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Homepage >> Approfondimento >> Dalla Nigeria a Catania, il percorso delle vittime di tratta

Dalla Nigeria a Catania, il percorso delle vittime di tratta

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28 settembre 2017 - Claudia Torrisi
Da dove vengono, come viaggiano, come vengono trattate, quanto hanno paura e quanto sono disposte a raccontare, quali sono i precisi ruoli di cui si compone la catena della tratta. Dall'ultimo rapporto di Oim, fino al pubblico ministero che sta cercando di aprire un maggior numero di indagini, Claudia Torrisi ripercorre per noi la strada delle vittime di tratta, che spesso passa per Catania.

Dal tardo pomeriggio in poi, i marciapiedi delle vie che si diramano attorno alla stazione di Catania si riempiono di ragazze giovanissime in attesa di clienti. Lucia Genovese, operatrice dell’Unità di strada dell’associazione Penelope, le incontra da anni per offrire loro sostegno e aiuto. “Io e la mia collega facciamo diversi giri, in base ai luoghi di esercizio: sulle strade statali o nel centro di Catania. Ogni posto ha le sue specificità, ma le ragazzine nigeriane ci sono ovunque”, dice. Nell’ultimo periodo l’operatrice ha notato che la loro presenza è in forte aumento: “Prima, nel corso di un’Unità di strada [uno dei modi per agganciare le vittime di tratta] riuscivamo a fare tutta la città, adesso non più. Siamo state costrette a dividerla a zone”.

Il fenomeno della “tratta di persone” a scopo di sfruttamento sessuale ha conosciuto in effetti una crescita esponenziale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), nel giro di tre anni il numero delle persone ritenute potenziali vittime di tratta e arrivate via mare in Italia è aumentato di più del 600 per cento, passando da 1.500 nel 2014 a oltre 11 mila nel 2016, che nel caso italiano sono quasi del tutto donne e nigeriane. Un incremento che è continuato anche nei primi sei mesi del 2017.

Si tratta di ragazze sempre più giovani, il più delle volte minorenni, che vengono da diverse zone della Nigeria: Edo, Delta, Lagos, Ogun, Anambra, Imo. Nel 2016 il paese ha rappresentato la prima nazionalità per numero di arrivi sulle coste italiane, con un aumento in particolare delle donne e dei minori non accompagnati. L’Oim ritiene che circa l’80 per cento delle migranti nigeriane arrivate via mare nel 2016 sia probabile vittima di tratta destinata allo sfruttamento sessuale.

Vittime Via Mare_GF-01

“La tratta è un fenomeno estremamente complesso e per noi difficile da combattere. In Italia riusciamo a intercettarne solo una parte, dallo sbarco nel nostro paese in poi”, spiega Lina Trovato, pubblico ministero che si occupa del contrasto alla tratta presso la Procura di Catania, una delle più attive. Nel 2016 nella città etnea sono stati iscritti 31 procedimenti contro noti, quasi la metà dei 71 in Italia. Tra gennaio e giugno 2017 erano già 26, e sembrano destinati a crescere rispetto all’anno scorso.

Nigeria, l’inizio della tratta

La prima tappa è il “reclutamento”: la ragazzina viene avvicinata da un amico, un parente o qualcuno di fiducia che le propone di aiutarla ad arrivare in Europa, e la mette in contatto con altre persone. “La proposta fa leva su ragazze in condizioni di estrema miseria. A volte sanno perfettamente cosa vanno a fare, ma la considerano una prospettiva migliore”, afferma Trovato. Nelle famiglie più numerose le primogenite spesso vengono scelte per affrontare questo viaggio ed essere d’aiuto ai parenti. Nella maggioranza dei casi, però, la vittima di tratta non sa quale sarà il suo destino e viene raggirata: qualcuno le dice di avere un’amica in Italia che cerca ragazze per un negozio, per fare treccine o fare le baby sitter.

