“Non scappano da nessuna guerra, non sono siriani e non otterranno mai lo status di profugo: per quale ragione dobbiamo mantenere decine di migliaia di nigeriani e senegalesi che sono qui a fare la bella vita a spese dei contribuenti?” Paolo Grimoldi, deputato della Lega Nord
Questo è uno degli interrogativi che più spesso pone chi è contrario all’accoglienza. In questo caso le parole riportate appartengono a Paolo Grimoldi, deputato della Lega Nord e segretario della sezione lombarda del partito, che il 15 novembre lamentava una spesa eccessiva per la regione (secondo la sua stima, 800mila euro al giorno), per persone che “non scappano dalla guerra”.
Sul capitolo della spesa, si rimanda ai risultati del Dossier statistico immigrazione 2016 realizzato da Idos con Confronti, Chiesa Valdese e UNAR, che evidenzia come il saldo tra le spese dello stato e gli introiti provenienti dagli stranieri residenti in Italia sia positivo. Lo stato guadagna da loro più¨di quello che spende.
Quanto all’affermazione secondo cui le persone che attraversano il Mediterraneo a bordo di imbarcazioni fatiscenti non scapperebbero da alcuna guerra, occorre capire chi sono i migranti che arrivano in Italia: da cosa scappano, se non fuggono dalla guerra? L’analisi di dati e casi concreti mette in luce un dato allarmante: a rischiare la vita non sono solo i siriani. Sono moltissimi i Paesi in cui il livello di tutela dei diritti umani è così scarso che qualunque civile rischia di subire un grave danno alla persona (solo per citarne alcuni Eritrea, Gambia, Pakistan). In altri, invece, come Nigeria e Somalia, lo scontro tra gruppi armati costituiti su base etnica o religiosa determina l’esistenza di caos politico e ‘stati di conflitto’.
La provenienza Secondo i dati Unhcr, le nazionalità più rappresentate negli sbarchi 2016 sono Nigeria (21%), Eritrea (12%), Sudan, Gambia e Costa d’Avorio (tutte al 7%) . Dunque è vero che si è arrestato il flusso dei migranti in fuga dalla Siria; ma non è cessato quello di chi fugge da stati di conflitto o gravi violazioni dei diritti umani. Ecco le loro storie, tratte dalle sentenze rese dalla prima sezione civile del tribunale di Milano.
Itola, Gidi e gli altri: storie di battaglie quotidiane fuori dalla Siria
Iftikhar Asad è nato in Pakistan ed è musulmano. Durante gli studi si è convertito da sunnita a sciita: i suoi professori lo hanno minacciato di morte e picchiato. Quando è arrivato in Italia, la commissione territoriale non gli ha accordato lo status di rifugiato, cosa che ha spinto Asad a ricorrere al tribunale di Milano. Per il tribunale non sussistono le condizioni per concedere ad Asad tale status (essenzialmente per un difetto nelle allegazioni fornite dal ricorrente); gli concede invece la protezione sussidiaria. Questo perché in Pakistan, in particolare nella regione del Punjab, da cui Asad proviene, “risulta l’esistenza di una situazione di violenza indiscriminata e di scontro tra gruppi armati, per cui tutti i cittadini pakistani, inclusi gli studenti e coloro che si oppongono ai gruppi militari o che non seguono la legge della Sharia, sono soggetti alla violenza di tali gruppi armati”.
In altre parole, esiste una situazione qualificabile come conflitto armato, in particolare sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel paese correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire la detta minaccia”. Asad ha diritto alla protezione internazionale.
Itola, invece, è nigeriana ed è nata nel 1991. La commissione ha rigettato la sua richiesta d’asilo, e questo è quella che Itola ha raccontato al tribunale, in sede di ricorso. “Sono scappata via dalla Nigeria perché mio zio voleva che io sposassi un uomo anziano. Lui aveva più di 60 anni ed era musulmano. Io sono cristiana. Lui aveva già tre mogli. Aveva tanti figli. Mio zio mi ha detto che se non lo avessi sposato mi avrebbero ucciso. Lui mi ha anche picchiato.
Mio zio voleva farmelo sposare perché era un uomo ricco. Anche mia sorella è stata costretta a sposare un uomo scelto da mio zio. Lui avrà quasi 70 anni”.
Se Itola tornasse nel suo Paese d’origine, sarebbe obbligata a un matrimonio forzato e a subire le violenze dello zio, e la ragazza non potrebbe chiedere aiuto alle autorità nigeriane, a causa della gravissima situazione in cui versa lo stato: come scrivono i giudici, “l’intero territorio della Nigeria – e non solo il Nord, afflitto dai continui scontri perpetrati dagli adepti del gruppo terroristico Boko Haram, qualificabili come conflitto armato – è caratterizzato da un clima di violenze diffuse ed indiscriminate a causa di conflitti armati tra cristiani e musulmani. Con particolare riferimento alla zona centro meridionale della Nigeria, il rapporto annuale di Human Rights Watch del gennaio 2016 e il rapporto 2015/2016 di Amnesty International confermano che la violenza intercomunitaria continua ad affliggere la zona nota come quella di Middle Belt (dalla quale proviene la ricorrente)”.
