Uno dei luoghi comuni più inossidabili nel dibattito sulle migrazioni riguarda il rapporto tra immigrazione e povertà. Convergono sul punto sia i sostenitori della retorica dell’emergenza (“la povertà dell’Africa si riversa sulle nostre coste”), sia i paladini dell’accoglienza (“siamo responsabili della povertà del Terzo Mondo e dobbiamo farcene carico”). Il corollario più logico di questa visione patologica delle migrazioni è inevitabilmente lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”. Mi propongo di porre a confronto questa visione con una serie di dati, al fine di valutare la pertinenza dell’idea dell’aiuto allo sviluppo come alternativa all’immigrazione.
Non la povertà, ma le disuguaglianze
Come vedremo, la povertà in termini assoluti non ha un rapporto stretto con le migrazioni internazionali sulle lunghe distanze. È vero invece che le disuguaglianze tra regioni del mondo, anche confinanti, spiegano una parte delle motivazioni a partire. Anzi, si può dire che i confini sono il maggiore fattore di disuguaglianza su scala globale. Pesano più dell’istruzione, del genere, dell’età, del retaggio familiare. Un bracciante agricolo nell’Europa meridionale guadagna più di un medico in Africa. Questo fatto rappresenta un incentivo alla mobilità attraverso i confini.
L’enfasi sulla povertà come molla scatenante delle migrazioni si scontra invece con un primo dato: nel complesso i migranti internazionali sono una piccola frazione dell’umanità: secondo i dati più recenti contenuti nel Dossier statistico Idos 2017, intorno ai 247 milioni su oltre 7 miliardi di esseri umani, pari al 3,3 per cento. Se i numeri sono cresciuti (erano 175 milioni nel 2000), la percentuale rimane invece stabile da parecchi anni, essendo cresciuta anche la popolazione mondiale.
Ciò significa che le popolazioni povere del mondo hanno in realtà un accesso assai limitato alle migrazioni internazionali, e soprattutto alle migrazioni verso il Nord globale. Il temuto sviluppo demografico dell’Africa non si traduce in spostamenti massicci di popolazione verso l’Europa o altre regioni sviluppate. I movimenti di popolazione nel mondo avvengono soprattutto tra paesi limitrofi o comunque all’interno dello stesso continente (87 per cento nel caso della mobilità dell’Africa sub-sahariana), con la sola eccezione dell’America settentrionale, che attrae immigrati dall’America centro-meridionale e dagli altri continenti. Per di più, dall’interno dell’Africa partono soprattutto persone istruite.
Ne consegue un secondo importante assunto: la povertà in senso assoluto ha un rapporto negativo con le migrazioni internazionali, tanto più sulle lunghe distanze. I migranti, come regola generale, non provengono dai paesi più poveri del mondo. La connessione diretta tra povertà e migrazioni non ha basi statistiche. Certo, i migranti partono soprattutto per migliorare le loro condizioni economiche e sociali, inseguendo l’aspirazione a una vita migliore di quella che conducevano in patria. Questo miglioramento però è appunto comparativo, e ha come base uno zoccolo di risorse di vario tipo.
Chi è poverissimo non riesce a partire
Le migrazioni sono processi intrinsecamente selettivi, che richiedono risorse economiche, culturali e sociali: occorre denaro per partire, che le famiglie investono nella speranza di ricavarne dei ritorni sotto forma di rimesse; occorre una visione di un mondo diverso, in cui riuscire a inserirsi pur non conoscendolo; occorrono risorse caratteriali, ossia il coraggio di partire per cercare fortuna in paesi lontani di cui spesso non si conosce neanche la lingua, e di affrontare vessazioni, discriminazioni, solitudini, imprevisti di ogni tipo; occorrono risorse sociali, rappresentate specialmente da parenti e conoscenti già insediati e in grado di favorire l’insediamento dei nuovi arrivati. Come ha detto qualcuno, i poverissimi dell’Africa di norma non riescono neanche ad arrivare al capoluogo del loro distretto. Pertanto la popolazione in Africa potrà anche aumentare ma, senza una sufficiente dotazione di risorse e senza una domanda di lavoro almeno implicita da parte dell’Europa, non si vede come possa arrivare fino alle nostre coste.
