Riprendiamo l’analisi dei flussi migratori dove c’eravamo fermati un anno fa: tra il dicembre 2015 e il novembre 2016, secondo i dati Eurostat, i richiedenti asilo nell’Unione Europea sono 1.293.125, di cui 414.665 donne, il 32%. Una percentuale in netto aumento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando le donne erano il 27%.
Quanto all’Italia, i richiedenti asilo nel periodo considerato sono 118.295, di cui 17.560 donne: la percentuale di donne tra i richiedenti asilo è passata dall’11 al 14,84%. In termini assoluti, invece, c’è un aumento netto, quasi un raddoppio (+86%) rispetto ai numeri del 2015, quando erano 9.435.
Confrontando l’Italia con l’Ue, si scopre che il 9,15% dei richiedenti asilo in Ue fa domanda nel nostro paese (l’anno scorso erano il 6,73%), e che, tra le donne, la percentuale è del 4,23%: anche in questo caso un aumento, rispetto al 2,8% dello scorso anno.
I numeri, va detto, non rappresentano l’intero fenomeno migratorio diretto in Italia: i migranti arrivati via mare nel 2016 sono infatti 181.436 (fonte Unhcr), di cui il 13% sono donne; una percentuale sostanzialmente in linea con quella (14,84%) relativa alle richieste d’asilo.
Nazionalità: il 40% delle donne proviene Nigeria
Quanto alle nazionalità più rappresentate tra le donne, sia nel totale dei migranti, che restringendo il campo alle richieste d’asilo, il gruppo più rappresentato in Italia è quello nigeriano. Più 40% delle richieste d’asilo da parte di donne (7.085) proviene dalla Nigeria, seguita dall’Eritrea (1.910, il 10,9%) e dall’Ucraina (1.390, pari al 7,9%). Eritrea e Nigeria, del resto, sono anche le nazionalità più rappresentate sul totale degli sbarchi ( 20,7% e 11,5%).
Come sottolineato tanto dall’Unhcr quanto nell’ultimo rapporto del Greta (il gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di essere umani), il numero di nigeriane che cercano protezione in Italia negli ultimi anni è sempre aumentato. In particolare, nel confronto tra gli sbarchi del 2015 e del 2016, il numero delle donne provenienti dalla Nigeria quasi raddoppia (+95.5%), passando da 5.633 a 11.009. L’Italia, del resto, è la meta principale per i migranti in fuga da Abuja. Le donne, poi, spesso entrano loro malgrado nel giro della tratta e sfruttamento della prostituzione.
Women on the move: la decisione di partire
Secondo un rapporto Oim – Ricerca sul profilo socioeconomico dei migranti che arrivano in Italia, fondata su un migliaio di interviste realizzate tra aprile e luglio 2016 in Cara, Cas e Sprar in diverse regioni italiane – le ragioni che spingono un migrante a partire cambiano sensibilmente in base al genere: “rispetto agli uomini, una percentuale più sostanziale di donne lascia il proprio paese per ragioni connesse alla situazione familiare (37% rispetto al 17%) – scrive l’Oim – Molte donne, infatti, dicono di aver lasciato la propria casa per scappare da abusi, violenze e matrimoni forzati, oppure per seguire i compagni”. Meno frequente, invece, la discriminazione: negli uomini, infatti, la spinta a partire dipende anche dall’appartenenza a gruppi politici/religiosi, fattori meno rilevanti per le donne.
Lo stesso rapporto sottolinea un altro dato interessante. L’82% dei migranti maschi decide in autonomia di partire. Per le donne, questa percentuale si riduce al 59%. Vuol dire che in 2 casi su 5, la decisione è assunta da un’altra persona. In un caso su 3, a decidere è la famiglia: perché la donna segue il marito o perché lo precede, per ottenere protezione in modo che poi la famiglia possa chiedere il ricongiungimento. Non rari, infine, i casi di donne vendute per lo sfruttamento sessuale.
Cosa accade nel viaggio: dalle violenze alla tratta a scopo di prostituzione
Secondo il rapporto del Greta, il 70% dei bambini e delle donne che arrivano dalla Nigeria mostra segni di essere vittima del traffico di esseri umani, finalizzato allo sfruttamento lavorativo o sessuale. L’Oim ritiene addirittura che l’80% delle nigeriane arrivate in Sicilia nel 2016 siano vittime di tratta, destinate in Italia al mercato della prostituzione.
L’incertezza dei numeri deriva dalla difficoltà di di individuare le vittime di tratta, che non riescono a – o non vogliono – raccontare la loro storia. Ecco perché per riconoscere le vittime di tratta si ricorre, oltre che alle testimonianze, ad indizi, segnali di tratta come quelli indicati dall’Oim nel rapporto sulle vittime di tratta sbarcate in Italia nel 2014-15: si va dalle caratteristiche del migrante (nazionalità, regione di provenienza, età, livello di istruzione e condizioni familiari) al comportamento all’arrivo.