Tamara Ibrahima, invece, è nato in Gambia, e ne è fuggito perché è gay: nel suo Paese l’omosessualità è un reato, e la polizia organizza retate nei locali gay per arrestarli.
A Tamara la commissione territoriale ha negato lo status di rifugiato, anche se rischia di subire una pena detentiva molto lunga solo a causa della sua identità di genere. Il tribunale di Milano, invece, accoglie senz’altro la sua richiesta, richiamandosi alle convenzioni internazionali che vietano di discriminare le persone in base al loro orientamento sessuale, e alle prove, allegate dal ricorrente, che attestano come nei suoi confronti sia già stato emesso un mandato di arresto. La corte milanese si richiama al principio per cui “l’orientamento sessuale di una persona costituisce una caratteristica così fondamentale per la sua identità che essa non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi”; un principio, affermato in una sentenza della Cgue, che, se appartiene alla nostra cultura, non è invece radicato in quella del Paese, il Gambia, da cui proviene Tamara.
E poi c’è Gidi Kalifa, della Guinea Bissau. Gidi ha cercato di difendere la madre dalle botte dello zio, ed è stato a sua volta picchiato da zio e cugini. Il motivo? La decisione della mamma di Gidi di tornare alla religione cristiana, dopo la morte del marito musulmano. Gidi e sua madre hanno chiesto protezione alla polizia, che però non è intervenuta. Intanto Gidi ha perso la vista da un occhio a causa delle botte. A Gidi il tribunale non riconosce lo status di rifugiato (perché le minacce sono rivolte alla madre, non a lui, che è musulmano). Gli accorda invece la protezione sussidiaria in quanto “le minacce e le violenze subite provano l’esistenza di un concreto pericolo di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti da parte della famiglia paterna – a fronte di autorità dello Stato, fortemente corrotte, che non possono o non vogliono offrire protezione”.
Nessuno di loro proviene dalla Siria, eppure il tribunale di Milano, che ha esaminato i loro ricorsi, ha rilevato palesi violazioni dei diritti umani, quando non situazioni qualificabili come conflitto negli stati di provenienza.
Il procedimento per concedere la protezione internazionale
A giudicare delle domande di protezione internazionale (status di rifugiato, protezione sussidiaria o umanitaria) sono le commissioni territoriali, istituite nel 2002 con la legge Bossi-Fini. Il tribunale interviene nel caso in cui la commissione competente non conceda alcuna forma di protezione internazionale – e, come si è visto, non è infrequente che ne rovesci il verdetto.
Quanto alla provenienza delle persone che richiedono asilo, gli ultimi dati ASGI evidenziano come nel 2015 si trattasse soprattutto di immigrati provenienti da Nigeria, Pakistan e Gambia. Sostanzialmente le stesse nazionalità del 2014. Eppure qualcosa è cambiato nell’atteggiamento delle commissioni territoriali, competenti a esaminare le domande d’asilo: nei primi 10 mesi del 2014, a fronte di quasi 27.400 domande presentate, le commissioni avevano negato la protezione internazionale nel 34,9% dei casi, dando provvedimento favorevole nel 61,8% dei casi (status di rifugiato: 11,24%; protezione sussidiaria: 22%; umanitaria: 28,4%). Un anno dopo nello stesso periodo il 51,4% delle richieste è stato rifiutato.
Come lavora il tribunale
Non ci sono statistiche che specifichino quante volte il tribunale decida in modo difforme dalla commissione territoriale, ma per capire perché questo accade bisogna considerare diversi fattori: “Il giudice può concedere la protezione sussidiaria o quella umanitaria quando non ci sono i presupposti per lo status di rifugiato – spiega Alberto Guariso, avvocato del foro di Milano specializzato in questa materia, – e tiene conto anche del grado di inserimento che si è realizzato nel corso del giudizio. Una parte degli accoglimenti avviene anche per eventi successivi all’audizione della commissione: è una situazione un po’ anomala, perché il giudice dovrebbe valutare in base alla situazione esistente al momento della domanda. Ma non essendoci criteri omogenei al riguardo, la decisione è rimessa alla discrezionalità del magistrato”.
