Che il sistema Dublino debba essere modificato è noto: la sua regola cardine, che attribuisce l’esame delle domande di asilo e l’accoglienza del richiedente allo Stato di primo ingresso nella Ue, determina un carico di lavoro eccessivo per i Paesi di confine. Le proposte di modifica attualmente formulate sono due:
a) quella della Commissione Ue (maggio 2016), che conferma la competenza dello Stato di primo ingresso nella Ue. Secondo questa proposta, solo se la pressione sul paese raggiunge una soglia insostenibile (il 150 per cento di una quota stabilita in base a Pil e popolazione, vale a dire una volta e mezzo la capacità teorica di accoglienza di quello stato), scatta un meccanismo “di emergenza” per la ripartizione degli altri richiedenti;
b) la proposta della Libe, la commissione del Parlamento europeo competente su Libertà civili, Giustizia e Affari interni. Questo testo, approvato dal Parlamento a novembre 2017, abbandona il criterio dello Stato di primo ingresso e suddivide i richiedenti asilo fra tutti i paesi membri in base a un sistema permanente di quote. Il Parlamento quindi applica l’art. 80 del Trattato sul Funzionamento della Ue, che in materia di migrazione impone il “principio di solidarietà ed equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri”, anche (e non solo) sul piano finanziario.
Come funziona
Lo Stato di primo ingresso registra il migrante al suo arrivo nella Ue e valuta sommariamente l’ammissibilità della sua richiesta di protezione internazionale. In caso di esito favorevole, si aprono due opzioni.
- Se il richiedente asilo ha un legame rilevante con uno stato, vi è trasferito. Questo paese esamina la sua domanda di asilo.
La proposta del Parlamento ha ampliato il concetto di legame familiare per comprendere tutti i figli minori, anche se sposati, i fratelli e i figli maggiorenni ancora a carico. Altri legami rilevanti introdotti dal Parlamento sono l’aver già soggiornato legalmente in uno Stato membro o l’avervi conseguito un diploma accademico o professionale. Per favorire la conservazione di legami nati durante il viaggio e facilitare l’integrazione negli stati di accoglienza, è previsto che fino a 30 persone possano chiedere di essere registrate come un gruppo, i cui membri viaggeranno insieme. Il gruppo però non potrà scegliere in quale stato stabilirsi.
I minori non accompagnati, invece, devono essere trasferiti nello stato in cui risiede un parente che possa occuparsene. È comunque richiesta, prima del trasferimento, una valutazione del loro migliore interesse.
- Se il richiedente asilo non ha un legame rilevante con un paese, può scegliere la sua destinazione da una lista di quattro stati.
Per ogni paese Ue si calcola una quota di rifugiati da accogliere in base a Pil e popolazione. La lista comprende quindi i quattro paesi con il numero più basso di richiedenti rispetto alla propria quota. Se il richiedente non effettua una scelta, è assegnato allo stato con il più basso tasso di candidati. Lo stato così individuato esamina la domanda d’asilo. Infine, se il richiedente asilo dimostra di avere altri legami (culturali, familiari in senso ampio o linguistici) con uno stato, può chiedere di esservi trasferito.
In sintesi: a esaminare la domanda di asilo non è più lo Stato di primo ingresso, ma quello cui il richiedente asilo è assegnato in forza di un legame rilevante o del meccanismo della lista. I costi di trasferimento del migrante sono a carico del bilancio Ue.
Cosa fa lo Stato di primo ingresso
Lo Stato di primo ingresso rileva le impronte digitali del migrante e controlla che non sia già “conosciuto” dalla Ue (ad esempio perché è una persona già identificata che si è sottratta ai controlli o una minaccia per la sicurezza). Se queste situazioni non si verificano, si procede a trasferire il migrante. C’è un limite: se ci sono scarsissime possibilità che la domanda di protezione internazionale venga accolta, il migrante rimane nello Stato di primo ingresso, che decide dell’asilo.
Nella proposta della Commissione, invece, lo Stato di primo ingresso deve verificare che i migranti non provengano da Paesi di primo asilo o da Paesi di origine sicuri ed esaminare le domande di tutti i richiedenti provenienti da Paesi di origine sicuri (nonché di chi rappresenta una minaccia per la sicurezza o l’ordine pubblico).
