L’eco della guerra e dell’esilio
I visitatori lasciano le giacche in quello che un tempo era il caveau della banca e salgono gli scaloni monumentali, attraversano l’atrio dai lucernari decorati, ed entrano a visitare la bella collezione di opere del Novecento delle Gallerie d’Italia. Lì li attendono le guide – italiani di seconda generazione, immigrati, stranieri residenti in Italia, tutte persone in stato di necessità economica che frequentano lo Sportello di Aiuto del Segretariato Sociale di Comunità Nuova, nella Zona 6 di Milano. Tre lati di questa piazza di Milano sono molto famosi: la quinta d’ingresso della Galleria Vittorio Emanuele unisce visivamente Palazzo Marino, sede del Comune, e il teatro alla Scala, uno di fronte all’altro. Lì, sul lato opposto all’ingresso della Galleria, meno conosciuto anche agli stessi milanesi, c’è l’ingresso delle Gallerie d’Italia, che occupano un corpo architettonico fatto di tre palazzi collegati fra di loro all’inizio del Novecento da Luca Beltrami – Palazzo Anguissola Antona Traversi, Palazzo Brentani e il Palazzo della Banca Commerciale Italiana. Il progetto di formare e retribuire stranieri come guide museali interculturali è nato nel 2015 col sostegno di Ubs, ed è arrivato al suo terzo percorso, dopo la mostra “Don’t Shoot The Painter” al GAM di Milano e la mostra fotografica Women: New Portraits di Annie Leibovitz. Qui alle Gallerie d’Italia, invece, altre sette guide straniere hanno realizzato nelle settimane precedenti un percorso nella parte del museo dedicata all’Ottocento, dal Canova a Boccioni.
Junior, un giovane uomo che viene dal Sudan, è a Milano dal 2005 e qui ha ottenuto la protezione umanitaria. Più tardi mi racconterà del lavoro, sempre precario, un po’ elettronica e manutenzione di computer, ma soprattutto sgomberi di appartamenti e locali. La nostra visita guidata dovrebbe cominciare da lui, e dall’opera di Alik Cavaliere che ha scelto, uno degli alberi di ferro ingabbiati dello scultore che ha avuto il suo laboratorio per tanti anni proprio a Milano. Ma quando i compagni lo vedono arrivare, puntualissimo ma trafelato dopo il lavoro, decidono di lasciare la sua presentazione in fondo al percorso perché possa riposarsi un momento. Mentre noi giriamo per le sale, lui ci aspetta per tutto il tempo accanto all’albero di ferro, la nuca sudata per la corsa, la maglietta a righe linda e stirata, e quando finalmente tocca a lui gli trema ancora la voce. Indica l’albero ingabbiato e dice, per me “questa è la libertà”. Alik Cavaliere era figlio di un chimico e poeta calabrese e di una scultrice russa ebrea, fuggita in Italia dopo la rivoluzione del 1917. Cresciuto a Roma e Parigi, arrivò a Milano nel 1938 e divenne una delle figure importanti che frequentavano l’ambiente dell’Accademia di Brera, dove succedette a Marino Marini alla cattedra di scultura per diventare poi direttore. Cavaliere lavorava coi metalli e le forme naturali, intrecciate con minuscoli oggetti, frutti, frammenti di specchio e piccole parti meccaniche. Junior spiega che vede in Alik “il saldatore”, e nella gabbia che racchiude l’albero “un carcere, e la pianta con le sue radici, che come gli esseri umani a volte per essere libera deve allontanarsi dalle sue radici”. A voce bassa si descrive come un timido che non ama la confusione perché gli ricorda la guerra, anche se ha molti amici. Dopo la visita mi dice che l’albero gli è piaciuto “da subito, ho sentito un’attrazione immediata anche se non avevo mai conosciuto prima il suo lavoro. In qualche modo mi toccava profondamente. Ancora non sapevo nulla della madre di Alik, che fosse a sua volta una profuga, l’ho saputo solo dopo. Ho continuato a ripensarci. La vita da esule che ha vissuto la madre di Alik è anche la vita che sto vivendo io. Quella di Alik è una storia potente, stupenda”. Junior pensa che un giorno, forse, tornerà in Darfur, ma solo in visita. “Non posso tornare. Non ho più i genitori. Mio fratello è stato ucciso. I cristiani vengono perseguitati”, dice scuotendo la testa. “Io so che le cose che raccontiamo del Darfur sono così terribili che quasi non si possono credere. Non esiste pace. Non ci si può esprimere, non si è mai al sicuro. Ho nostalgia, ma cerco di non pensarci. La vita adesso è qui”.
