abbiamo diritto di passare, ma non è vero, io sono anche minorenne, ho 16 anni, ma non rispettano i miei diritti”. Bakr è appena arrivato a Subotica, parla un ottimo inglese, lo incontro il secondo giorno alla distribuzione del cibo. È partito quasi un anno fa da Hama, nella Siria centrale, uno dei focolai della rivolta anti-Assad e teatro di molteplici massacri. “Per andare al liceo dovevo stare attento a quale percorso prendere per non avere problemi con i militari di Assad. Se ti prendono, ti portano al nord, ti danno le armi e ti obbligano a combattere con loro, e non torni più a casa”. In Serbia la polizia l’ha separato dal fratello con cui era partito. Non è stato accolto nel campo ufficiale nonostante sia minorenne, come molti altri ragazzi accampati nei dintorni di Subotica.
L’ultima sera ceniamo alla tenda di Ahmed, nella jungle, con Federica e altri volontari. A cucinare è Chacha (“zio” in urdu), il più anziano del gruppo, che non avrà più di 45 anni. Mentre beviamo il chai parlando del più e del meno, veniamo a sapere che la polizia serba ha bruciato coperte e tende alla “train station” durante una retata. “Già altre volte hanno fatto incursioni di questo tipo”, mi spiega Annika; “si giustificano dicendo che lo fanno per mandare i migranti nei campi ufficiali, ma mentono, sanno che i campi sono strapieni”. A ogni retata lasciano terra bruciata, arrestano chi possono, li deportano verso sud e il girone ricomincia, in una spirale infinita. Ci alziamo in fretta e ringraziamo per la cena squisita, bisogna andare a controllare la situazione. Ahmed ci segue lungo il sentiero che taglia la “jungle” e conduce ai binari del treno, sotto un cielo limpido, stellato, mi dice che la moglie di suo fratello, in Germania, aspetta un bambino. “Mio fratello mi ha detto che sta aspettando il mio arrivo per venire al mondo. Chissà se troverà un mondo migliore”.
Foto di copertina: migranti in fila per la distribuzione del cibo a Subotica. Tutte le foto nell’articolo sono di Marco Marchese.