Che differenza c’è tra un clandestino e un richiedente asilo? Tra un lager e un centro d’identificazione per migranti? Più o meno la stessa differenza che passa tra una deportazione e un rimpatrio volontario: la retorica di un linguaggio abusato.
È su questa linea che Margaritis Schinas, Vicepresidente per la Promozione del nostro stile di vita europeo, e la Commissaria per gli Affari interni Ylva Johansson hanno annunciato a fine aprile a Bruxelles la “nuova strategia UE sui rimpatri volontari e la reintegrazione”. Gli elementi di novità riguardano la messa in pratica di una politica già ben consolidata in tutti i Paesi dell’Unione: rafforzare la pratica dei respingimenti, ledere i diritti delle persone migranti.
Che questo punto fosse la colonna portante dell’attuale Commissione EU in materia di migrazioni, l’aveva già chiarito Ursula von der Leyen alla presentazione del New Pact on Migration and Asylum lo scorso settembre. Ciò nonostante è con una sorta di ammissione di colpa che viene presentata la nuova strategia: “Appena un terzo circa delle persone che non hanno il diritto di soggiornare nell’UE rientra nel proprio paese d’origine e meno del 30% di chi lo fa agisce di sua spontanea volontà”, dichiara Johansson. Stando ai dati ufficiali erano stati circa mezzo milione i “migranti irregolari” che nel 2019 dovevano lasciare l’Unione europea, di questi nei fatti solo 142mila l’hanno fatto. Per colmare questo divario si intensificano ora i rimpatri volontari: si presume che i migranti siano consenzienti e questa pratica quindi più efficace. Anche il fattore economico è però rilevante: secondo le stime del Parlamento europeo deportare qualcuno con la forza costa 3.414 euro, rispetto ai circa 560 euro che occorrono se la persona va via volontariamente.
Con questa somma si finanziano i voli verso i paesi di provenienza dei migranti così come vari incentivi previsti, economici e non, per la reintegrazione nel paese di provenienza. Queste misure di sostegno però esistono già, sono altri e dal carattere più coercitivo gli strumenti che la Commissione europea ha deciso ora di attuare.
Rimpatrio “volontario” o senza alternative?
È difficile immaginare che una persona migrante abbia intenzione di intraprendere un viaggio di ritorno, dopo aver molto spesso messo a rischio la propria vita, subito violenze e investito tutti i propri averi per raggiungere l’Unione europea. La situazione cambia se però gli viene imposto: “A una persona che non ha il diritto di soggiornare nell’UE è generalmente concesso un periodo per la partenza volontaria, variabile di norma dai 7 ai 30 giorni, durante il quale dovrebbe rimpatriare volontariamente in ottemperanza alla decisione di rimpatrio”, è la spiegazione della Commissione europea in merito.
Ancora più attraente può essere il rimpatrio volontario per chi si trova bloccato ai confini dell’UE: in definitiva quasi l’unica alternativa percorribile. La Commissione EU propone infatti l’introduzione di procedure di frontiera ad hoc la cui applicazione seguirà direttamente lo svolgimento delle procedure d’asilo: l’assenza di collegamento tra procedura asilo e di rimpatrio è per Bruxelles uno dei maggiori punti di debolezza da sanare per una gestione efficace del fenomeno migratorio.
Al centro dell’operazione c’è la privazione della libertà a cui vengono sottoposti i migranti: “si propone di stabilire che un cittadino di paese terzo già trattenuto durante l’esame della sua domanda di protezione internazionale nell’ambito della procedura di asilo alla frontiera possa continuare ad essere trattenuto per un periodo massimo di 4 mesi nell’ambito della procedura di frontiera per il rimpatrio. Se la decisione di rimpatrio non è eseguita durante tale periodo, il cittadino di paese terzo può essere ulteriormente trattenuto”, scrive la Commissione nella proposta. Secondo l’Ong Statewatch i migranti registrati ai confini europei potrebbero essere così soggetti a una detenzione prolungata fino a 10 mesi prima che avvenga il rimpatrio, senza possibilità di ricevere assistenza legale esterna: “bloccati e senza opzioni”, denuncia secca la no profit britannica.
