Il governo italiano, con il piano per l’immigrazione Minniti di recente convertito in legge, è determinato a riportare nel paese di provenienza tutti coloro che si trovino sul territorio italiano in stato di irregolarità. Rendere più efficaci le procedure di rimpatrio vorrebbe essere la risposta alla difficoltà strutturale che l’Italia ha storicamente incontrato nel rendere effettivi provvedimenti sulla carta di allontanamento degli stranieri irregolari. Ma se è vero, come dice il ministro Minniti, che il foglio di via non basta, è anche vero che il motivo di questa difficoltà, come spiega Guido Savio, avvocato dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione, è proprio la presunzione ideologica di espellere tutti e subito, invece di selezionare razionalmente chi si deve e soprattutto si può rimandare nel paese di provenienza.
Dove ci porta l’esternalizzazione
È del resto la stessa Unione Europea, nel suo Piano d’Azione sui Rimpatri, a chiedere all’Italia di rendere più efficaci le misure di rimpatrio forzato e, soprattutto, a suggerire la strada per riuscirci: la parola d’ordine è esternalizzazione, cioè il subappalto della gestione delle politiche migratorie a paesi terzi – da un lato per controllare le frontiere e bloccare le partenze, e dall’altro per riammettere rapidamente nei paesi di origine coloro che l’Unione Europea considera “indesiderabili” sul proprio territorio.
Un processo guidato dunque da una doppia logica di blocco: chiudere le frontiere marittime e terrestri in modo da impedire nuovi arrivi, e accelerare e semplificare le procedure di espulsione per rimpatriare in maniera forzata gli irregolari. Con drammatiche ricadute in termini di diritti umani: la caratteristica fondamentale del processo di esternalizzazione è infatti che in questo contesto si aprono trattative e si fanno accordi coi paesi d’interesse per la loro posizione geografica, senza nemmeno valutare il loro grado di rispetto dei diritti umani o come vengano gestite dai governi locali le questioni migratorie.
Gli accordi con Sudan, Libia e Nigeria
L’esternalizzazione è una strategia fondante delle politiche europee che ha inizio già nel 2006 col processo di Rabat, ma negli ultimi anni si è assistito a un’accelerazione degli accordi multilaterali con i paesi dell’Africa sub-sahariana – soprattutto attraverso il processo di Khartoum e il vertice di La Valletta – anche grazie al fatto che sono stati intanto messi sul tavolo delle trattative ingenti fondi europei per lo sviluppo. Allo stesso tempo, un identico approccio alle politiche di immigrazione viene perseguito anche a livello nazionale: per garantire maggiori controlli alle frontiere, riammissioni più semplici ed espulsioni accelerate, l’Italia non si è fatta problemi a stipulare accordi bilaterali con paesi come Libia, Nigeria e Sudan.
Si noti che questo tipo di accordi può assumere varie (e fantasiose) forme giuridiche: trattati di cooperazione, accordi di riammissione, memorandum d’intesa e intese tecniche tra polizie. Se i primi sono oggetto di un controllo del Parlamento italiano, che li deve ratificare, invece i secondi – e soprattutto gli accordi tra le forze di polizia italiana e quelle locali, da cui dipendono nel concreto le procedure di rimpatrio – sono oggetto di procedure semplificate o addirittura sfuggono a qualsiasi tipo di vaglio, tanto che a volte rimangono addirittura segreti – com’è stato per il caso dell’accordo con il Sudan. Inoltre, secondo il diritto internazionale e comunitario, i rimpatri ad alta velocità e basse garanzie sono ammissibili solo verso “paesi terzi sicuri”, ma la Direttiva Procedure UE lascia ampia discrezionalità agli stati membri nell’individuare quali paesi terzi siano effettivamente “sicuri”. E si direbbe che il governo italiano abbia proprio sopravvalutato le condizioni di sicurezza e legalità di buona parte dei paesi con cui ha aperto queste trattative.
È il caso del memorandum d’intesa con il Sudan, che è stato contestato in modo particolare perché si tratta di una delle peggiori dittature al mondo: sul presidente Omar al-Bashir pende infatti un mandato di cattura della Corte penale internazionale – per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra nel contesto del conflitto in Darfur, che ha causato circa 400 mila vittime e oltre due milioni di sfollati. Il primo dei rimpatri forzati eseguito sulla base dell’accordo col Sudan è già oggetto di un caso davanti alla Corte europea dei diritti umani (Cedu): secondo chi ha presentato il ricorso, in questo contesto è stato violato il divieto di espulsioni collettive e calpestato il sacro principio di non-refoulement. E così l’Italia rischia un’altra condanna come quella ricevuta nel 2012 per i respingimenti di massa verso la Libia in esecuzione dell’accordo tra Gheddafi e Berlusconi. Libia che intanto, nonostante la situazione di profonda instabilità nel paese e le continue denunce sui gravissimi abusi di cui sono oggetto i migranti, è tornata ad essere un alleato fondamentale dell’Italia – con tanto di stipula di un nuovo ma ugualmente contestato accordo per chiudere la rotta mediterranea centrale.
