Ali ha lo sguardo vispo, sta in piedi e guarda dritto davanti a sé quando il rhib della Humanity 1, la nave umanitaria dell’ong tedesca Sos Humanity, arriva a soccorrere il barchino in cui si trova con altre 75 persone. Ali (nome di fantasia) ha 14 anni ed è fuggito dall’Egitto con suo cugino per raggiungere il padre in Italia, non avendo la possibilità di ricongiungersi a lui per vie legali. Parla poco e resta in disparte sul deck della nave in viaggio verso Ortona, il porto di sbarco assegnato dalle autorità italiane. Non si sa molto di lui e del cugino, solo che prima di partire sono stati da soli per quattro lunghi mesi in Libia.
“Sono stato per 75 giorni rinchiuso in una stanza senza finestre e senza luce. Non ho sentito i miei genitori per due mesi e mezzo e la prima volta che li ho risentiti è stato mentre le milizie libiche mi stavano torturando per ricattarli, e obbligarli a pagare i trafficanti per farmi uscire da quella prigione”, racconta Sheif, diciannovenne egiziano, anche lui a bordo della Humanity 1. “Ho provato due volte ad attraversare il Mediterraneo, ma la prima volta la guardia costiera libica ci ha riportati indietro. Quando ho visto arrivare i gommoni di Sos Humanity ero terrorizzato avevo paura che si trattasse dei libici”, racconta.
“Io invece ho provato sei volte a raggiungere le coste italiane – interviene Ahmed, 24 anni, anche lui egiziano – per cinque volte la guardia costiera libica mi ha riportato indietro e riconsegnato alle mani dei trafficanti. La Libia è un posto terribile, ma non ho avuto altra scelta che quella di partire da lì. Tornare in Egitto per me significa morire”.
“Ero innamorato di una ragazza cristiana – continua Karim, giovane egiziano di 28 anni – in Egitto è un grave problema per le famiglie di appartenenza convertirsi ad un’altra religione. Sono stato costretto a fuggire dalla mia città perché la famiglia di lei voleva uccidermi. Per un po’ mi sono nascosto poi ho capito che se restavo lì mi avrebbero trovato e ucciso. Così mi sono affidato ai trafficanti per raggiungere la Libia. Quando mi hanno rapito ho capito che rischiavo di morire anche lì. Sono stato un mese e 25 giorni rinchiuso in una stanza in cui ci stupravano di fronte agli altri rifugiati, ci torturavano mentre chiamavano i nostri parenti per chiedergli i soldi del riscatto. Ho perso metà del mio peso, per tutto quel tempo non ho mai visto la luce del sole”.
Durante i primi due giorni dopo un salvataggio, i sopravvissuti dormono, mangiano e recuperano le energie perse in mare. Nel giro di poche ore poi tutto cambia. “Siamo salvi, l’ho realizzato quando ci avete dato il primo pasto caldo”, dice Karim. L’umore migliora velocemente e l’entusiasmo di vedere la terraferma in lontananza si trasforma in canti e balli di gioia. Così trascorre il tempo sulla nave, tra lezioni di italiano, canti, pittura e ascolto, storie che probabilmente nessuno aveva ancora mai ascoltato emergono finalmente, incoraggiate dalla fiducia e dal sollievo di sentirsi al sicuro. Essere presenti in un momento così particolare della vita di persone che non hai mai visto prima è un delicato esercizio di empatia, un incontro di rispetto e dignità. Per molti di loro il tempo in nave è rinascita, è l’inizio di una nuova vita di cui ancora non sanno niente, e a bordo di una nave umanitaria le operatrici e gli operatori sono le prime persone che entrano a far parte di questa nuova esistenza.
