Una folla di gente con le mani verso il cielo che attraversa un muro abbattuto: è la moneta ideata dall’Unione Europea per il trentennale della caduta del Muro di Berlino che ricorre il 9 novembre. Una celebrazione che appare puramente simbolica e rischia di scivolare nell’ipocrisia, se si guarda alla politica europea in tema migratorio. A trent’anni dalla caduta del Muro viene spontaneo interrogarsi sullo stato interno dell’Unione e sull’affiatamento degli stati membri rispetto a un tema di portata internazionale. Una risposta arriva dall’attualità: la nave Ocean Viking, delle Ong Sos Mediterranée e MSf, dopo aver soccorso 104 migranti è stata tenuta al largo per undici giorni, in attesa di un porto disponibile: una prassi divenuta quasi routine. Ampliando lo sguardo è l’intera posizione dell’Europa a tradire una mancanza di visione comune e responsabilità condivisa: lo dimostrano la mancata riforma del Regolamento di Dublino, il fallimento del sistema di Relocation, il ritorno dei militari alle frontiere interne.
In questo contesto lo scorso 1° novembre Ursula Von Der Leyen si è insediata alla presidenza della Commissione europea. In materia migratoria si prefigge la creazione di “un nuovo patto su migrazione e asilo, che comprenda la riforma del sistema di Dublino” e il “ritornare ad uno spazio Schengen di libera circolazione”,senza però un Commissario ad hoc. Ad occuparsi di migrazioni saranno infatti Ylva Johansson, Commissaria agli Affari Interni, e Margaritis Schinas, Vicepresidente preposto alla “protezione del nostro stile di vita europeo”.
Sarà da vedere come la nuova presidenza affronterà la questione degli sbarchi, su cui a fine ottobre si è registrato l’ennesimo nulla di fatto, con la bocciatura della cosiddetta ‘risoluzione porti aperti’, che sollecitava gli Stati membri a mantenere “porti aperti alle navi, anche delle Ong, che devono sbarcare persone soccorse”.
Più l’Europa risulta frammentata nella gestione interna del fenomeno migratorio, più si compatta sull’esternalizzazione e il controllo dei confini esterni, con investimenti continui volti a impedire che i migranti raggiungano l’Unione e respingere quelli che l’hanno fatto. Sono più di una decina gli accordi di riammissione stipulati tra UE e i Paesi di origine.
Schengen, tra sospensioni e violazioni
La coesione europea sui confini esterni è legata a uno dei pilastri dell’Unione: l’accordo di Schengen, che istituisce un’area senza controlli alle frontiere. Irlanda, Regno Unito, Bulgaria, Romania, Cipro e Croazia non firmano l’accordo, mentre Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein lo fanno pur non essendo membri UE.
Schengen prevede la possibilità di deroghe, con la reintroduzione dei controlli interni “in caso di grave minaccia all’ordine pubblico o alla sicurezza”: dal 2006 si registrano i primi stop, che non vanno oltre i 30 giorni, e si legano a meeting istituzionali o manifestazioni. La situazione cambia nel 2015: le sospensioni dell’accordo diventano più regolari, motivate ufficialmente dagli “ingenti flussi di richiedenti asilo” e dal “traffico di migranti illegali”. Alle frontiere di Norvegia, Svezia, Danimarca, Germania, Austria e Francia persistono ancora oggi i controlli militari. “Minacce risultanti da significativi movimenti secondari” si legge nelle motivazioni, ad eccezione della Francia che fa riferimento a “minacce terroristiche”.
I controlli violano l’accordo di Schengen, secondo cui tali misure costituiscono “un’eccezione, in misura e per una durata strettamente limitate” (Art. 23), e non devono legarsi ai flussi migratori, giacché “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia” (Art. 26). Ciò nonostante è già stata annunciata da Germania e Austria l’estensione degli attuali controlli – è facile prevedere un rinnovo anche da parte degli altri Paesi.
I migranti, bersaglio diretto di tali politiche, pagano il prezzo più alto. Associazioni e Ong denunciano pratiche illegittime, detenzioni arbitrarie e respingimenti coatti, ad esempio al confine tra Italia e Francia, o tra Francia e Spagna. I migranti sono costretti a cercare percorsi alternativi e rischiosi. Solo nei valichi sul confine italo-francese si registrano quest’anno due vittime. Stando ai dati dell’OIM sono 97 i migranti che hanno perso la vita nel 2019 all’interno dell’Unione. Numeri al ribasso: non esistono dati ufficiali relativi ai morti sui confini interni, annoverati nella cronaca nera piuttosto che considerati vittime di precise scelte politiche.
Relocation: un principio di responsabilità condivisa mai applicato
Di come gestire gli ingressi si è discusso a fine settembre a La Valletta. Francia, Germania, Italia e Malta hanno presentato un piano semestrale di ricollocazione dei migranti soccorsi nel Mediterraneo centrale da navi istituzionali e Ong. Una proposta avanzata nel Consiglio europeo dell’8 ottobre in Lussemburgo, ma approvata solo da quest’ultimo, oltre che da Portogallo e Irlanda. La stessa Berlino ha specificato “che il meccanismo di emergenza finisce se il numero degli arrivi passa da centinaia a migliaia”. Ancora una volta la posizione del Consiglio palesa la mancata applicazione del principio di responsabilità condivisa, più volte richiamato in questi anni rispetto all’accoglienza dei richiedenti asilo.