Secondo il rapporto dell’Oim, “l’età sempre più bassa delle minori nigeriane in arrivo via mare è inversamente proporzionale alla coscienza di essere vittime di tratta e delle violenze e degli abusi” che subiranno. Diverse adolescenti hanno dichiarato agli operatori “di non aver mai avuto rapporti sessuali, di non conoscere né l’esistenza di mezzi contraccettivi né il rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili”, e di non sapere “in cosa consista la prostituzione”.

Il secondo passaggio è sottoporle al rito magico voodoo Juju, attraverso il quale alle ragazze viene fatto assumere un impegno: pagheranno il debito verso chi le farà arrivare in Italia (solitamente tra i 25 e i 35 mila euro), non scapperanno, non avviseranno la polizia, non faranno i nomi dei trafficanti. La principale minaccia in caso di inottemperanza è la morte, loro o dei parenti.

Il rito è uno degli elementi che riesce a tenere incatenate migliaia di donne a questa schiavitù sessuale. Secondo l’Oim, il voodoo è “una modalità di controllo psicologico” molto praticata in Nigeria, e rappresenta una “garanzia di fedeltà e soprattutto omertà anche dopo che la migrante scoprirà la realtà della propria condizione”. In un reportage pubblicato da Thomson Reuters Foundation, uno sciamano del villaggio di Amedokhian, nella Nigeria meridionale, spiega in che modo terrorizza le ragazze dopo aver fatto bere loro “miscugli in cui sono immersi pezzi di unghie, peli pubici, biancheria intima o gocce di sangue”: “Posso fare in modo che [la ragazza] non riesca mai a dormire bene né a trovare pace finché non avrà saldato il suo debito […] Qualcosa nella sua testa continuerà a ripeterle ‘Devi pagare!’”.

Dalla Nigeria all’Italia, passando per la Libia

Una volta compiuto il rito voodoo, l’impegno è consacrato e il debito con la madame – una sorta di tenutaria – è contratto. Inizia la prima parte del tragitto, dalla Nigeria alla Libia, attraversando il Niger.

Il viaggio viene commissionato dall’Italia, o da gruppi che operano tra la Nigeria e il nostro paese. Ci sono ruoli definiti: il reclutatore in loco, la persona che fa il voodoo, le madame e coloro che si occuperanno delle ragazze in Italia, e poi figure intermedie durante il tragitto. Se la persona che accompagna le donne “è di un livello quasi pari a chi organizza i viaggi (il connection man) si chiama boga”, spiega Trovato. Se, invece, è solo una persona di fiducia del reclutatore, si parla di trolley-man. In Italia c’è poi il ticket-man, che, su incarico della madame, va a prendere la ragazza nella struttura dove è stata messa, le paga il biglietto e la mette su un pullman diretto alla sua destinazione finale, che di solito è il Nord.

Nel rapporto di Save the Children intitolato “Piccoli schiavi invisibili” si legge come i 715 km di viaggio da Kano (in Nigeria) ad Agadez (in Niger) espongano le giovani vittime “alle ritorsioni dei funzionari di frontiera sia nigerini che nigeriani”. Da Agadez si parte per attraversare il confine, “percorrendo circa 3.500 chilometri nel deserto a bordo di pick-up carichi di migranti”.

Superato il Niger, le ragazze arrivano in Libia, dove violenze e abusi sono all’ordine del giorno. “Vengono allocate in ‘ghetto’, ‘safe house’ o ‘connection house’. Gran parte del loro destino dipende dalla ricchezza di chi le ha commissionate: se hanno i soldi, avranno da mangiare e non saranno costrette a prostituirsi”, dice Trovato. La maggior parte delle volte, però, queste possibilità economiche non ci sono, e in generale la permanenza in Libia dei migranti si sta allungando con un aumento dei costi. Può succedere che le madame finiscano il denaro e i connection man vendano le minori ad altri trafficanti.

