L’inviato Onu Ghassan Salamè promette che la Libia avrà le sue elezioni nel 2018. Il ministro dell’Interno italiano Marco Minniti procede a spron battuto con il “Minniti compact” – accordi con le milizie, istituzione di una zona Sar libica, riduzione dell’intervento delle Ong, accordi con le tribù del Sud – che porta al calo del 32 per cento degli sbarchi in Italia nel 2017. La Libia, raccontano all’opinione pubblica ministri e commissari da Roma e Bruxelles, sta uscendo dalla crisi. Le denunce di violazioni dei diritti umani ci sono perché, dopo anni, le organizzazioni internazionali riescono a entrare nelle prigioni e a “evacuare” i migranti.
Ma sono solo istantanee della stabilizzazione apparente.
La verità è che il piano di cooperazione Italia-Libia procede con difficoltà; che il Trust Fund europeo – il fondo fiduciario composto da denaro della Commissione europea, stati membri e altri donatori – è sottofinanziato; e che dagli organismi internazionali arrivano senza sosta condanne per le complicità con chi viola i diritti umani in Libia. Il governo sostenuto dalle Nazioni Unite guidato da Fayez al-Serraj non regge l’urto del caos libico e di conseguenza non esistono istituzioni credibili, a livello nazionale come a livello locale, con cui dialogare.
Unione europea e Italia stanno inondando la Libia di fondi per la cooperazione internazionale per coprire il vuoto politico e diplomatico che c’è nel paese, nella speranza che i soldi accelerino la fine della crisi. Ma l’effetto potrebbe essere l’esatto contrario.
La Libia è sempre più in guerra
La possibilità di indire elezioni a Tripoli passa da Khalifa Haftar, il generale ribelle a capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl), e dall’esecutivo appoggiato dalle Nazioni Unite guidato da Fayez al-Serraj. I due governi de facto del paese. Se in Cirenaica, la Libia orientale, comanda l’Enl, in Tripolitania, a ovest, dove gli interessi italiani sono più forti, non ci sono padroni. Qui gli aiuti economici hanno accentuato situazioni di crisi e innescato nuovi conflitti.
A Sabratha, città famosa come porto di partenza di molti migranti, il clan dei Dabbashi è stato sconfitto da Operation room fighting Isis (ORfIS), una missione anti-Isis che si dichiara neutrale nel conflitto. Secondo La Stampa, il generale ribelle Haftar starebbe cercando di reclutare sostenitori tra le milizie che combattono insieme alla ORfIS per guadagnare terreno nell’ovest del paese. Secondo diverse ricostruzioni giornalistiche, prima dell’estate i Dabbashi hanno ricevuto denaro dall’Italia per fermare i flussi migratori. “Gli scontri nell’area sono sottoprodotti dell’interferenza italiana”, ci spiega Jalel Herchaoui, ricercatore dell’Università di Parigi VIII specializzato in Libia.
A Sud, nel Fezzan, la regione in cui è nato il mito di Gheddafi, la promessa di ingenti aiuti economici potrebbe avere lo stesso effetto destabilizzante. Lo dimostra in particolare un episodio: dopo tre anni di chiusura, il 18 novembre l’aeroporto internazionale delle città principale, Sabha, ha ricominciato a funzionare. Dodici giorni dopo, alcune milizie Tebu, tradizionalmente Guardie di frontiera con il Niger, l’hanno occupato senza sparare un colpo. Dal 4 dicembre sono in corso le trattative per far ripartire i voli, con la municipalità che vuole che i miliziani se ne vadano e il governo che preme perché l’aeroporto torni attivo. I Tebu sono fra le tribù alle quali Minniti, in due incontri avvenuti ad aprile e ad agosto, aveva promesso aiuti economici in cambio di collaborazione per combattere i trafficanti di uomini e come risarcimento per le vittime delle guerre in corso con Awalad Suleyman, Tuareg e altre tribù della regione dopo la caduta di Gheddafi. È possibile che l’occupazione dell’aeroporto sia un messaggio destinato all’Italia affinché mantenga la parola data: “alcune fonti sostengono che alla Banca centrale di Tripoli ci siano conti correnti apposta per i loro pagamenti”, dice ancora Herchaoui, “ma al di là di questo, non ci sono elementi che indichino un effettivo flusso di denaro [dall’Europa]”.