Se invece di fissare lo sguardo sugli sbarchi guardiamo ai dati sulle nazionalità degli immigrati che risiedono in Italia, ci accorgiamo che i grandi numeri non provengono dai paesi più derelitti dell’Africa. L’immigrazione insediata in Italia è prevalentemente europea, femminile, proveniente da paesi di tradizione culturale cristiana. La graduatoria delle provenienze vede nell’ordine: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine. Nessuno di questi è annoverato tra i paesi più poveri del mondo, quelli che occupano le ultime posizioni nella graduatoria basata sull’indice di sviluppo umano dell’Onu: un complesso di indicatori che comprendono non solo il reddito, ma anche altre importanti variabili come i tassi di alfabetizzazione, la speranza di vita alla nascita, il numero di posti-letto in ospedale in proporzione agli abitanti. Su scala globale, i migranti provengono prevalentemente da paesi collocati nelle posizioni intermedie della graduatoria. Per esempio negli Stati Uniti di oggi provengono in maggioranza dal Messico, in Svizzera sono europei per oltre l’80 per cento, in Germania in due casi su tre.
Per le stesse ragioni, i migranti non sono i più poveri dei loro paesi: mediamente, sono meno poveri di chi rimane. E più vengono da lontano, più sono selezionati socialmente. Raramente troviamo immigrati provenienti da molto lontano (cinesi, filippini, latino-americani…) nei dormitori per i senza dimora, nelle mense dei poveri, precariamente accampati sotto i portici, o anche in carcere. Chi arriva da più lontano, fra l’altro, necessita di un progetto più definito e di lunga durata, non può permettersi di fare sperimentazioni o andirivieni: deve essere determinato a rimanere e a lavorare per ripagare almeno le spese sostenute e gli eventuali prestiti ricevuti. Ha anche bisogno di teste di ponte più solide, ossia di parenti o connazionali affidabili che lo accolgano e lo aiutino a sistemarsi.
La cattiva gestione dell’asilo ha in parte incrinato questa logica: i rischi sono tali che a volte arriva anche chi non ha niente da perdere e ha l’incoscienza di provare a partire. Se viene riconosciuto come rifugiato, in Italia il più delle volte viene lasciato in mezzo alla strada. Incontra severe difficoltà anche nello spostarsi verso altri paesi europei, come avveniva più agevolmente nel passato. In modo particolare, i beneficiari dell’Emergenza Nord Africa dell’ultimo governo Berlusconi sono stati gestiti con un approccio emergenziale che non ha favorito la loro integrazione socio-economica. Ma pur tenendo conto di questa variabile, la logica complessiva non cambia: le migrazioni internazionali sulle lunghe distanze non sono un effetto della povertà, ma dell’accesso ad alcune risorse decisive.
A proposito dei “migranti ambientali”
Una valutazione analoga riguarda un altro tema oggi dibattuto, quello dei cosiddetti “rifugiati ambientali”. Il concetto sta conoscendo una certa fortuna, perché consente di collegare la crescente sensibilità ecologica, la preoccupazione per i cambiamenti climatici e la protezione di popolazioni vulnerabili del Sud del mondo. È una spiegazione affascinante della mobilità umana, e anche politicamente spendibile. Ora, è senz’altro vero che nel mondo si moltiplicano i problemi ambientali, direttamente indotti come nel caso della costruzione di dighe o di installazioni petrolifere, o provocati da desertificazioni, alluvioni, avvelenamenti del suolo e delle acque.
Tuttavia, che questi spostamenti forzati si traducano in migrazioni internazionali, soprattutto sulle lunghe distanze, è molto più dubbio. Anzitutto, le migrazioni difficilmente hanno un’unica causa: i danni ambientali semmai aggravano altri fattori di fragilità, tanto che hanno un impatto diverso su gruppi diversi di popolazione che abitano negli stessi territori. Entrano in relazione con altri fattori, come per esempio l’insediamento in altri territori di parenti che si spera possano fornire una base di appoggio. È più probabile poi che eventualmente i contadini scacciati dalla loro terra ingrossino le megalopoli del Terzo Mondo, anziché arrivare in Europa, sempre per la ragione prima considerata: dove trovano le risorse per affrontare viaggi così lunghi e necessariamente costosi? Va inoltre ricordato che l’esodo dal mondo rurale è una tendenza strutturale, difficile da rovesciare, in paesi in cui la popolazione impegnata nell’agricoltura supera il 50 per cento dell’occupazione complessiva. Neppure la Cina ci riesce, pur avendo trattato a lungo i contadini inurbati senza permesso alla stessa stregua degli immigrati stranieri considerati illegali nei nostri paesi, tanto che ha dovuto negli ultimi anni ammorbidire la sua politica in materia.
Gli aiuti allo sviluppo non risolvono la questione
Questa analisi ha inevitabili ripercussioni sull’idea della promozione dello sviluppo come alternativa all’emigrazione. Ossia l’idea sintetizzabile nel noto slogan “aiutiamoli a casa loro”.
Si tratta di un’idea semplice, accattivante, apparentemente molto logica, ma in realtà fallace. Prima di tutto, presuppone che l’emigrazione sia provocata dalla povertà, ma abbiamo visto che questo è meno vero di quanto si pensi. Se gli immigrati non arrivano dai paesi più poveri, dovremmo paradossalmente aiutare i paesi in posizione intermedia sulla base degli indici di sviluppo, anziché quelli più bisognosi, i soggetti istruiti anziché i meno alfabetizzati, le classi medie anziché quelle più povere.