Procedimenti_GF-01

Secondo l’Oim, tra l’altro, a causa della sempre crescente instabilità, nell’ultimo anno sono aumentati i casi di violenza sessuale commessi anche da soggetti non legati alla rete della tratta, e di conseguenza le donne che arrivano in Italia in stato di gravidanza. Talvolta, quando una madame scopre che una ragazza è incinta decide di ‘abbandonarla’ in Libia, alla mercé di tenutarie locali che la costringeranno ad abortire e lavorare in una casa chiusa.

L’arrivo in Italia

Irene Paola Martino, ostetrica imbarcata su una delle navi di Msf nel Canale di Sicilia, ha raccontato che “in ogni sbarco c’è sempre un nutrito gruppo di ragazze nigeriane, moltissime delle quali minorenni […] Quando le separi dagli altri migranti, pian piano riesci a parlare con loro, e raccontano tutte storie di inaudita violenza”. La maggior parte, “appena mette piede a terra, cambia subito atteggiamento: tengono gli occhi bassi, non rispondono più neanche a una domanda”.

Le ragazze arrivano nei porti con numeri di telefono scritti su foglietti di carta, avvolti nella plastica perché non si bagnino con l’acqua del mare. Li nascondono, e cercano di attenersi alle istruzioni che hanno ricevuto dalle persone che le hanno accompagnate durante il viaggio.

Secondo Trovato, “i trafficanti conoscono benissimo il sistema italiano. E quindi l’indicazione che danno è di fingersi maggiorenni perché così saranno più libere e di fornire un certo racconto. Sembrerebbe che in Libia ci siano tanti ‘benefattori’ che aiutano le ragazze a partire”.

La maggior parte delle volte le vittime indicano gli accompagnatori come zii, mariti, fratelli, in modo da non essere separate da loro. In realtà, precisa l’Oim, non sono altro che boga, “il cui obiettivo è quello di condurle al trafficante che le attende in Europa. Per le reti criminali si tratta della consegna della ‘merce’ da parte di corrieri che viaggiano con le vittime”.

Il momento dell’identificazione dopo lo sbarco è perciò fondamentale. L’ultimo rapporto del Greta (gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta alla tratta) ha però sottolineato che spesso questa procedura viene svolta dalle autorità italiane in maniera troppo frettolosa affinché si rilevino possibili vittime di tratta.

Le difficoltà nelle indagini

Quando Trovato ha cominciato a occuparsi di tratta, è rimasta colpita dal divario tra le segnalazioni dell’Oim e i procedimenti alla Procura di Catania: “mi chiedevo come fosse possibile che l’Organizzazione per le migrazioni vedesse tutte queste vittime di tratta e noi qui avessimo due, massimo tre fascicoli”, afferma. Ha quindi cominciato a percorrere a ritroso le storie delle ragazze, spulciando al tribunale dei minori gli elenchi degli sbarchi e le segnalazioni di casi vulnerabili.

Le denunce sono pochissime. Negli sbarchi in Sicilia, Puglia e Calabria, a fronte di un totale di 11 mila ragazze arrivate dalla Nigeria nel 2016, secondo gli indicatori utilizzati da Iom le potenziali vittime di tratta sono state 8.277, delle quali 6.599 sono state identificate con ragionevole certezza come tali. A fronte di questi numeri – comunque al ribasso – le denunce sono state solo 78.

Secondo Oriana Cannavò, responsabile della sede di Catania dell’Associazione Penelope, “c’è moltissima paura. Si tratta di un percorso per nulla semplice, che ha a che fare con l’abbandono di un tipo di vita che le ragazze si erano prospettate, un progetto di migrazione che si è rivelato un inganno”.

Un altro aspetto riguarda il rito magico e soprattutto le minacce ai parenti in Nigeria: se le ragazze non raggiungono subito le madame, i criminali spaventano i genitori, che a loro volta chiamano le figlie. Tante si fanno condizionare, e anche se hanno iniziato a collaborare, tornano dagli sfruttatori.

