Quando cammina per strada adesso ha paura. Mamadou Sall ha 48 anni, ma ne dimostra almeno dieci di meno. Eppure ha l’aria esausta perché, da portavoce della comunità senegalese di Firenze e provincia, da giorni si trova a gestire un turbine di rapporti istituzionali e continue dichiarazioni alla stampa. Dal 5 marzo, il giorno in cui il suo connazionale Idy Diene è stato ucciso sul ponte Amerigo Vespucci da un pensionato italiano, la sua vita è cambiata. E dire che 25 anni fa aveva scelto l’Italia – prima Torino, poi il capoluogo toscano – perché era un posto più accogliente rispetto agli altri paesi europei. Lui che nella sua ditta, in cui lavora come operaio, è anche rappresentante sindacale e si occupa di difendere i diritti di tutti, anche dei suoi colleghi italiani.
Il sindacalista senegalese che rappresenta tutti
“Stiamo vivendo una situazione molto difficile, nell’arco di sette anni in città abbiamo avuto tre morti, c’è paura e c’è tensione anche se stiamo cercando di superarla. Ma non è facile”, confida, mentre sfila in testa insieme agli altri organizzatori alla manifestazione del 10 marzo a Firenze. “Rispetto al 2011 [quando due senegalesi vennero uccisi da un estremista di destra], la situazione è peggiorata. E dobbiamo capire perché ci sono degli italiani che diventano pazzi, hanno un’arma in casa e decidono di sparare proprio contro di noi. Io sono un sindacalista e difendo anche i diritti degli italiani, quindi vuol dire che si fidano di me”. E aggiunge: “possiamo dire che Firenze non sia razzista, ma sentiamo le istituzioni sempre più lontane. Io vivo con i miei fratelli, mia cognata e i miei nipoti, e non sono più tranquillo. Quando si parla di sicurezza in Italia, la politica dovrebbe pensare anche alla nostra, di sicurezza, non solo a quelli degli italiani”.
Accanto a Mamadou c’è anche Dye Ndye, 58 anni, nata in Senegal ma italiana di adozione. Una laurea all’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e decine di pubblicazioni accademiche, ha speso la vita nel campo dei servizi sociali. Da alcuni anni è presidente della comunità senegalese di Firenze. Anche lei, con Mamadou Sall, ha organizzato la marcia che sabato 10 marzo ha portato 10 mila persone in piazza per dire no all’omofobia e al razzismo. La incontriamo sul Lungarno durante il corteo. Trattiene a stento l’emozione per le migliaia di persone che continuano a sfilare.
“I giorni dopo la scomparsa di Idy sono stati durissimi”, ci spiega, mentre tiene d’occhio i figli che la seguono in corteo senza lamentarsi. Quasi come se capissero perfettamente che la madre è impegnata in una cosa importante e che non è il momento di avere fame o di essere stanchi di camminare. “La manifestazione per noi è stata un momento bellissimo: per la comunità, Idy non era solo un connazionale, era un punto di riferimento, era attivo nella moschea. È come se avessero tolto a tutti noi un pezzo importante della vita quotidiana”.
La comunità senegalese di Firenze
La comunità senegalese è radicata dagli anni Ottanta nel tessuto sociale di Firenze e della sua provincia. Si tratta di circa 2.600 persone – molti di loro sono venditori ambulanti, altri operai, altri ancora dopo anni di lavoro sono riusciti a mettersi in proprio. Come Hassan Kebe. Nei suoi 30 anni di permanenza in Italia ha fatto di tutto: dall’ambulante all’operaio. Sino a quando, tre anni fa, ha aperto un chiosco nel quartiere Isolotto di Firenze. Per più di vent’anni è stato nella direzione della comunità senegalese fiorentina, sia come presidente sia come segretario, trovandosi a seguire anche l’omicidio dei suoi connazionali nel 2011.