Dopo di lui, Nadia Cherouqi, marocchina, si ferma accanto a un’opera di Enrico Baj, e spiega di averla scelta per il suo disprezzo per la borghesia, e di averci visto il rovesciamento delle apparenze, del giudizio basato sull’esteriorità. Miriam Lifa, invece, ha 23 anni ed è nata e cresciuta in Italia. Ci porta nello spazio del colore, dell’informale e dell’astrattismo, e dell’informale materico della seconda metà del Novecento. Ci parla di Alberto Burri, del suo utilizzo di sabbia, pietra pomice, plastica bruciata, catrame, fiamma ossidrica – materiali ereditati dalla sua esperienza nella Seconda guerra mondiale. Miriam non lo dice, ma Burri, classe 1915, ufficiale medico, venne catturato dagli americani in Tunisia e poi portato in un campo di prigionia in Texas. “Nelle sue opere ho sentito un legame con le storie di guerra che mi raccontano i profughi con cui lavoro, e i loro bambini. Ci sento le domande che si facevano i miei genitori quando sono venuti in Italia dall’Algeria 23 anni fa. Grazie a Dio, qui hanno trovato delle risposte.” Si sposta poi verso le opere di Carla Accardi, trapanese, grande protagonista dell’astrattismo italiano, morta nel 2014. Davanti a una delle sue ripetizioni e variazioni sul tema “Verde rosso” dice che le ha subito ricordato le lettere arabe, e poi, a furia di osservarlo, più precisamente le decorazioni sui vasi e i tappeti nelle moschee. Sua sorella Sara, 22 anni, ha scelto invece “La ragazza che cammina” di Michelangelo Pistoletto: “per la sua malinconia mentre sembra riflettere su qualcosa”, ma anche perché, essendo l’immagine della ragazza riprodotta su una superficie a specchio, permette a Sara di essere con lei dentro l’opera – una delle intuizioni più potenti di tutta questa visita guidata.
Geanina nello spazio bianco
Geanina Pescariu ha una presenza magnetica, ci mostra l’angolo della galleria dedicato alle opere “bianche”, un intero spazio che raccoglie opere di diversi artisti, fra cui il greco naturalizzato italiano Jannis Kounellis, venuto a mancare solo un mese prima di questa visita. “Bianco”, dice, “aspirazione al vuoto, all’annullamento dell’immagine non in senso nichilista, ma nel senso dell’essenzialità che affiora in assenza di colore, come dice Piero Manzoni”. Le pieghe intrise di caolino dello stesso Manzoni, i tagli di Lucio Fontana nella tela con la garza nera sotto, tra assenza e presenza. Geanina presenta Jannis Kounellis e il suo campo quasi bianco e ondulato con figure isolate, le tele monocromatiche, e poi le estroflessioni e le variazioni sul tema dello spazialista Enrico Castellani, “illusioni ottiche in bilico fra pittura e scultura”. Infine, prima di raccontare qualcosa di sé, si ferma con grande dolcezza accanto a due figurine essenziali di Fausto Melotti che sembrano danzare insieme, “un lavoro forse superato nell’idea che la figura maschile fosse più alta di quella femminile, ma quello che ci vedo io è che alla base hanno due cerchi identici, e che la figura femminile cresce perché sostenuta dall’amore, o almeno io voglio pensare così”. Geanina dice ai visitatori che la ascoltano in silenzio di aver scelto quell’angolo del museo perché per lei il bianco è il colore dell’anima, e lo associa all’innocenza dei bambini e di sua figlia. Poi aggiunge: “il concetto di tela bianca, poi, di tabula rasa, per noi stranieri ha un significato particolare. Per noi venire qui ha significato ricominciare tutto da capo. Per quanto bella sia la nostra vita qui, ci porteremo sempre dietro un’ombra, una malinconia, perché perfino il più povero di noi ha lasciato qualcosa – una casa, un pezzo di terra, una madre”.