Anche quando la migrante non sia vittima di tratta, può succedere (ed è tutt’altro che infrequente) che subisca violenze durante il viaggio, da parte degli organizzatori degli spostamenti o dei gestori dei campi.
- Secondo un rapporto del Parlamento Ue – dipartimento diritti civili e affari costituzionali – sull’accoglienza di rifugiate e richiedenti asilo, le donne che viaggiano da sole possono essere vittima di violenza sessuale e di genere, tanto durante il viaggio quanto nei centri di accoglienza. Alcune, per disperato bisogno di protezione, sposano un uomo durante il viaggio.
- Il rapporto “Inter/rotte – Storie di tratta, percorsi di resistenza”, pubblicato dall’associazione BeFree nell’aprile 2016 e basato sulle interviste a 100 donne nigeriane detenute nel Cie di Ponte Galeria, riporta il racconto delle violenze e dello sfruttamento subiti durante il passaggio in Niger e la detenzione in Libia, in attesa di imbarcarsi per l’Italia. Le donne nigeriane che passano dal Niger “vengono condotte ad Agadez, in connection houses in cui sono spesso esposte a violenze e costrette a prostituirsi per poter proseguire il viaggio” scrive BeFree. “Migranti volontari e vittime di tratta sono accomunati in Niger da un processo di vulnerabilizzazione che, spogliandoli di denaro, beni, informazioni e contatti con l’esterno, li vincola in modo più forte a organizzazioni che, nella prima parte del viaggio, sembravano lasciare maggiori spazi di libertà. (…) Le donne nigeriane costrette alla prostituzione sono l’anello più debole di una catena estesa di persone prive d’identità, non registrate”.
- Le violenze durante il viaggio, in particolare in Libia, da cui passa l’89,7% dei migranti che arrivano in Italia, sono state documentate anche da Amnesty International: negli stupri di massa non c’è distinzione di nazionalità, nelle violenze i trafficanti non si fermano nemmeno di fronte alla giovane età delle loro vittime, né si fanno scrupoli rispetto alle donne in attesa. In Libia “le persone vendono le altre persone, è normale, e tutti gli uomini sono armati”, è l’agghiacciante testimonianza resa da Maria, 26enne del Camerun, agli operatori di Medici senza frontiere. Ma Maria non è la sola a parlare in questo modo: e chi trova il coraggio di parlare racconta di stupri di gruppo, di ragazze abusate da trafficanti ubriachi o imbottiti di hashish, di madri violentate davanti ai loro figli; lo stupro è usato come punizione se la ragazza non ha i soldi per pagare il viaggio, o per costringere la sua famiglia a inviare una sorta di “riscatto”. Pur di evitare gravidanze indesiderate, che rischiano di diventare un ulteriore ostacolo al viaggio, le donne iniziano ad assumere massicce dosi di contraccettivi anche mesi prima di mettersi in cammino, con conseguenze gravi sulla salute, come riscontrato durante le visite mediche svolte all’arrivo nei centri di accoglienza.
Le vittime non denunciano i loro aguzzini
Si potrebbe pensare che, all’arrivo in Italia, le cose migliorino; ma non sempre è così. Riconoscere le vittime di violenza, e ancor più quelle coinvolte nella tratta, è difficile, tanto per aspetti pratici, di procedura (su cui si veda oltre) quanto per la ritrosia delle ragazze a raccontare la loro storia. I motivi sono diversi:
- attirate dalla promessa di un lavoro regolare, per esempio come babysitter o badanti, le vittime di tratta non rivelano agli operatori la rete di sfruttamento che le ha portate in Italia, per timore di perdere il lavoro promesso. La frammentazione della catena di controllo, determinata dal fatto che le vittime vengono vendute nel passaggio tra i diversi Stati, impedisce alle ragazze di collegare gli sfruttatori alla maman che, per ultima, ha pagato il loro viaggio verso l’Italia. E’ quello che BeFree chiama “fidelizzazione della vittima all’organizzazione”.
- secondo un rapporto sui rischi per le donne nella crisi dei rifugiati (elaborato da Unhcr e dalla Commissione per le rifugiate), le vittime di tratta non parlano della loro esperienza e non cercano assistenza specifica a meno che non ci siano gravi problemi di salute. Questo è dovuto in parte alla vergogna per le violenze subite, ma non solo:
- alcune donne prima di partire subiscono rituali voodoo, a base di ciocche di capelli, unghie e formule magiche, che le legano ai loro aguzzini: “La maggior parte, appena mette piede a terra, cambia subito atteggiamento: tengono gli occhi bassi, non rispondono più neanche ad una domanda, sono terrorizzate, sanno che c’è chi le attende e che se non obbediranno agli ordini, i riti voodoo a cui sono state sottoposte prima della partenza porteranno il male nelle loro famiglie”, sintetizza un’ostetrica della ong Msf in un’inchiesta di Repubblica.
