Nel cuore di Bihać, capoluogo del cantone di Una-Sana, i migranti li incontri un po’ ovunque: si ritrovano a piccoli gruppi alla stazione degli autobus o nei parchi che colorano di verde questa bella cittadina bosniaca bagnata dal fiume Una. E da lì partono, a piedi, verso il confine croato distante una manciata di chilometri oltre il fiume e le montagne. “Vedi hanno i guanti e lo zaino in spalla, questi sono appena arrivati con il treno in città per tentare la via delle montagne”, mi confida Silvia Maraone, responsabile dei progetti dell’ONG Ipsia e della rete Caritas lungo la Balkan Route. Con sé portano poche cose: qualche vestito pesante, uno smartphone per tenere i contatti con chi è già andato avanti e per orientarsi tra le montagne, qualcosa da mangiare. Ai piedi molti portano scarpe pesanti o scarponcini, quanto mai necessari per camminare giorno e notte su sentieri ancora – in alcuni tratti – coperti di ghiaccio e neve.
Inizia da questo incontro furtivo il mio viaggio a Bihać, città diventata negli ultimi dodici mesi la nuova frontiera calda d’Europa. Lo dimostra la decisione presa a dicembre da Frontex, Agenzia europea delle frontiere, di inviare al confine croato alcuni agenti a sostegno delle guardie locali.
“Nonostante l’accordo tra Turchia e Unione europea del marzo 2016 – spiega Maraone – la Rotta Balcanica, pur ridotta nei numeri, continua ad essere percorsa. Attualmente la pressione è soprattutto sulla Bosnia e su Bihać in particolare, ma le decisioni politiche prese nel cantone e l’inizio dei trasferimenti dei migranti dalle zone di confine verso Sarajevo potrebbero portare i migranti a spostarsi altrove. E questo, unito al continuo processo di esternalizzazione delle frontiere da parte dell’Ue, rischia di alimentare le tensioni qui come altrove”.
La via bosniaca
A certificare come nel 2018 si sia assistito ad un cambio consistente nei flussi dei migranti lungo la Rotta Balcanica è un recente rapporto pubblicato dall’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (IOM). I dati confermano quanto chi opera sul campo ha intuito già da tempo: nel tentativo di aggirare i controlli lungo la frontiera serbo-croata e serbo-ungherese i migranti hanno iniziato a spostarsi verso i Balcani occidentali puntando in particolare verso la Bosnia Herzegovina. Delle 31.892 persone transitate dai Balcani occidentali nel corso del 2018 ben 23.848 sono stati registrati proprio in Bosnia, un numero venti volte superiore a quello registrato nel 2017. Si tratta principalmente di pakistani (33% degli ingressi), seguiti da iraniani (15%), siriani (12%), afgani (12%) e iracheni (9%).
Particolarmente curioso è stato proprio il caso degli iraniani il cui numero di arrivi è cresciuto esponenzialmente dall’agosto del 2018 a seguito della decisione del governo di Belgrado di togliere l’obbligo del visto per l’ingresso nel Paese. Una decisione revocata nel mese di ottobre (su pressione anche dell’Unione europea) dopo che 15 mila iraniani erano arrivati per via aerea in pochi mesi.
La maggior parte dei migranti e rifugiati in arrivo nel cantone di Una-Sana arriva dalla Serbia, ma è in crescita il numero di quanti entrano in Bosnia dal Montenegro, risalendo i Balcani dalla Grecia attraverso Albania e Kosovo. Una volta arrivati qui i migranti puntano verso le città di confine, verso Bihać e Velika Kladusa dove la situazione è diventata sempre più critica negli ultimi dodici mesi, tanto che le autorità del Cantone di Una-Sana, all’inizio di febbraio, hanno deciso di bloccare gli arrivi di migranti nel tentativo di ridurre la pressione nei quattro centri esistenti: i centri Bira e Borici a Bihać, il Miral a Velika Kladusa e l’Hotel Sedra a Cazin.