La nuova zona libica di ricerca e soccorso
Anche in mare la stabilità libica è apparente. “Stiamo cercando di aiutare la ricostruzione della zona di ricerca e soccorso libica [Sar], anche addestrando la Guardia costiera libica”, ha spiegato ai microfoni di Radio Radicale il ministro dei Trasporti Graziano Delrio. In teoria, i libici hanno una loro Sar dal 10 luglio, quando le autorità di Tripoli hanno notificato l’esistenza di una Search and rescue region (Srr), comprensiva di varie Sar, all’Organizzazione marittima internazionale (Imo), un’istituzione legata all’Onu che promuove principi e regole di navigazione comuni nel mondo. Da agosto, la base operativa dei libici è a bordo della nave Tremiti della Marina italiana, ormeggiata nel porto militare di Tripoli. L’ufficio stampa di Imo ci spiega che il 10 dicembre gli stessi libici hanno ritirato la notifica della Srr. Il 12 dicembre, rivela il giornalista Sergio Scandura, la notifica è stata comunicata al capitano di vascello Giampaolo Bensaia, responsabile dell’ufficio marittimo dell’Ambasciata italiana a Londra e vice rappresentante italiano all’Imo. Dato il suo ruolo, sembra quindi probabile che Bensaia sia proprio uno dei facilitatori della Srr libica. La notifica libica aveva “problemi tecnici” mai specificati dall’Imo ma probabilmente legati all’estensione della Srr o alla disponibilità dei mezzi per i soccorsi in mare. Questi problemi non sono mai stati risolti dalle autorità libiche. Eppure, il 19 dicembre l’ufficio stampa dell’Imo ci ha informato che è stata depositata dalla Libia una nuova notifica Srr. Cosa è cambiato in questi pochi giorni? Ci saranno nuovi “problemi tecnici”? Viste le parole di Delrio, la base operativa a bordo di nave Tremiti e le informazioni sulle sorti della Srr che passano dal capitano Bensaia, è evidente che la Libia potrà avere una zona di soccorso solo se ci sarà anche l’Italia a co-gestirla.
Italia vs Europa, Viminale vs Farnesina
Rispetto agli altri concorrenti europei, l’Italia ha un vantaggio “storico” in Libia. Prima ex colonia fascista, poi paese ostaggio di un grande alleato di Silvio Berlusconi, oggi la Libia continua ad avere rapporti militari ed economici privilegiati con l’Italia. Ma questo rapporto è messo in discussione dalla Francia, che per prima ha allacciato rapporti con Haftar, e che dall’insediamento di Emmanuel Macron cerca di costruire un tavolo di negoziati “alternativo” a quello italiano. Insieme a Germania e Olanda, Francia e Italia sono stati i primi paesi europei a contribuire al fondo Onu per le elezioni libiche. Il Promoting Elections for the People of Libya (Peopl) oggi vale 3,15 milioni: 1,65 versati dai Paesi Bassi, uno versato dalla Germania, 200 mila euro dalla Francia e i restanti 275 mila dall’Italia, annunciati dal Ministro degli Esteri Angelino Alfano il 7 dicembre.
Il titolare della Farnesina è uscito così da un letargo diplomatico sulla Libia che durava da quando Marco Minniti ha preso quello che era il suo posto al Viminale. La gestione dei negoziati, nonostante si tratti di affari esteri, è in mano al Ministro dell’Interno. Il “Minniti compact” prevede un ruolo decisivo per la cooperazione, che in teoria è materia della Farnesina. La cooperazione è così chiamata a colmare i vuoti lasciati dalle istituzioni libiche. In quest’ottica, le Ong e le agenzie internazionali che intervengono con soldi italiani sono una leva per l’Italia per pesare di più sul piano internazionale. Mentre il Viminale negozia, la Farnesina paga, attraverso l’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo (Aics), organismo istituito con la riforma della legge sulla Cooperazione. Secondo i dati in nostro possesso, aggiornati a settembre, per la cooperazione allo sviluppo nel solo 2017 l’Italia ha erogato in Libia 11,4 milioni di euro, tra fondi bilaterali e multilaterali, di emergenza e per gli stati fragili. A questi se ne aggiungono altri 8,5 in fase di elaborazione.