Nigeriane identificate come vittime di tratta a fronte del numero di denunce

Non potendo contare sulle denunce, le indagini partono da segnalazioni del tribunale o della procura per minorenni, di tutori, di operatori di comunità. “Due, ad esempio, sono iniziate perché ci hanno detto che in un centro era arrivata una valigia con un telefonino e dei tacchi a spillo”, dice Trovato.

Il più delle volte bisogna prescindere dal narrato della vittima. “Le ragazze odiano la madame, ma le sono riconoscenti perché le ha fatte arrivare in Italia. Raramente faranno il suo nome”, spiega la PM. Capita che alcune vittime raccontino di essere ospiti della madame, che le ha incontrate in lacrime per strada. In questi casi può aprirsi a loro carico un procedimento penale per aver detto il falso. Per questo “servono legali esperti di tratta, in modo che le ragazze arrivino all’incidente probatorio ammettendo di aver detto stupidaggini per paura”.

Dalle indagini emerge come si tratti di criminalità prettamente nigeriana. Nell’80 per cento dei casi, inoltre, a essere arrestate sono donne. La ragione è che sono quasi tutte ex vittime: “La tratta è un circolo vizioso: spesso le ragazze non aspirano solo a liberarsi e a pagare il debito, ma a diventare dopo qualche anno madame e far venire un’altra che lavori al posto loro, così da poter lasciare la strada”, dice Trovato. Talvolta sono gli stessi genitori che incoraggiano le ragazze: “in un’indagine c’è la telefonata di una madre che dice alla figlia: ‘resisti, oggi servi tu lei, ma tra un anno se sarai fortunata ci sarà chi servirà te’”.

Uscire dalla tratta

L’Unità di strada è uno dei modi per agganciare le vittime di tratta. Le informazioni fornite dalle operatrici sono soprattutto di carattere sanitario: analisi del sangue, interruzione di gravidanza, visite mediche. “Non facciamo cenni ai programmi di protezione, perché in strada puoi incontrare anche le madame”, precisa Lucia Genovese. In questi colloqui è fondamentale la comunicazione non verbale: “Se faccio domande a una ragazza e questa prima di rispondere guarda sempre una persona, con una scusa provo a farla venire in ufficio. Qualcuna effettivamente si apre”. Non è detto però che decida di denunciare. “Ci sono ragazze che vogliono continuare a pagare, perché hanno troppa paura per la famiglia”, spiega l’operatrice. Altre, pur avendo estinto il debito, continuano a prostituirsi o diventano madame.

Per coloro che cominciano un percorso di protezione, l’articolo 18 del Testo unico sull’immigrazione prevede uno speciale permesso di soggiorno. Le ragazze vengono collocate nelle strutture, alcune delle quali a indirizzo segreto, e seguite dall’associazione per l’accompagnamento in Questura, il supporto in tribunale per gli incidenti probatori (che sono sempre traumatici), l’iscrizione a scuola, l’attivazione di tirocini. L’obiettivo è l’autonomia, anche se è difficile.

Nel febbraio 2016 il Consiglio dei Ministri ha adottato il Piano Nazionale Antitratta, che ha messo a sistema alcuni punti d’azione. Un punto sollevato dalle associazioni del settore è che i fondi previsti per il contrasto alla tratta continuano a funzionare solo sulla base di bandi legati a progetti, e non in maniera strutturale. “Mi piacerebbe che l’attività di Penelope”, dice Cannavò, “fosse sistemica e che il contrasto alla tratta fosse un’attività costante per le istituzioni. Il Piano era atteso e rappresenta una svolta. Certo, è una goccia nel mare”.

 

In copertina: Poco dopo l’alba, due giovani donne vittime di tratta osservano commosse l’ingresso della nave Aquarius nel porto di Augusta (Foto: Federica Mameli)

Etichettato con:Catania, IOM, Libia, Niger, Nigeria, OIM, Penelope, Piano Nazionale Antitratta, procura di Catania, Save The Children, vittime di tratta

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