Alla fine della visita mi siedo con lei e sua figlia su una panca della galleria. Siamo come tre turiste, se non fosse che Geanina, romena, mi ha appena spiegato un pezzetto di arte contemporanea del mio paese. Lei è in Italia dal 2012, in Romania era preside di una scuola, ma ha deciso di partire per dare un’opportunità a sua figlia Maria, di 13 anni, che è autistica. Dopo un brutto divorzio e un periodo molto duro, oggi in Italia fa la badante. Sta riconquistando, dice, degli spazi di felicità insieme a sua figlia. Nell’autunno del 2015, quando era ancora in grandi difficoltà, ha partecipato al primissimo progetto, che era imperniato sulla mostra di ritratti femminili di Annie Leibovitz. “Mi sono detta che almeno facevo qualcosa che mi costringesse a vestirmi e truccarmi invece di restare in tuta. A volte mi sento veramente come Cenerentola”. Subito dopo l’esperienza con le foto di Leibovitz ha deciso di fare una vacanza a Firenze, dove ha visitato “tutti i musei che ho trovato aperti”. Mentre parliamo, Maria, seduta accanto a lei, mi fa un grande sorriso. “Mia figlia viene con me a vedere i musei, è una cosa che facciamo insieme, soprattutto quando la domenica c’è l’apertura gratuita. Cerco di portarla almeno una volta al mese, e le piace moltissimo”. Tra le mille cose che sono andate a vedere mi cita la mostra dedicata a Emilio Isgrò la scorsa estate, le sue “cancellature”. Perché il bianco, le chiedo? “L’ho sentito subito, l’ho scelto senza esitazioni. Ci ho trovato l’innocenza dell’eterno bambino e mi ha fatto pensare a mia figlia”. Qui hai trovato quello che cercavi per lei? le chiedo. “Sì, da quando siamo qui ha fatto molti progressi, penso che qui abbia possibilità che in Romania non avrebbe avuto”.
“Hai conosciuto Maria? Lo sai che qui in Italia va benissimo a scuola?”. È la prima cosa che mi dice Patrizia Cancelli di Connecting Cultures, che ha lavorato molto per organizzare questi percorsi. Perfino per lei è stata un’esperienza formativa. Pur avendo familiarità con l’arte, all’inizio la sfida di preparare queste persone l’ha intimidita. “Alla prima edizione del progetto ero terrorizzata”, ricorda ridendo,”mi hanno dato questa grande responsabilità ed erano tutti specialisti, professori”; in realtà, il suo stesso spaesamento l’ha avvicinata all’esperienza delle guide: “insieme volevamo che il progetto riuscisse, ci siamo raccontati tante esperienze, da quelle più terribili a quelle più divertenti, si è creata una grande empatia”.