Ad un anno dai primi arrivi
“Ricordo ancora i primi arrivi a febbraio dello scorso anno. Erano poco più di una decina arrivati in bus e accampati per strada”, ci racconta Greta Mangiagalli, operatrice di Ipsia da oltre due anni in città. “Nel giro di poche settimane – continua Greta – il numero era già salito a qualche centinaio, ma nessuna autorità locale sembrava interessata ad intervenire. La prima a muoversi è stata la Croce Rossa locale che si è fatta carico dei pasti mentre noi, come Ipsia BIH, abbiamo allestito un piccolo info point per cercare di capire i bisogni e dare alle persone in transito un minimo di orientamento”. Non essendoci un centro attrezzato le persone furono sistemate al Borici, un vecchio studentato universitario finito in disuso, posto su una piccola collina non distante dal centro città. “La situazione era davvero terribile – continua Greta – i migranti, tra cui molte famiglie, si erano accampati nella struttura e nella collina circostante che era interamente piena di tende. Nell’edificio non c’erano riscaldamenti, né corrente, c’erano buchi dappertutto. Era un posto davvero pericoloso soprattutto per i bambini per via dei detriti e delle strutture pericolanti. Ad entrare ora nella struttura, ristrutturata dalla IOM, sembra incredibile”.
Le autorità bosniache, sia cantonali che federali, hanno sempre rifiutato di farsi carico della crisi demandando completamente l’assistenza dei migranti alla stessa IOM, sostenuta da ONG nazionali e internazionali. È così che, per far fronte al costante aumento degli arrivi, l’agenzia delle Nazioni Unite ha aperto nell’autunno scorso il campo Bira, all’interno di una vecchia ditta abbandonata di frigoriferi che si estende su una superficie di oltre ventimila metri quadrati nel centro della città. Questo ha permesso il progressivo svuotamento del Borici che è stato successivamente ristrutturato e destinato, a partire da gennaio 2019, all’accoglienza di famiglie. “Attualmente le persone ospitate sono 148 e non possiamo accoglierne di più per via di alcuni problemi di allacciamento alla corrente elettrica”, ci confida Amira Hadžimehmedović, la referente per la IOM del Borici. “Ma una volta risolti questi problemi, speriamo presto, – precisa – e con la posa di alcuni container nell’area circostante la struttura porteremo ospitare oltre cinquecento persone, con una prevalenza per famiglie, donne e minori stranieri non accompagnati che verranno trasferiti dal Bira”.
La referente non lo dice, ma dietro questa decisione vi è il pessimo stato in cui versa proprio il Bira, sovraffollato e in condizioni davvero fatiscenti. Tutt’altra realtà quella del Borici dove i minori – seguiti da Save the children, hanno finalmente la possibilità di alcuni spazi a misura di bambino.
Nell’inferno del Bira
Bastano pochi passi per rendersi conto delle difficoltà che devono affrontare i migranti dentro al Bira. Lo visitiamo in una giornata uggiosa di fine febbraio, un’atmosfera che amplifica ulteriormente il grigiume della struttura: grandi capannoni contigui, collegati l’uno all’altro in alcuni casi da portoni in altri da portali aperti. I muri sono scrostati, quando non bucati, e la luce filtra da alcuni grandi aperture nel soffitto protette dal vetro. I migranti, per lo più uomini soli, sono ammassati a cento, centoventi persone per tenda. Va un po’ meglio alle famiglie e ai minori a cui è destinata un’area apposita con container. All’ingresso, poco prima di entrare, incontro un giovane pakistano che si avvicina per chiedermi aiuto. Ha le dita delle mani intirizzite dal freddo. “Mi hanno detto che non posso entrare, puoi aiutarmi?”. Mi racconta di essere arrivato fin qui dopo aver trascorso quasi un anno in Grecia e aver guadagnato qualche soldo necessario a proseguire il viaggio. “Purtroppo in questo momento non possiamo accettare nuove persone”, afferma il responsabile IOM del campo Mite Cilkovskii. “La struttura ha una capienza di 1500 posti e siamo oltre le duemila persone (dato al 24 febbraio, ndr). Dobbiamo ridurre il numero come da accordi con il cantone”, aggiunge.