“Questa è una tragedia ripetitiva. È come se sentissimo che le istituzioni e la società civile italiana non sono più reattivi come una volta. Io mi aspettavo una presenza più sincera delle istituzioni, e che il lutto cittadino venisse dichiarato subito, non alcuni giorni dopo. Nel 2011 sentivamo la politica e la gente più vicina noi, ora sembrano titubanti. Sentiamo che la politica sta cercando il potere, usando in maniera sbagliata il disagio sociale che vivono gli italiani. La destra ha guadagnato molto terreno in Europa, e non possiamo continuare a vivere questa guerra tra poveri”, dice Hassan, senza nascondere il suo pessimismo.
“Stiamo vivendo una società in cui non c’è più niente da fare. Io vedo davanti a noi un futuro pessimo. Si sta divulgando l’odio, lo abbiamo visto in campagna elettorale. I miei figli che studiano qui in Italia hanno paura e non sanno cosa verrà dopo. Il sogno di ogni genitore è quello di lasciare un mondo pulito, dove l’odio non prende il posto della solidarietà e della convivenza pacifica. Invece, non sappiamo cosa succederà, non possiamo prevedere nulla. Io mi auguro che le persone prendano coscienza e capiscano che non possiamo continuare così”.
Dalle Olimpiadi all’Assi Giglio Rosso
Moussa Sall ha spalle larghe e forti. Dal suo aspetto non è difficile capire che ha passato la maggior parte della sua vita sulle piste di atletica. Con la nazionale senegalese ha corso gli 800 metri, la sua specialità, alle Olimpiadi di Los Angeles 1984 e a quelle di Seul 1988. La sua carriera sportiva l’ha passata però vestendo la maglia della società Assi Giglio Rosso di Firenze. Dopo il ritiro dalla carriera agonistica ha aperto due palestre, una a Prato e una a Bologna, dove lavorano 12 dipendenti italiani.
“È un momento di rabbia e angoscia, ma noi siamo nati in un paese difficile. Noi sappiamo che l’Italia è bellissima ma ha difficoltà politiche e sociali. Sembra un paradosso, ma in questo momento forse abbiamo più paura della classe politica che dei cittadini. Dobbiamo trovare una soluzione, dobbiamo fare in modo che camminare per la strada non sia più pericoloso per noi e per nessun altro”, ci racconta mentre risponde ai cenni di saluto di molti suoi connazionali che lo riconoscono mentre passeggia nella piazza di Santa Maria Novella.
“L’integrazione è una cosa particolare, alla fine credo che il tessuto sociale italiano sia ancora vicino a noi e sia propenso all’accoglienza. Forse ci vorrebbe un cambio di marcia, gli immigrati dovrebbero tentare di fare politica ad alti livelli. Mi piacerebbe assistere a un’integrazione istituzionale, come in Francia, dove ci sono ministri e sottosegretari che hanno origini africane. Perché noi facciamo parte di questo paese, noi coloriamo l’Italia”.
Dalle voci del corteo di Firenze traspare una grande incertezza..”Io di questo paese mi fidavo ciecamente, ora ho paura quando mando i figli a scuola perché temo che non tornino a casa”, dice Nassira Kamara, mediatrice culturale originaria del Mali. Nel 2011 era a pochi metri dalla sparatoria che uccise i due cittadini senegalesi. “Quando ho sentito che era stato ammazzato Idy sono uscita prima dal lavoro. Ero molto scossa, perché 7 anni fa potevo essere io una della vittime. Eppure rimango fiduciosa. Dobbiamo sederci attorno a un tavolo, parlare, capire cosa è cambiato e come possiamo migliorarlo insieme. Qui noi viviamo, lavoriamo, studiamo, paghiamo le tasse. Anche noi siamo una parte d’Italia”.
In copertina: manifestazione a Firenze del 10 marzo 2018, qualche giorno dopo l’uccisione di Idy Diene sul ponte Amerigo Vespucci (fotografia courtesy Soufiane Malouni, come tutte le immagini di questo articolo)