Cosa vorrebbe dire? “Queste definizioni di “Paese di origine sicuro, Paese terzo sicuro” sono meccanismi deflattivi, che autorizzano una valutazione sommaria”, spiega il professor Giuseppe Morgese, ricercatore in Diritto dell’Unione europea presso l’Università di Bari. “Se dico che la Turchia è un Paese sicuro, come l’Unione europea ha provato a fare, posso rimandare indietro tutti i richiedenti asilo provenienti dalla Turchia senza esaminare la domanda nel merito”. In altre parole, si tratta di forme di semplificazione che potrebbero dar luogo a discriminazioni basate sulla nazionalità del richiedente.
Il Parlamento ha eliminato questi controlli, sostituendoli con quelli sull’ammissibilità della domanda.
Fuori dalle regole
Il sistema mira a ripartire tra tutti gli stati la responsabilità dell’accoglienza; poiché pone le spese per trasferimento e accoglienza a carico del bilancio Ue, priva i paesi dell’argomento economico (obiezioni come “i conti non tornano, gli immigrati ci costano troppo, le domande di asilo paralizzano il sistema giudiziario”). Può accadere però che uno stato rifiuti il sistema delle quote: basti pensare alle dichiarazioni in proposito del cancelliere austriaco o all’opposizione del gruppo di Visegrad. Tanto il testo della Commissione quanto quello della Libe prevedono dei meccanismi sanzionatori-dissuasori.
- per la Commissione, lo stato deve versare 250 mila euro per ogni richiedente non ricollocato nel suo territorio
- per il Parlamento, invece, lo stato disobbediente perde una parte dei fondi Ue
La regola posta dalla Commissione si presta ad abusi: secondo il prof. Morgese, lo stato disobbediente potrebbe scegliere chi accogliere e chi non (pagando 250 mila euro) in base a considerazioni etniche, religiose, linguistiche. La proposta del Parlamento, invece, “è un buon incentivo a rispettare il sistema, perché alcuni paesi fondano una parte del proprio sviluppo economico sui fondi Ue. Da un punto di vista simbolico, poi, il messaggio è chiaro: se uno stato invoca la solidarietà finanziaria di altri paesi, non può rifiutare la solidarietà per la questione dei migranti”.
Cosa succede, invece, se il migrante si sottrae alle regole? Se cerca di evitare l’identificazione, oppure mente riguardo all’esistenza di legami familiari? In questi casi, il richiedente asilo non potrà più scegliere lo stato di destinazione e verrà assegnato automaticamente al paese che è più lontano dall’aver raggiunto la propria quota. La logica (premiare chi rispetta le regole, sanzionare gli altri) è la stessa dell’accordo Ue-Turchia, ricorda il professor Morgese: “questo stesso accordo non si sarebbe potuto fare con la Libia, vista la situazione politica nel paese. Allora si è trovato un compromesso: il migrante può scegliere la sua meta tra quattro stati. Se viola le regole, viene mandato in un paese che non sceglie, ma non è bollato subito come inammissibile. È un buon incentivo a rispettare il sistema”.
Altre novità
Nel testo della Libe si stabilisce che gli Stati membri non possono trattenere una persona solo perché è un richiedente asilo, e che i minori non devono essere detenuti. Il trattenimento si applica come extrema ratio nei casi di “comprovati” rischi di fuga, “sulla base di una valutazione individuale”. Infine, il trattenimento dev’essere deciso e motivato dall’autorità giudiziaria e “le condizioni di detenzione” devono rispettare “pienamente i diritti fondamentali della persona”. Qui è evidente il contrasto con la politica di alcuni stati (Polonia, Serbia, Ungheria) volta a militarizzare i confini e a imprigionare i migranti, violando sistematicamente i loro diritti.
Un’altra novità è la sponsorizzazione privata: organizzazioni accreditate dagli Stati membri possono farsi carico del trasferimento di un richiedente e della sua permanenza in uno stato, fino alla decisione sulla sua domanda di protezione internazionale. Si tratta, probabilmente, di un meccanismo simile a quello dei corridoi umanitari, solo che non si basa su un accordo di volta in volta negoziato tra una ong e uno stato, ma trova fondamento nel nuovo Regolamento di Dublino.