“Dopo tanto tempo da sola, per la prima volta sono con altre donne. Sento che sta iniziando la mia nuova vita. Ricordo che in Libia non bevevo quasi mai per evitare di dover andare in bagno, ero rinchiusa in una stanza con soli uomini e un bagno senza porte”, dice Jamila, gli occhi brillanti e il sorriso tenero di chi ce l’ha fatta. Jamila è di Gaza, il suo viaggio è iniziato quando era appena adolescente. E’ scappata da un matrimonio forzato, attraverso il valico di Rafah, da Gaza ha raggiunto l’Egitto, dove è stata detenuta per venti giorni alla fine dei quali è tornata in Siria, la terra che aveva lasciato all’età di due anni. In Siria, però, è scoppiata la guerra. “Ricordo il giorno in cui ho deciso di provare a raggiungere l’Europa. Mi sarei dovuta diplomare ma quel giorno mi hanno sparato all’uscita del campo profughi siriano in cui vivevo, da lì la situazione ha cominciato a peggiorare sempre di più. Sono arrivata in Libia a maggio di quest’anno”, continua Jamila, seduta dentro il women’s shelter, lo spazio della nave riservato a sole donne. ”Ho provato due volte ad attraversare il Mediterraneo, ma la prima volta i libici mi hanno presa e portata in prigione. Non consiglierei mai ad altre donne di intraprendere il mio stesso viaggio, ma neanche agli uomini. Ho sentito uomini piangere dal dolore quando stavo richiusa nelle case dei trafficanti e poi in prigione in Libia”.
Nel women’s shelter con Jamila si trovano altre otto donne, tutte siriane. Tra loro Fida, una delle prime persone che è salita sul rhib giovedì scorso. “Prendete mio figlio! Prendete mio figlio, è disabile”, urlava incessantemente dal gommone di Humanity 1.
“Ricordo ancora come se fosse oggi il momento in cui ho pregato Dio di farci morire – racconta Fida – sono scappata dalla Siria da sola con i miei 5 figli, con un bimbo appena nato e uno disabile. Ho provato ad attraversare il Mediterraneo otto volte, una delle ultime volte ho creduto davvero che non ce l’avremmo fatta. Ricordo che la barca con 400 persone su cui ci trovavamo ha cominciato ad imbarcare acqua e nel momento in cui si stava ribaltando sono stata costretta ad immergere ad uno ad uno i miei figli nel mare sperando si salvassero. Ricordo che al mio figlio più piccolo batteva così forte il cuore da poterlo sentire fuori dal petto”. Il viaggio di Fida è iniziato nel 2012, dalla Siria alla Giordania fino in Libia. Un viaggio infinito fatto di violenze e abusi, su di lei e sui suoi figli. “Quando ho deciso di lasciare la Giordania non provavo più emozioni, avevano rapito due dei miei figli e provato a stuprarli. Ero così piena di dolore che mi sembrava di non provare più niente”, continua abbracciando il figlio Karem, anche lui a bordo della Humanity 1. “Da quando sono a bordo ho finalmente ricominciato a dormire, per la prima volta mi sono addormentata profondamente senza pensare a proteggere i miei figli”, conclude.
Anche Marwan e Lusi sono andate via dalla Siria per raggiungere la Libia. “Ci hanno tratte in inganno promettendoci un lavoro dentro l’ospedale Al Jazeera di Misurata, in realtà ci hanno rinchiuse lì dentro, hanno ritirato i nostri passaporti e hanno cominciato a chiederci prestazioni sessuali, per avere un aumento dello stipendio. Abbiamo provato a chiedere il licenziamento e a riavere i nostri documenti ma ce l’hanno vietato. Dopo due anni lì dentro abbiamo deciso di fuggire in Europa senza passaporto”. Marwan è un’ostetrica, Lusi invece è un’ingegnera. “Abbiamo lasciato in Libia i nostri passaporti ma non ci interessa, la nostra vita è più importante. Se sei una donna che decide di affrontare il viaggio da sola, diventi automaticamente merce con un prezzo, chiunque proverà a comprarti”. “Spesso mi sento incredula di essere riuscita ad affrontare tutto ciò da sola” – continua Lusi – “quando abbiamo visto arrivare la vostra nave ci siamo sentite felici, abbiamo capito subito che ci stavamo lasciando tutto alle spalle”
Intanto la giornata volge al termine e l’equipaggio si prepara a vedere un film con i sopravvissuti, tutti insieme sul deck per l’ultima sera dentro quest’isola lontana dal tempo e dallo spazio. Un luogo sicuro in mezzo al cimitero del Mediterraneo.
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Immagini. Le foto di copertina e dell’articolo sono di Lidia Ginestra Giuffrida