Un “game” pericoloso
Nel campo si trovano soprattutto uomini soli: pakistani, afghani, iraniani e, in misura minore, marocchini, algerini, congolesi. Tutti aspettano il momento buono per andare al “game”; così viene chiamato dai migranti il tentativo di passare la frontiera. Un “gioco” che per la maggior parte di loro si conclude nel punto esatto da cui sono partiti. Solo chi ha i soldi può permettersi di viaggiare più “tranquillo” pagando un trafficante che lo farà arrivare direttamente in Italia, Germania o in nord Europa. Ma servono tanti soldi, anche quattro o cinque mila euro.
Agli altri non resta che la via dei boschi con tutti i rischi che comporta ad incominciare dai campi minati, eredità della guerra degli anni novanta. Non esistono dati certi sui migranti morti lungo la Balkan Route, ma a spulciare la stampa locale si trovano diversi casi. “Su questa rotta di terra tra Serbia, Bosnia, Croazia e Slovenia – racconta Silvia Maraone – sono stati almeno una cinquantina solo lo scorso anno per lo più per annegamento o per investimenti da macchine o treni”.
“Chi torna al Bira è spesso ferito, soprattutto ai piedi, con escoriazioni, tagli, principi di congelamento”, ci spiega Selam Midžić, segretario della Croce Rossa locale, organizzazione che si occupa di preparare i pasti ai duemila del Bira.
Le ferite sono la conseguenze delle ore passate nei boschi, dell’attraversamento del fiume Una, ma anche dei respingimenti collettivi da parte della polizia croata: una prassi vietata dalla legislazione europea, ma praticata qui come in altre frontiere.
Per cercare di offrire un angolo di calore all’interno del Bira proprio Ipsia BIH, in collaborazione con la rete Caritas e il sostegno di alcuni volontari indipendenti, ha aperto all’interno del campo un “Social Café”: un piccolo chiosco in funzione tre ore tutte le mattine che arriva a servire oltre 400 tazze di té al giorno. “Abbiamo iniziato con alcuni termos – racconta Greta Mangiagalli – servendo le prime tazze di caj alla vigilia di Natale, poi sono arrivati i tavoli, un ping pong, i giochi in scatola. Il Social Café è l’unico spazio dentro al Bira dove ti è concesso di stare tranquillamente, di sederti e chiacchierare. Un luogo dove, per qualche ora, provare a fingere di essere in un posto normale ”.
Lascio i duemila del Bira e mi dirigo verso la stazione degli autobus dove incontro altri migranti appena arrivati in città. Acquisto per dodici euro il biglietto del bus che mi porterà a Zagabria. Salgo a bordo e in poco tempo arriviamo alla frontiera con la Croazia. Un rapido controllo dei passaporti e ripartiamo. Ora sono in Unione europea: dalla mia partenza da Bihac sono passati solo 18 minuti. Riprendiamo la marcia tra verdi colline illuminate dal sole, ma la mia mente continua a pensare ai duemila del Bira, alla fatica del loro viaggio, ai pericoli che hanno passato e a quelli che gli aspettano. Mi tornano alla mente le parole di Silvia: “Molti di loro vivono come in un limbo: sono troppo lontani da casa per tornare indietro e troppo distanti per ricordarsi le motivazioni che li hanno spinti a partire”.
Immagine di copertina: l’ex studentato Borici a Bihac recentemente ristrutturato dalla IOM per accogliere famiglie e soggetti vulnerabili. Al momento sono 148 gli ospiti. (foto di Michele Luppi, come tutte quelle presenti nell’articolo)