Frontex: “l’Agenzia europea dei rimpatri”
“Frontex sarà l’Agenzia europea dei rimpatri” ha dichiarato Margaritis Schinas annunciando che l’Agenzia assumerà un nuovo direttore esecutivo per gestire le operazioni di rimpatrio. Dal momento che Frontex opera già da tempo deportazioni per conto dei vari Paesi membri dell’UE, è chiaro che la necessità di una figura di riferimento ad hoc è dovuta proprio alla crescita delle operazioni in programma.
La volontà di estendere le mansioni di Frontex riceve critiche da più parti: “è del tutto irresponsabile da parte della Commissione europea dare a Frontex maggiori poteri sulle deportazioni proprio nel momento in cui sono indagate per coinvolgimento in respingimenti illegali di migranti”, dichiara al riguardo Ludovic Voet, Segretario generale dell’European Trade Union Confederation. Nel mirino ci sono vari push-back illegali di migranti nel Mar Egeo, dalla Grecia alla Turchia, dove è stato denunciato il coinvolgimento diretto e non dell’Agenzia. Secondo una recente inchiesta del Guardian la pratica dei respingimenti diretti sembra aver assunto una dimensione ancora più ampia con lo scoppio della pandemia di Covid-19: secondo il quotidiano britannico sarebbero circa 40mila le persone respinte alle frontiere esterne europee, di cui 2mila avrebbero così perso la vita – anche in questi casi l’operato di Frontex è sotto accusa.
Nonostante le critiche è in partenza proprio nel mese di maggio il primo progetto pilota dell’Agenzia all’interno della “nuova strategia”. Fino a marzo 2022, in collaborazione con le autorità tedesche, Frontex si occuperà di rimpatriare migranti presenti in Germania verso Etiopia, Armenia e Ucraina.
Intensificare il “tasso di rimpatrio”: gli accordi con i paesi terzi
Senza accordi di riammissione con i Paesi di provenienza è impossibile portare a termine i rimpatri volontari, perciò è su questo punto che si concentrano ora gli sforzi diplomatici delle istituzioni europee. La Commissaria per gli Affari Interni sta lavorando per negoziare nuovi accordi e rafforzare quelli già in vigore, al momento sono 24 gli Stati che cooperano stabilmente con l’Unione.
Più in generale la Commissione sta valutando il livello di cooperazione nelle procedure di riammissione da parte di 39 Paesi extracomunitari, ai cui cittadini è richiesto un visto per entrare nell’UE. Anche se le varie trattative andranno avanti a lungo, è chiaro che legando la cooperazione in materia di riammissione alla possibilità di rilascio dei visti d’ingresso l’Unione europea ha già compiuto un passo fondamentale per assicurarsi una posizione di vantaggio.
La spinta ad aumentare il tasso dei rimpatri è chiara: “qualora la Commissione ritenga che un paese terzo non collabori a sufficienza, la Commissione propone al Consiglio di adottare una decisione di esecuzione che applichi restrizioni specifiche relative al trattamento dei visti ed eventualmente un canone per il visto più elevato”, si legge nella nota di Bruxelles. Per i Paesi “virtuosi” sono previste invece agevolazioni in tal senso.
“L’ossessione dei rimpatri”
È facile immaginare che una volta ottenute determinate quote di riammissione da parte dei paesi d’origine, l’UE si impegni a farle fruttare al meglio, respingendo quanti più migranti possibile. Nel suo ultimo report “L’ossessione dei rimpatri”, l’Ong Euromedrights prende in analisi proprio i pericoli a cui vengono esposti i singoli migranti deportati verso Paesi come l’Egitto o ad esempio verso la Turchia, rischiando un ulteriore respingimento a catena verso la Siria. E nonostante la Siria sia ancora oggi un Paese in guerra la Danimarca ha deciso lo scorso aprile di non rinnovare lo status di rifugiati a 189 cittadini siriani: non sembra esserci limite all’ossessione dei rimpatri.
Foto di copertina di Pascal Müller via Unsplash