Nel settembre 2015 il Consiglio europeo approva l’Agenda europea delle migrazioni, con l’obiettivo di adottare “un fermo impegno per la solidarietà tra gli Stati”, per cui propone il “programma di relocation”: una misura di trasferimento dei richiedenti asilo da Italia e Grecia, geograficamente più esposte ai flussi, verso gli altri Stati europei, con un meccanismo di distribuzione delle persone basato su quote messe a disposizione dai Paesi: nonostante le indicazioni della Commissione europea, è ogni Stato membro a decidere il numero di persone da accogliere. La Commissione definisce quante persone trasferire dai due Paesi protagonisti della misura: l’iniziale cifra di 160 mila sarà rivista, fino ad arrivare a 63.302 da trasferire dalla Grecia, e 34.953 dall’Italia: 98.255 persone in tutto.
Al termine del programma, nel settembre 2017, i numeri non corrispondono a quanto previsto. Sono solo 9.078 i richiedenti asilo ricollocati dall’Italia, 20.066 dalla Grecia, per un totale di 29.144. La discrepanza tra obiettivo e realtà è data dalla riluttanza con cui la maggioranza dei paesi europei ha partecipato al piano. In particolare, il cosiddetto blocco Visegrad – Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia – esprime da subito contrarietà. Polonia e Ungheria non accoglieranno alcun richiedente asilo. Praga aprirà a dodici richiedenti asilo (su 2.691 indicati dalla Commissione), Bratislava a sedici. In generale, quasi tutti i membri UE indicheranno una disponibilità minore rispetto a quella segnalata dalla Commissione, accogliendo poi, nei fatti, meno richiedenti asilo di quelli inizialmente dichiarati. La Spagna ha accolto solo il 14% dei richiedenti asilo previsti, il Belgio il 26%, l’Olanda il 40%, il Portogallo quasi il 50%. La Germania ha accolto circa 8.300 richiedenti asilo, su 27.536 previsti. Tra i paesi più virtuosi c’è la Finlandia con 1975 su 2078 (circa il 95%) (fonte Unhcr).
Di relocation si continuerà a parlare e la misura verrà inclusa nelle Conclusioni in materia migratoria redatte dal Consiglio europeo a fine giugno 2018, ma l’adesione dei Paesi resterà volontaria. “A livello europeo, non esistono accordi automatici tra i 28 Paesi membri per regolare il ricollocamento dei migranti”, dichiarava a Bruxelles Eugenio Ambrosi, rappresentante OIM.
Dublino: una riforma urgente
Le discussioni circa la distribuzione dei richiedenti asilo si inseriscono in un lungo dibattito che ha al centro la riforma del regolamento di Dublino, il sistema comune europeo sull’asilo, che sancisce l’obbligo per il Paese di primo ingresso di un richiedente asilo di farsi carico dell’accoglienza dello stesso. E’ questo il nodo centrale del regolamento e la sua maggiore criticità: riconosce automaticamente maggiori responsabilità ai Paesi geograficamente più esposti ai flussi. Cambiando punto di vista, il regolamento obbliga un richiedente asilo a inoltrare domanda di protezione nel Paese di arrivo, dove sarà poi costretto a vivere: potrà circolare per un massimo di tre mesi in Europa, ma senza potersi trasferire stabilmente in un altro Paese. Nell’ordinamento dell’Unione non esiste il principio del mutuo riconoscimento della protezione: un dato che palesa l’effettiva mancanza di un sistema europeo di asilo.
In particolare, Dublino evidenzia i propri limiti dal 2014, con l’aumento dei flussi migratori. Il primo gennaio 2014 entra in vigore Dublino III, che amplia i termini per il ricongiungimento familiare e prevede maggiori tutele per i minori. Conferma però il principio del primo Paese d’ingresso.
A maggio 2016 la Commissione europea propone di adottare un “equo meccanismo correttivo”: mantenendo i criteri di Dublino per l’attribuzione di responsabilità, li integra con una “ridistribuzione d’emergenza da attivare in circostanze specifiche”. L’ECRE definisce la proposta “tutto fuorché ragionevole” ed esorta il Parlamento a emendarla in modo da promuovere davvero un principio di solidarietà. Dopo un lungo percorso, il Parlamento delinea una riforma realmente innovativa: viene abolito il principio del Paese di primo ingresso, sostituito con l’introduzione di un sistema automatico, permanente e obbligatorio di ricollocamenti in tutti i paesi dell’Unione. “Il primo segnale positivo per il sistema comune d’asilo”, commentava Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi. Il testo, approvato nel novembre del 2017 dalla Commissione libertà civili del parlamento europeo, subirà però uno stop dal Consiglio europeo.
L’anno seguente la Bulgaria, presidente di turno del Consiglio UE, ribadendo il principio del Paese di primo ingresso promuove un compromesso sul sistema di distribuzione dei richiedenti asilo, ipotizzando la possibilità che i paesi partecipino in modo volontario, o in alternativa versino denaro – 30 mila euro per ogni persona rifiutata – allo Stato accogliente. Una proposta con evidenti limiti che nel giugno 2018 viene bocciata.
Lo scorso dicembre la Commissione europea ha ammesso di aver abbandonato l’idea di cambiare le regole europee sul diritto d’asilo.
Questa resta invece la sfida principale che l’Unione europea deve affrontare. Sottrarsi ha ripercussioni drammatiche su migliaia di persone. E mina i principi fondanti l’Europa stessa: libertà di movimento, responsabilità condivise, protezione dei diritti umani. Temi su cui bisogna riflettere a 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino.
Immagine di copertina: Berlino, East Side Gallery via WikiCommons