Nel suo primo discorso al Parlamento Europeo, nel novembre 2019, Ursula Von der Leyen disse che l’Europa aveva urgente bisogno di una “Commissione geopolitica”. Da allora, quell’aggettivo ha caratterizzato l’operato dell’esecutivo Ue che, secondo la sua presidente, avrebbe dovuto diventare un attore globale molto più presente, attivo e forte. L’obiettivo, secondo diversi commentatori, non è stato raggiunto, ma dare un giudizio definitivo oggi è forse prematuro. Quel che è certo è che negli ultimi mesi si sono registrati alcuni cambiamenti che sono stati ispirati da questa visione geopolitica. E che potrebbero avere ripercussioni sui flussi migratori diretti verso l’Europa.
La novità più rilevante è lo Strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale (o, dall’acronimo inglese, NDICI), su cui lo scorso dicembre Consiglio e Parlamento Ue hanno trovato un accordo, approvato anche dalla Commissione. Sono oltre 79 miliardi di euro che finanziano l’azione esterna dell’UE nei paesi terzi, in linea con gli obiettivi di sviluppo Onu e l’accordo di Parigi sul clima. “In passato, l’azione esterna dell’UE era molto frammentata. NDICI, invece, riporta molti degli strumenti precedenti sotto un unico ombrello. È un tentativo di rispondere alle aspirazioni geopolitiche della Commissione”, spiega Helena Hahn, ricercatrice dell’European Policy Centre (EPC).
Questa razionalizzazione è generalmente indicata come uno degli aspetti positivi dello strumento. Un altro è il fatto che il totale dei fondi sia rimasto praticamente invariato rispetto ai sette anni precedenti, nonostante la Brexit. E poi vi è la creazione di una nuova voce per rispondere rapidamente alle emergenze: circa 3 miliardi. Il resto dei fondi è suddiviso per programmi geografici e tematici, con i primi a fare la parte del leone. Su 79 miliardi complessivi, ai paesi che rientrano nella politica di vicinato dell’UE (est Europa e Mediterraneo) spetteranno più di 19 miliardi e a quelli dell’Africa subsahariana quasi trenta. La maggior parte degli stanziamenti, in pratica, è rivolta a zone da cui proviene una parte molto significativa dei cittadini di paesi terzi che ogni anno arrivano in Europa. E, infatti, uno dei target di spesa per i fondi riguarda proprio la migrazione: almeno il 30% dei fondi andrà investito in azioni per il clima, almeno il venti per lo sviluppo umano e almeno il 10% per la migrazione. Per la precisione, si legge in un documento UE, “per affrontare le cause profonde della migrazione irregolare, creando nel contempo le condizioni per una migrazione legale e una mobilità ben gestita”.
Ma quali sono le tipologie di interventi che questa definizione comprende? Il quesito, secondo Andrea Stocchiero, è “ancora irrisolto”. “Il regolamento di NDICI non definisce nel dettaglio cosa andrà a finanziare quel 10 per cento, anche perché non è così facile farlo. Dentro ci possiamo trovare dalla gestione dei campi profughi al finanziamento della cosiddetta Guardia costiera libica”, spiega il Policy officer di Focsiv e Concord Italia. Hahn di EPC concorda. “Affrontare le cause profonde della migrazione irregolare è una frase talmente generica che può riguardare la creazione di posti di lavoro tanto quanto l’acquisto di equipaggiamenti per le forze di sicurezza. E qui – commenta la ricercatrice – vedo un parallelo con l’EU Emergency Trust Fund for Africa”.
Un processo in corso
L’EU Emergency Trust Fund for Africa è un fondo fiduciario che è stato lanciato nel novembre 2015 per contrastare la migrazione irregolare con progetti nei paesi di partenza e transito dei migranti. Aveva una dotazione di circa 4,7 miliardi di euro, provenienti in larghissima parte da quegli strumenti finanziari UE che oggi sono confluiti nel NDICI e, secondo i suoi promotori, ha garantito un migliore accesso ai servizi sociali di base a “più di 12 milioni di persone” nelle regioni africane del Sahel, del lago Chad e del Corno d’Africa.
