Lungo la strada provinciale che da Torino, in un’ora circa porta a Saluzzo, nel cuneese, non è difficile incrociare ogni mattina decine di lavoratori africani in bicicletta: chi si muove all’alba per recarsi sul posto di lavoro e chi, durante il resto della giornata, va di azienda in azienda per cercarla, un’occupazione.
Pesche, mirtilli e mele: da giugno a ottobre sono oltre 10mila gli stagionali (di cui il 42% africani) che lavorano come braccianti nelle 7.950 aziende agricole di quello che è uno dei distretti ortofrutticoli più importanti in Nord Italia, un comparto che fattura 500 milioni di euro all’anno, stando ai dati della Coldiretti.
Il centro geografico dell’area agricola che si estende per quasi 50 chilometri da Barge a Busca, è il comune di Saluzzo. Ed è qui che fanno base ogni anno le centinaia di braccianti (si stima circa il 25% del totale) a cui il datore di lavoro non fornisce un alloggio o che, non avendo un rapporto consolidato con un’azienda, riescono a lavorare solo saltuariamente, durante i picchi della raccolta. Poco più di 300, quest’anno, come l’anno scorso, hanno trovato un letto all’interno di un’ex caserma fornita dal Comune, il cosiddetto Pas (cioè centro di Prima accoglienza stagionali). Ma gli altri, circa altrettanti, dormono per strada: i più fortunati in tende da campeggio. Gli altri sul marciapiede, con un cartone e una coperta.
Saluzzo, che conta poco meno di 17 mila abitanti, negli anni si è guadagnata diversi epiteti. Fino al 2012, i lavoratori stagionali si riferivano all’accampamento del Foro Boario come “Guantanamo”, un appellativo che molti usano ancora oggi.
Quando nel 2015 nell’accampamento improvvisato sono arrivati il presidio e le tende della Caritas si è iniziato a parlare di “modello Saluzzo”, una definizione però che Caritas per prima rifiuta. I media invece l’hanno spesso definita la “Rosarno del nord”, anche se il paragone rischia di far perdere di vista alcune importanti differenze.
Le condizioni di lavoro, stando a quanto raccontano gli stessi braccianti e a quanto riportano le organizzazioni sindacali, sono migliori se paragonate a Rosarno o a Foggia, almeno sulla carta: la retribuzione prevista è di poco più di 6 euro lordi l’ora, per 8 ore al giorno, anche se diversi braccianti riferiscono di lavorare spesso ben più a lungo.
I contratti registrati lo scorso anno dal Pas, sono stati 1.600. Ma non mancano i casi di lavoro nero e, soprattutto, di lavoro grigio (cioè retribuzioni e contributi pagati solo in parte): nel 2018 la Cgil ha avviato circa 90 vertenze, anche se le irregolarità registrate sono state più di 400. E a maggio ci sono stati tre arresti per caporalato.
Politiche migratorie che non rispondono alle esigenze di un territorio
“L’esperienza di questo territorio ci racconta 60 anni di migrazioni legate al lavoro stagionale”, afferma il sindaco di Saluzzo Mauro Calderoni, che a maggio è stato rieletto per il secondo mandato con la lista civica di centro-sinistra “Uniti per Saluzzo”. “Prima c’erano i montanari, poi i meridionali, quindi i rumeni e i polacchi e ora gli africani – continua il sindaco – . Ora va di moda cavalcare il tema dell’invasione, ma la verità è che non c’è nulla di nuovo”.
Tanto che negli anni ’70, ricorda Calderoni, i braccianti leccesi accampati nella stessa area dove oggi ci sono i lavoratori africani furono sgomberati dalla celere. Ad essere cambiata però è la quantità di manodopera richiesta: se 30 anni fa gli ettari coltivati erano 8mila, oggi sono più del doppio: circa 19mila. Inoltre, l’introduzione della coltivazione dei frutti di bosco implica che, a parità di ettari, la manodopera necessaria per la raccolta sia cresciuta esponenzialmente.
“Una manodopera che è impossibile reperire esclusivamente sul territorio nazionale – sottolinea Calderoni. Ma il quadro normativo è fermo a quasi venti anni fa con la legge Bossi-Fini e con il decreto flussi che ormai prevede appena 1.200 lavoratori stagionali per tutta la provincia di Cuneo, quando solo nel saluzzese ne servono dieci volte tanto”. Una normativa che secondo Calderoni non è più attuale perché oggi i migranti che hanno necessità di lavorare come stagionali si trovano già sul territorio nazionale: “Stupisce che questo accada da almeno 10 anni e che nessuno dei governi che si sono succeduti abbia affrontato la cosa: né i governi tecnici, né il centro sinistra, né che chi ora dice di volere riportare ordine e disciplina ma che di fatto lascia migliaia di persone a spasso”, afferma il sindaco. E senza un sistema di incrocio tra domanda e offerta di lavoro “non si capisce su che numeri tararsi”. E si arriva ad un paradosso: “Il sistema non provvede autonomamente all’alloggiamento degli stagionali, che però sono funzionali al sistema stesso”.