I soldi per la cooperazione
Il piano di Minniti non tiene conto che parte delle Ong italiane non partecipa ad alcuni progetti di cooperazione perché li considera una legittimazione dei campi di detenzione libici. Tra i bandi più discussi ce n’è uno da 4,2 milioni di euro per entrare nei centri di detenzione di Gharyan, Sabratha, Zwara, Khoms e Garabulli, a cui se ne aggiunge un secondo da 2 milioni di euro, il cui avvio è “imminente” per la Farnesina, con l’obiettivo di assistere i migranti nei tre centri di detenzione di Tarek al Sika, Tarek al Matar e Tajoura, a Tripoli. Alcune Ong, tra cui Cospe e Terre des hommes, ci confermano che hanno scelto di non parteciparvi. Quelle due assenze sono particolarmente significative, visto che – insieme a Cesvi, Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), Comitato europeo per la formazione e l’agricoltura (Cefa), Gruppo di volontariato civile (Gvc) – si tratta delle Ong italiane che si trovano in Libia da più tempo. Nel Fezzan, altra pedina chiave della strategia “minnitiana”, l’Aics dal 2016 finanzia con 2 milioni di euro un progetto umanitario nelle città di Ubari e Sabha. Qui sembra che il lavoro funzioni: “I finanziamenti sono stati assegnati per l’importo di 1,5 milioni”, ci spiega la Farnesina via email, mentre altri 500 mila euro sono stati destinati alla distribuzione di beni di prima necessità (medicinali, piccoli equipaggiamenti) all’Ospedale pediatrico di Tripoli.
Non è chiaro però quante siano nel complesso le municipalità coinvolte in progetti umanitari dall’Italia. In un documento della Commissione europea del 6 settembre sullo “State of play” della crisi migratoria si fa riferimento a “sforzi italiani” finalizzati a “continuare a promuovere lo sviluppo di comunità locali attraversate dalle rotte migratorie, per migliorare le loro condizioni socio-economiche e creare alternative fonti di profitto, in linea con i progetti di cooperazione con 14 municipalità libiche”. Quali sono queste municipalità? Il Viminale, cioè il ministero che guida i negoziati con i sindaci libici, ha glissato la domanda. La Farnesina ci ha invece risposto che “l’elenco è ancora in via di definizione” e che la tipologia dei progetti cambierà “in relazione alle esigenze manifestate e in stretto coordinamento con il Consiglio Presidenziale (Cp) del Governo di Accordo Nazionale (Gan)”, ossia il governo di Serraj. Sempre che il premier libico resista.
L’altra parte dei finanziamenti alla cooperazione arriva dal fondo fiduciario Africa-Europa, il cui futuro è sempre più incerto. Il fondo è molto criticato dalle Ong, perché privilegia progetti incentrati sulla sicurezza o sulla repressione, piuttosto che sullo sviluppo. Lo hanno denunciato in tanti, tra cui Concord e Cini, con un rapporto uscito a novembre. Tra i progetti “securitari” ce n’è uno, valore 42,2 milioni di euro, gestito dal Ministero dell’Interno italiano (e non dall’agenzia della cooperazione come avviene per gli altri paesi europei). I suoi obiettivi sono quattro: rafforzare le autorità marittime libiche nelle attività di sorveglianza e di lotta all’immigrazione irregolare, migliorare i salvataggi nella zona Sar libica, progettare un suo centro di coordinamento a Tripoli e creare un sistema di sorveglianza delle frontiere a terra. A beneficiarne sarà soprattutto la Guardia costiera libica, la stessa che non è in grado di gestire la zona Sar e che Amnesty International accusa di collusione con i trafficanti di uomini.
In copertina: Faiez Mustafa Serraj, Presidente del Governo di Accordo Nazionale in Libia, parla al Consiglio Onu per i Diritti Umani (foto: Anne-Laure Lechat CC BY-NC-ND 2.0)