Ecco perché è difficile riconoscere le vittime di tratta e, più che sui loro racconti, bisogna basarsi sui segnali di cui parla l’Oim, tra cui segni di abusi fisici, problemi psicologici, forme evidenti di controllo nei centri di accoglienza. Questo richiede persone esperte nell’aiutare le vittime di violenza, traduttori, mediatori culturali. In definitiva richiede tempo.
Cosa succede all’arrivo in Italia
Secondo il rapporto Greta, le commissioni territoriali competenti a esaminare le richieste d’asilo hanno ricevuto istruzioni su come identificare le vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale: le interviste devono essere svolte in maniera gender-sensitive, cioè con l’intervistatore e l’interprete dello stesso sesso del richiedente, e devono essere usati i cd. indicatori della tratta, anche collaborando con le ong, o l’Oim, per approfondire i colloqui.
Ma il migrante potrebbe non arrivare a richiedere asilo, a causa della procedura di pre-identificazione che si effettua immediatamente dopo lo sbarco, nel corso della quale si chiede al migrante perché sia arrivato in Italia in modo irregolare, con 4 opzioni (lavoro, famiglia, povertà, asilo). Questa procedura, però, si svolge con una tale fretta che è facile che le vittime di tratta, spesso nemmeno consapevoli della loro condizione, sbaglino risposta, indicando il motivo economico e finendo quindi direttamente nella lista delle espulsioni. Come è successo a settembre 2015, quando una ventina di ragazze nigeriane (ma erano 66 all’inizio) sono state rimpatriate nonostante avessero sul corpo i segni della violenza.
Secondo il rapporto Greta, basato sull’osservazione dell’hotspot di Pozzallo, il ruolo degli agenti di polizia che lavorano negli hotspot si concentra sulla registrazione dei migranti, e il processo è troppo veloce per rilevare possibili vittime di tratta. Le vittime, inoltre, possono essere disposte a parlare solo dopo diverse settimane.
Negli hotspot italiani, l’Oim ha del personale addestrato a identificare possibili vittime di tratta. In questo modo, l’Oim ha segnalato 75 donne nigeriane vittime di tratta nel 2015, e 184 nei primi cinque mesi del 2016. Tuttavia, molte persone intervistate dall’Oim non sono formalmente identificate come vittime di tratta perché il requisito per la concessione di un permesso di soggiorno – e cioè il riferimento al “rischio concreto” e la “gravità e l’imminenza del pericolo” – non può essere provato. Questo le mette a rischio di di essere trafficate e sfruttate ulteriormente, in Italia o nei loro paesi di origine, dopo il rimpatrio. Inoltre, segnala il Greta, negli hotspot mancano spazi riservati in cui condurre interviste così delicate, e non è raro che entro pochi giorni dal loro ingresso negli hotspot, le donne scompaiano nel nulla, spesso di notte, preda della rete di sfruttamento della prostituzione.
Se invece sono rimpatriate, sono esposte alle stesse situazioni da cui sono fuggite, agli stessi approfittatori che le hanno portate in Italia la prima volta, alle stesse violenze. Trattandosi di persone vulnerabili, avrebbero diritto, se non alla protezione, ad essere assistite nel ritorno in patria, partecipando ai programmi di rimpatrio assistito organizzati per questi casi. Se questi obblighi (previsti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta) non possono essere soddisfatti, conclude il Greta, l’esecuzione dei trasferimenti forzati è in contrasto con l’obbligo di non respingimento.
Grave anche l’idea di bloccare la partenza dei migranti dalla Libia, confinandoli di fatto in una terra di nessuno dove sono esposti a ogni genere di abusi. L’accordo recentemente siglato dal governo italiano ha già fatto insorgere le proteste di organizzazioni umanitarie, come la Caritas e Migrantes, che ripropongono l’alternativa di canali di ingresso in Italia legali e sicuri.
La gestione del fenomeno migratorio non si risolve a tavolino, col rischio di farsi complici dei trafficanti. Così, la necessità di una pronta identificazione del migrante arrivato in Italia non giustifica uno smistamento frettoloso delle persone. Rimandare in patria un migrante, senza conoscerne la storia e senza alcuna forma di assistenza, potrebbe esporlo nuovamente ai suoi aguzzini. Questa considerazione è ancora più valida per le persone vulnerabili, donne e minori, per le quali alle difficoltà del viaggio si aggiungono, come si è visto, rischi ulteriori.