Concludendo la visita, Lilly Eghert si è fermata davanti ai “Manichini in riva al mare” di De Chirico. Ci ha raccontato di De Chirico e Carrà che fondano la metafisica, e di aver visto nei due manichini “due persone, forse due alieni, in raccoglimento nel loro silenzio e nella loro immobilità, a tentare di risolvere l’enigma con cui tutti quanti nasciamo”. Patrizia sottolinea che in questo particolare percorso, la sperimentazione del Novecento e l’astrattismo hanno fatto sentire tutti liberi di spaziare con interpretazioni universali. “Il progetto in realtà si svolge in due parti. Nella prima avviene la loro formazione a contatto con gli spazi e con le opere, che scelgono senza saperne ancora nulla, e a volte senza avere molte nozioni di museologia o di linguaggi dell’arte. Pian piano emerge l’importanza dei musei nella vita quotidiana. All’inizio, prima che diventi un’esperienza più corale, di gruppo, chiediamo loro di scrivere in privato perché hanno scelto proprio quell’opera, da cosa sono stati attratti. Resto sempre molto stupita dai collegamenti che tracciano, dalle ragioni per cui scelgono la loro opera. Poi una volta fatta la scelta, si preparano su chi è l’artista, ed eventualmente sul movimento di cui fa parte. La seconda parte del progetto è quella aperta al pubblico”. L’obbiettivo del progetto è far acquisire loro alcuni elementi di curriculum come mediatore interculturale museale, una figura che Patrizia pensa diventerà sempre più importante.
Lo sguardo delle donne
In questo percorso, le guide sono prevalentemente donne – bianche, brune, sudamericane, velate, giovani, mature, arrivate da pochi anni o nate e cresciute in Italia. Sotto il loro sguardo risaltano le tracce degli esuli, le doppie nazionalità, la guerra, le naturalizzazioni, le influenze di altre culture nella sperimentazione italiana, la sua fisicità. Il primissimo percorso che hanno creato, due anni fa, è stato quello sulle fotografie di Annie Leibovitz, di cui molte non conoscevano prima il lavoro. Rappresentare le donne nella loro diversità, ha detto la stessa fotografa, era “un compito”, istigatole dalla compagna Susan Sontag, “ impossibile come quello di descrivere l’oceano”. Le neoguide hanno scelto Malala Yousafzai, la ballerina Misty Copeland, l’artista Shirin Neshat, una ragazza senegalese ha scelto uno scatto dell’icona del femminismo Gloria Steinem. Lilly ha scelto un’immagine dell’attrice Lupita Nyong’o, commentando su come le donne sono diventate passive nelle battaglie per i loro diritti e su come vada messa in discussione l’immagine troppo omogenea di donna desiderabile. Geanina ha scelto uno scatto di Gwyneth Paltrow con la madre Blythe Danner che la sostiene da dietro. “A un certo punto alla mostra si è cominciato a discutere” ricorda Patrizia, “e allora la nostra Ettorina ha raccontato loro la storia del ’68 e del movimento femminista italiano; per molte è stata una scoperta ed è nata una bella discussione; alcune donne arabe hanno raccontato il loro movimento degli anni Ottanta, di cui le più giovani non avevano mai sentito parlare. Dopo la mostra, una giovane araba di 22 anni con due figlie piccole, che aveva abbandonato gli studi per sposarsi, ha deciso di riprendere a studiare”.
Qui, fra le opere più rivoluzionarie e dirompenti dell’arte italiana, il museo si dimostra un luogo prontissimo alla sfida dell’incontro, e in un certo senso sono i visitatori con la loro cultura a sentirsi specchiati e trasformati dallo sguardo delle guide migranti. “È un’esperienza”, dice Patrizia, “che da un lato esalta la dimensione dello spazio d’arte come servizio per la città; dall’altra se ci pensi ci costringe a guardare l’opera dei nostri artisti da un’angolatura diversa. Rende il nostro Novecento molto relativo, cambiando la narrazione assoluta”.
In copertina: Sara Lifa, nata in Italia da genitori algerini, spiega “La ragazza che cammina” di Michelangelo Pistoletto alle Gallerie d’Italia, riflettendosi nell’opera (foto: Marina Petrillo).