La rivolta dei braccianti e il sistema del Pas
Lunedì 15 luglio, dopo una notte passata sotto la pioggia incessante, senza alcun riparo, una settantina di migranti hanno deciso di bloccare il traffico in centro a Saluzzo e si sono diretti verso il Municipio: una protesta che ha obbligato le autorità locali ad aprire ai braccianti le porte del Pala CRS, un capannone nel Foro Boario usato per fiere ed eventi, che si trova proprio di fronte al Pas. Una soluzione solo temporanea. E nel frattempo, visto che non ci saranno le tende della Protezione Civile, Caritas, Cgil e volontari stanno in tutta fretta allestendo dei tendoni in via del Foro Boario. “L’ennesima dimostrazione che a pagare il prezzo della disorganizzazione sono la comunità locale e i braccianti”, commenta il sindaco.
Il sistema del Pas, almeno sulla carta, una logica ce l’ha. Ed è il frutto del tentativo di costruire una rete tra Municipio, sindacati, Caritas e cooperative sociali. Lo stabile, che è di proprietà del demanio, è stato parzialmente sistemato e aperto agli stagionali lo scorso anno. Gli interventi strutturali sono costati 400mila euro, con fondi reperiti al di fuori del bilancio comunale attraverso il contributo di fondazioni come Crt e Compagnia di San Paolo. Le spese di gestione previste per il 2019 ammontano a 200-250mila euro, coperte anche in questo caso da bandi per il sociale, da fondazioni, e, in minima parte, dal contributo di 0,70 euro al giorno richiesto ai braccianti, e di 2,5 euro alle aziende che li impiegano. I criteri per l’accesso sono il possesso di un contratto di lavoro e di un permesso di soggiorno. È inoltre data priorità a chi l’anno scorso ha già soggiornato qui.
L’ex caserma Filippi, di proprietà del demanio, conta 368 posti, in letti a castello che distano pochi centimetri l’uno dall’altro, ammassati in tre stanzoni. Alcune persone si sono organizzate con coperte e teli, per garantirsi un minimo di privacy. L’area è recintata e ufficialmente gli ingressi sono controllati, ma nel cortile interno, sotto una tettoia, ci sono diverse tende di persone che hanno trovato una sistemazione di emergenza qui durante il maltempo e che poi sono rimaste. A destra dell’ingresso ci sono alcune decine di docce e bagni, aperti anche a chi dorme fuori, e sulla sinistra alcune piastre elettriche per cucinare. A gestire il Pas è la cooperativa Armonia, che si è aggiudicata il bando pubblico: ci lavorano 6 persone su più turni, affiancate da 3 mediatori culturali, sempre su più turni, retribuiti da Cgil e Cisl.
Nella tarda mattina di un giovedì di metà luglio le persone presenti sono molte: la raccolta delle pesche inizierà tra pochi giorni e molti sono in attesa di un lavoro. Il nervosismo e la frustrazione sono palpabili e sono poche le persone che hanno voglia di parlare con giornalisti. Shaka è del Mali ed è arrivato in Italia tre anni e mezzo fa. Ha ottenuto la protezione umanitaria, che però sta per scadere e non può essere rinnovata, per effetto del primo decreto Sicurezza a firma Salvini: “Una volta uscito dal progetto di accoglienza non sono riuscito a trovare nessun lavoro che non fosse in nero. Ho bisogno di un lavoro normale per poter convertire il permesso e mi hanno consigliato di venire qui”. Shaka non ha mai lavorato prima come bracciante, ed è qui da quasi venti giorni. Ma ancora non ha trovato lavoro: “Aspetterò ancora qualche giorno e poi me ne andrò – spiega. Il posto è molto affollato. Non c’è quasi mai acqua calda e anche cucinare è molto difficile”.
Il Pas, in teoria, dovrebbe essere un punto di ingresso nel sistema e dovrebbe permettere di quantificare l’effettiva domanda di lavoro: “L’idea è che tu arrivi qui, ti registro e se non hai un lavoro trovi dei servizi per cercare un impiego e iscriverti al collocamento”, spiega Fabio Chiappello della cooperativa Armonia. “Se invece hai già un contratto, ti trovo un posto in un’accoglienza diffusa, un posto dignitoso e vicino a dove lavori. Ma siamo ben lontani da questo”.