In secondo luogo, gli studi sull’argomento mostrano che in una prima, non breve fase lo sviluppo fa aumentare la propensione a emigrare. Cresce anzitutto il numero delle persone che dispongono delle risorse per partire. Le aspirazioni a un maggior benessere inoltre aumentano prima e più rapidamente delle opportunità locali di realizzarle, anche perché lo sviluppo solitamente inasprisce le disuguaglianze, soprattutto agli inizi. Possiamo dire che lo sviluppo si lega ad altri fattori di cambiamento sociale, mette in movimento le società, semina speranze e sogni che spingono altre persone a partire. Solo in un secondo tempo le migrazioni rallentano, finché a un certo punto il fenomeno s’inverte: il raggiunto benessere fa sì che regioni e paesi in precedenza luoghi di origine di emigranti diventino luoghi di approdo di immigrati, provenienti da altri luoghi che a quel punto risultano meno sviluppati.
Così è avvenuto in Italia, ma dobbiamo ricordare che abbiamo impiegato un secolo a invertire il segno dei movimenti migratori, dalla prevalenza di quelli in uscita alla primazia di quelli in entrata. In tutti i casi fin qui conosciuti sono occorsi decenni di sviluppo prima di osservare un calo significativo dell’emigrazione.
Le rimesse degli emigranti
L’emigrazione non è facile da contrastare neppure con generose politiche di sostegno allo sviluppo e di cooperazione internazionale, anche perché un altro fenomeno incentiva le partenze e la permanenza all’estero delle persone: le rimesse degli emigranti. Si tratta di 586 miliardi di dollari nel 2015, 616 nel 2016, secondo le stime della Banca Mondiale, basate sui soli canali ufficiali di trasferimento di valuta.
A livello macro, vari paesi hanno le rimesse come prima voce attiva negli scambi con l’estero, e 26 paesi del mondo hanno un’incidenza delle rimesse sul PIL che supera il 10 per cento. A livello micro, le rimesse arrivano direttamente nelle tasche delle famiglie, saltando l’intermediazione di apparati pubblici e imprese private. Sono soldi che consentono di migliorare istruzione, alimentazione, abitazione dei componenti delle famiglie degli emigranti, in modo particolare dei figli, malgrado gli effetti negativi che pure non mancano. Poiché gli emigranti tipicamente investono in terreni e case come simbolo del loro successo, le rimesse fanno lavorare l’industria edilizia. Fanno però salire i prezzi e svantaggiano chi non ha parenti all’estero, alimentando così nuove partenze. Difficile negare tuttavia che le rimesse allevino i disagi e migliorino le condizioni di vita delle famiglie che le ricevono. Il sostegno allo sviluppo dovrebbe realizzare rapidamente delle alternative per competere con la dinamica propulsiva del nesso emigrazione-rimesse-nuova emigrazione, ma un simile effetto nel breve periodo è praticamente impossibile.
Dunque le politiche di sviluppo dei paesi svantaggiati sono giuste e auspicabili, la cooperazione internazionale è un’attività encomiabile, rimedio a tante emergenze e produttrice di legami, scambi culturali e posti di lavoro su entrambi i versanti del rapporto tra paesi donatori e paesi beneficiari. Ma subordinare tutto questo al controllo delle migrazioni è una strategia di dubbia efficacia, certamente improduttiva nel breve periodo, oltre che eticamente discutibile. Di fatto, gli aiuti in cambio del contrasto delle partenze significano oggi finanziare i governi dei paesi di transito affinché assumano il ruolo di gendarmi di confine per nostro conto.
Da ultimo, il presunto buon senso dell’“aiutiamoli a casa loro” dimentica un aspetto di capitale importanza: il bisogno che le società sviluppate hanno del lavoro degli immigrati. Basti pensare alle centinaia di migliaia di anziani assistiti a domicilio da altrettante assistenti familiari, dette comunemente badanti. Se i paesi che attualmente esportano queste lavoratrici verso l’Italia dovessero conoscere uno sviluppo tale da scongiurare le partenze, non cesserebbero i nostri fabbisogni. In mancanza di alternative di cui per ora non si vedono neppure i presupposti, andremmo semplicemente a cercare lavoratrici disponibili in altri paesi, più arretrati di quelli che attualmente ce le forniscono.
Concludendo, il nesso diretto tra migrazioni, povertà e sviluppo è una delle tante semplificazioni di un dibattito che prescinde dai dati, si basa sulle percezioni e rifugge dalla fatica dell’approfondimento dei fenomeni.