Luci e ombre
Il testo del Parlamento rappresenta un rovesciamento di prospettiva, sia rispetto a Dublino III sia rispetto alla proposta di modifica della Commissione. Infatti il migrante può avvicinarsi alla sua meta (se esistono legami forti) evitando i movimenti secondari e le loro drammatiche conseguenze. Allo stesso tempo, questo meccanismo non è in grado di costituire un “pull-factor”: infatti i quattro stati della lista cambiano in continuazione, visto che più accolgono (più si avvicinano alla loro quota), meno compariranno nel listino.
Un punto molto controverso riguarda invece quel filtro di ammissibilità che lascia allo Stato di primo ingresso la competenza per i migranti con scarse possibilità di avere un permesso di soggiorno come rifugiati. Su questo punto si è diviso lo stesso voto in Parlamento: l’eurodeputata Laura Ferrara (M5S) ritiene che rimarrebbero a carico dell’Italia “tutti i migranti economici”. In realtà la distinzione tra aventi diritto alla protezione internazionale e migranti economici avviene al termine della procedura, quando cioè il richiedente asilo è già stato trasferito in un altro stato. Secondo il prof. Morgese, la proposta della Libe va a favore dell’Italia: “oggi l’Italia è comunque responsabile delle domande d’asilo e dell’accoglienza, quindi ha tutto l’interesse a dichiarare le domande infondate in base a un approccio sommario”. Se passasse il sistema delle quote, invece, la prima sommaria valutazione di ammissibilità “verrebbe fatta in un’ottica diversa, più serena”. In altre parole, è probabile che le domande con “scarsissime possibilità di essere accolte” (quelle che le Commissioni giudicano manifestamente infondate) diminuiranno, e che di norma il migrante sarà ricollocato.
Il professor Morgese commenta un altro punto della riforma, cioè la lista di quattro paesi sottoposta al richiedente che non abbia legami con uno stato. “C’è il rischio che le opzioni siano quattro stati come la Polonia, etnicamente molto omogenei e poco ospitali”. Il sistema infatti crea un “listino di paesi, simile alla Borsa”, per cui più un paese si avvicina alla sua capacità di accoglienza, meno quel paese comparirà nella lista. “Inevitabilmente i paesi più etnicamente omogenei saranno quelli più lontani dalla quota e compariranno più spesso nella lista”. Proprio l’argomento dell’omogeneità etnica, ricorda fra l’altro Murgese, è stato usato dalla Polonia per opporsi alle ricollocazioni davanti alla Corte di Giustizia Ue.
Prospettive per il futuro
La proposta illustrata sarà oggetto di negoziati tra il Parlamento e il Consiglio della Ue, istituzione che, rappresentando gli stati e non l’Unione, è espressione di interessi politici molto variegati.
“Dubito che la proposta del Parlamento sarà approvata”, commenta Morgese. “Poche questioni sono politiche come l’immigrazione. I paesi di Visegrad, e magari un altro paio, tra cui l’Austria, possono facilmente formare una minoranza di blocco”. Preoccupazione condivisa dal vicepresidente dell’Asgi, Gianfranco Schiavone, secondo il quale la riforma toglie ai paesi del gruppo di Visegrad “l’arma principale su cui reggono il loro consenso politico: la costruzione dei muri, la logica dell’invasione”.
In attesa dell’esame del Consiglio dell’Unione Europea, la situazione versa in un preoccupante stallo. Mentre il Parlamento sottolinea di aver concepito un sistema che lavori “sul terreno, nella pratica” (a differenza di Dublino III), il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk, alla vigilia dell’ultima riunione del Consiglio ha ammonito gli stati dal proseguire sulla via delle quote, definita “molto divisoria” e “inefficace”. Tusk ha poi esortato gli Stati membri ad “arginare i flussi migratori clandestini verso l’Europa”, citando l’esempio dell’azione italiana in Libia.
Date queste premesse, sembra difficile che il Consiglio della Ue approvi all’unanimità la proposta del Parlamento. Ecco perché Cecilia Wikström, relatrice della proposta, ricorda che “nulla nei trattati obbliga gli stati a decidere all’unanimità”, e che le obiezioni potranno essere superate da un voto a maggioranza qualificata.
Resta, conclude Morgese, “l’alto valore simbolico di una proposta del genere fatta dal Parlamento, nel contesto di una politica tutto sommato disastrosa”.
Immagine di copertina: Elly Schlein, relatrice della riforma di Dublino per il Gruppo europeo dei socialisti e Democratici – di Francesco Pierantoni (CC BY 2.0)