Ad aderire all’accoglienza diffusa, sui 50 comuni della zona, sono stati solo in 4: oltre a Saluzzo, ci sono Lagnasco, Verzuolo e Costigliole Saluzzo, per un totale di 132 posti. A questi si aggiungono 24 posti all’interno di una struttura protetta di Caritas, sempre a Saluzzo, per le persone particolarmente vulnerabili (che si sono ad esempio ammalate o che hanno subito grave sfruttamento), e circa un centinaio di posti letto in container gestiti da Coldiretti, tra Saluzzo e Lagnasco.
E intanto continuano le critiche dall’interno: i consiglieri comunali della Lega – Domenico Andreis, Paolo Demarchi e Paolo Scaletta – a inizio luglio hanno inviato una lettera al sindaco in cui parlano di invasione e chiedono nuovamente la chiusura del Pas, affermando che l’apertura della struttura incoraggerà l’arrivo di altri migranti e che gli stagionali dovrebbero piuttosto affittarsi una casa. Due falsi storici secondo Calderoni: “Il picco di arrivi c’è stato nel 2013, quando non c’era nulla. E poi, in 60 anni di lavoro stagionale a Saluzzo, non è mai successo che i braccianti si siano stati affittati un appartamento. Nessuno ti affitta casa per tre mesi o meno. Senza contare che gli affitti sono cari e le paghe troppo basse”.
Gli effetti della mala accoglienza
Fuori dal Pas, alla sera, incontriamo Rashnal. Ha 23 anni ed è del Ghana. Sta sistemando il pezzo di cartone su cui passerà la notte. Per ripararsi ha solo una coperta. È arrivato in Italia due anni e mezzo fa e la sua esperienza è comune ad un numero sempre maggiore di migranti: “Quando sono arrivato sono stato trasferito in un centro nel Lazio. Sei mesi dopo, da un giorno all’altro, ci hanno detto che dovevamo andarcene”. Rashnal non ha nemmeno fatto l’audizione in Commissione territoriale e non sa che fine abbia fatto la sua domanda di asilo: da due anni non ha un documento valido. Ha vissuto al Moi (l’ex villaggio olimpico occupato) a Torino e quest’anno, per la seconda volta, è venuto a Saluzzo per lavorare: “Non ho un contratto, ma ho trovato un lavoro per quattro mesi. Il padrone vorrebbe farmi un contratto, ma non è possibile”.
Se è vero che il problema dell’alloggio è quello più visibile, è vero anche che è indissolubilmente legata alla questione lavorativa e dei documenti. Da qualche anno Caritas ha aperto un sportello in centro a Saluzzo, per rispondere alle varie problematiche degli stagionali: dall’accesso ai documenti, alla difficoltà burocratiche per il loro rinnovo. Virginia Sabbatini, che lavora qui, afferma: “C’è una fortissima connessione tra marginalità sociale e precarietà lavorativa. E per effetto della mala accoglienza stiamo assistendo ad un peggioramento enorme: sono persone tenute in una bolla per mesi e poi mandate via senza la minima idea di come funzioni il sistema. Stiamo fabbricando i perfetti braccianti disposti ad essere sfruttati”.
Uscire da questa situazione di bisogno è difficilissimo, senza contare gli effetti del primo decreto sicurezza, che ha cancellato la protezione umanitaria, come spiega Luisella Lamberti, responsabile immigrazione di Cgil Cuneo: “È la prima volta che una legge sull’immigrazione così restrittiva viene approvata senza prevedere nessuna sanatoria. L’effetto del decreto è creare i cosiddetti ‘clandestini’. Aumenteranno gli irregolari, persone invisibili e senza diritti: una situazione sociale esplosiva a tutti i livelli”. E s Saluzzo gli effetti sono già evidenti: “Da quando si è sparsa la voce che l’umanitaria non può essere rinnovata – conclude Sabbatini – i migranti sono disposti a tutto pur di ottenere un contratto. Abbiamo visto braccianti tornare dal datore di lavoro che li sfruttava, dopo che magari eravamo riusciti a convincerli ad aprire una vertenza”.
Immagine di copertina: S. mentre raccogli mele, a giugno 2017 ha appreso di essere diventato improvvisamente irregolare (Foto di Federico Tisa, come tutte quelle presenti nell’articolo)