Guariso si esprime anche sul progetto di riforma del procedimento per concedere la protezione internazionale, che prevede di abolire il colloquio tra il ricorrente e il giudice: in questo modo il magistrato ascolterebbe solo la registrazione del colloquio con la commissione. “Non credo sia la soluzione giusta – commenta l’avvocato. – L’audizione è un momento fondamentale per valutare la credibilità del racconto, che è un elemento centrale delle decisioni. Abolendo il colloquio, ci sarebbe una menomazione dei diritti della persona”, spiega ancora Guariso. Secondo l’avvocato, c’è anche un altro problema. Alla domanda se i ricorrenti siano informati sulla loro posizione giuridica e sulle possibilità di accedere a diverse forme di protezione, Guariso risponde che “il livello di informazione è molto diverso a seconda del fatto che il migrante sia inserito in una struttura efficiente o meno. In genere chi è accolto nel sistema Sprar è ben informato, grazie a un lavoro di accompagnamento ben fatto. Altri sono quasi abbandonati. Non sanno cosa succederà davanti alla commissione o al giudice”. Insomma, l’informazione ai migranti, che dovrebbe avvenire sin dal loro arrivo, e comunque contestualmente al momento in cui compilano il foglio di pre-identificazione, è affidata al caso. Anche per questo è importante che il giudice abbia la possibilità di parlare personalmente con il ricorrente.
Ma come lavorano i giudici? Per capirlo, abbiamo preso in considerazione il caso di Milano, competente a giudicare su tutti i ricorsi avverso le decisioni delle commissioni della Lombardia (Brescia, Milano e Milano1). Nel corso degli anni, il numero di procedimenti instaurati a Milano è notevolmente aumentato: a fronte dei 636 ricorsi presentati nel 2014, se ne sono avuti 1.679 nel 2015 e 807 a gennaio-febbraio 2016. Per questo, il presidente Roberto Bichi ha deciso di rafforzare l’organico della prima sezione civile: ai precedenti otto magistrati se ne sono aggiunti altri 12, in forza per sei mesi a partire dal 23 maggio.
Analizzando le sentenze rese dal tribunale di Milano, è possibile constatare come la decisione sulla protezione internazionale richieda un’analisi estremamente complessa, riguardante a) convenzioni internazionali sul diritto d’asilo b) prove fornite dal ricorrente a supporto della sua domanda c) situazione giuridica e politica del paese di provenienza del ricorrente.
Convenzioni internazionali sul diritto d’asilo
La normativa in materia è contenuta nel d. lgs. n. 251/07, che, conformemente alla Convenzione di Ginevra del 1951, stabilisce le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e umanitaria.
Rifugiato è il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o non vuole avvalersi della protezione di tale Paese. Gli atti di persecuzione paventati debbono essere sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, potendo assumere, tra le altre, la forma di atti di violenza fisica o psichica, di provvedimenti legislativi, amministrativi e giudiziari discriminatori; responsabili della persecuzione o del danno grave debbono essere lo Stato, partiti od organizzazioni che controllano lo Stato od una parte consistente del suo territorio; soggetti non statuali, se i soggetti sopra citati, comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione.
È invece persona ammissibile alla protezione sussidiaria il “cittadino di un Paese non appartenente all’Ue o apolide nei cui confronti sussistano fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese d’origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno, e il quale non può, o a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Sono considerati danni gravi: a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.
Onere della prova a carico del ricorrente
La giurisprudenza di riferimento è la Cassazione n. 18353/06, che stabilisce che se nelle controversie attinenti al riconoscimento dello status di rifugiato deve ritenersi in via generale attenuato l’onere probatorio incombente sul richiedente, comunque il richiedente protezione non è esonerato dalla prova: “L’onere probatorio deve dunque essere assolto seppur in via indiziaria tenendo conto delle difficoltà connesse a volte ad un allontanamento forzato e segreto, ma comunque a mezzo elementi aventi carattere di precisione, gravità e concordanza, desumibili dai dati, anche documentali, offerti al bagaglio probatorio”. Inoltre “il fatto che tale onere debba intendersi in senso attenuato non incide sulla necessità della sussistenza sia della persecuzione sia del suo carattere personale e diretto per le ragioni rappresentate a sostegno della sua rivendicazione.”
Nelle sentenze del tribunale di Milano citate si nota che ai ricorrenti viene richiesto non solo di rendere dichiarazioni concordi e circostanziate, ma anche di allegare documenti a prova della loro situazione: spesso si tratta di articoli di giornale, referti medici, documenti dell’autorità di polizia dello Stato di provenienza.
Analisi della situazione giuridica e politica del paese di provenienza del ricorrente
In questo caso, i magistrati del tribunale si orientano tra rapporti sullo stato di emigrazione e inchieste giornalistiche che documentano lo stato di guerriglia nelle regioni. Tra le fonti di riferimento ci sono Human Rights Watch, il sito del ministero degli Esteri, l’Unhcr, e Amnesty International, oltre ai giornali e alle normative locali. In questo modo, i giudici possono riscontrare la presenza di “stati di conflitto” o gravi carenze sotto il profilo della tutela dei diritti umani anche laddove non ci sono vere e proprie guerre. A motivare le decisioni di accoglimento possono essere anche il radicamento sul territorio di organizzazioni terroristiche (come nel caso di Boko Haram in Nigeria), conflitti interreligiosi (come in Pakistan) o la mancanza di garanzie minime nel sistema giudiziario e penitenziario dei Paesi di provenienza.