“I fondi del trust fund sono stati usati in larga parte per la cooperazione in senso tradizionale. Ma c’è stata anche una diversione dell’aiuto verso la gestione migratoria. È stata una quota minoritaria, ma importante rispetto al passato. E oggi, con NDICI, rischia di aumentare ulteriormente”, riprende Stocchiero. Secondo Federica Zardo, ricercatrice all’Università di Vienna che ha studiato proprio il trust fund, assistiamo a un processo in cui “le tematiche migratorie permeano le dinamiche di cooperazione” tra l’Ue e i paesi africani, ma anche quelli del Medio Oriente. “Negli ultimi anni – commenta – la condizionalità degli aiuti, pur non essendo mai stata messa nero su bianco, è sicuramente aumentata”.
Pierfrancesco Majorino è un deputato europeo che siede nella commissione per lo sviluppo del Parlamento UE, che si occupa proprio di questi temi. Anche lui riconosce che il trust fund ha sostenuto interventi di cooperazione, ma anche che spesso “ha prevalso l’ossessione di bloccare i flussi migratori”. “Abbiamo finanziato delle vergogne inaccettabili. Penso al finanziamento della guardia costiera libica o ai progetti in Eritrea che vedono l’impiego di lavoro forzato”, commenta. “Sono cose – aggiunge – incompatibili con i valori europei e che vanno fermate. Lo stesso strumento per i rifugiati in Turchia (del valore di 6 miliardi di euro, ndr) risponde a quella stessa logica che non va più riproposta”. Sarà davvero così? Da un lato, è ancora presto per capirlo. Dall’altro, alcuni segnali già emergono.
I prossimi passi
Le specifiche azioni che verranno finanziate da NDICI devono essere ancora decise, sostiene Stocchiero. Se si tratterà di aiuto vero o di diversione, dipenderà “dalle scelte fatte a livello regionale e di singolo paese, da progetto a progetto”, spiega. Quel che si sa è che la gestione operativa spetta alla Commissione Europea e, in particolare, dalla struttura che ha appena cambiato nome, passando da Direzione generale per la Cooperazione internazionale e lo sviluppo a Direzione generale per i Partenariati internazionali. Il cambiamento è anche un’operazione di comunicazione e non va certamente sovrastimato, ma rientra in quell’ottica geopolitica voluta da Von der Leyen e ha dei risvolti pratici significativi.
Il più importante è la maggiore collaborazione tra la Direzione generale per i Partenariati internazionali (DG INTPA) e il Servizio europeo per l’azione esterna (EEAS), quello che si potrebbe definire il Ministero degli Esteri dell’Unione Europea. Questo rapporto sempre più stretto, secondo l’ISPI, solleva “la questione se la DG INTPA lavorerà più come un’agenzia di sviluppo operativa o agirà come un organismo più politico, mosso dagli interessi strategici dell’UE – non da chiari obiettivi di sviluppo”. Se la risposta fosse più orientata verso la seconda opzione, le conseguenze potrebbero essere diverse. Un rischio, per Zardo, è che “quei paesi o quelle aree di paesi che non sono zone di origine o transito dei migranti finiscano per essere escluse o penalizzate in termini di progetti di sviluppo”. “Penso al Togo o a certe parti di Libia e Niger”, spiega la ricercatrice.
Un’altra possibilità è che, soprattutto tra gli stati africani, spiega Hahn di ECP, cresca “la frustrazione per l’enfasi UE sui rimpatri dei migranti irregolari e lo scarso impegno in materia di canali per la migrazione legale”. “In Nord Africa – aggiunge Zardo – l’attenzione dell’UE per la migrazione ha spinto alcuni stati a riavvicinarsi ai paesi del Golfo”. Il punto è proprio questo. E pare un paradosso. Da un lato, la Commissione UE dice di voler giocare un ruolo globale più forte, creando partnership internazionali paritarie. Dall’altro, dà una tale priorità al dossier migratorio che rischia di vanificare proprio le sue ambizioni geopolitiche.
In copertina: la foto di gruppo dei leader africani ad europei al vertice sulla migrazione della Valletta nel 2015, dopo la firma dell’intesa sull’EU Emergency Trust Fund for Africa – Foto: European Union, 2015 Source: EC – Audiovisual Service