E infine, è analogo anche il caso dell’accordo di riammissione stipulato con la Nigeria, in virtù del quale a inizio 2017 il Ministero dell’Interno, d’intesa con l’ambasciata nigeriana in Italia, ha ordinato a varie questure di rintracciare e catturare un certo numero di nigeriani per rimpatriarli: “caccia al nigeriano”, l’hanno definita alcuni. E tutto questo avveniva nonostante l’Italia fosse già oggetto dell’attenzione di diverse istituzioni internazionali – dal Comitato per la Prevenzione della Tortura (CPT) al Gruppo di esperti per l’azione contro la tratta di esseri umani (GRETA) – per il caso delle donne nigeriane forzatamente rimpatriate nel settembre 2015.
Questi casi ci ricordano che alla base dell’esternalizzazione delle politiche sulle migrazioni c’è la violazione di diritti fondamentali, e che questo sistema di subappalto della gestione delle frontiere difficilmente si concilia col rispetto degli obblighi internazionali e degli accordi sui diritti umani a cui l’Italia è vincolata. E’ un paradosso, ma a ricordarcelo sono proprio le fondamentali istituzioni di tutela di quella stessa Europa che ci spinge a politiche del genere.
In attesa della deportazione, il limbo di Cpr e Hotspot
L’irrobustimento dei rimpatri forzati non si basa solo sugli accordi di riammissione con paesi di transito e provenienza dei migranti, ma anche su tutte quelle strutture destinate alla gestione o “smaltimento” di coloro che sbarcano sul suolo italiano senza aver diritto di fare domanda di protezione, o che si trovano sul territorio nazionale in situazione di irregolarità.
Da un lato, l’Italia è diventata, insieme alla Grecia, il laboratorio di sperimentazione del nuovo approccio sugli hotspot (voluto con forza dall’Unione Europea): molti rimpatri si effettuano così sotto forma di respingimenti differiti dagli hotspot – centri di filtro dei grandi arrivi, pensati per velocizzare le procedure di pre-identificazione e registrazione con l’obbiettivo di distinguere subito fra coloro che hanno diritto a fare domanda di protezione e chi invece va subito rimpatriato.
Non riesaminiamo qui i molti problemi di questi centri, ma va almeno ricordato che un recente rapporto del Garante nazionale per i diritti dei detenuti e delle persone private della libertà ha espresso gravi preoccupazioni per il limbo legale in cui si vengono a trovare le persone trattenute: i migranti – e soprattutto i più vulnerabili, come minori soli e donne incinte – restano di fatto bloccati ben più a lungo delle 48 ore (prorogabili solo fino a un massimo di 72) previste dalla normativa. E questa privazione di libertà de facto non trova adeguata disciplina e tutela legale, visto che l’unica legge che norma questi centri, se così si può chiamare, è quella dettata dalle procedure operative standard (Sop) del Ministero dell’Interno. Nelle parole del Garante, l’hotspot è “una sorta di limbo di tutela giuridica, nella quale le persone sono di fatto trattenute senza verifica da parte di un giudice e senza possibilità di ricorso” (con buona pace dell’articolo 13 della nostra Costituzione).
Dall’altro lato, l’Italia è tornata, con la nuova legge Minniti, a mettere lo strumento della detenzione amministrativa al centro della propria strategia – capillarizzando i centri su tutto il territorio nazionale (uno per regione) e quadruplicando la capienza degli stessi (dai nemmeno 400 posti attuali ai 1600 richiesti dalla nuova legge). Questo nonostante il fallimento storico dei Centri di identificazione e espulsione (Cie) – ora ribattezzati Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) – ne abbia dimostrato prima la disumanità e poi l’inutilità: infatti, meno della metà delle persone raggiunte da un decreto di espulsione e transitate nei Cie vengono poi davvero rimpatriate: per la precisione, stando ai dati raccolti dalla Commissione diritti umani del Senato, i rimpatriati erano il 55% nel 2014, il 52% nel 2015 e ulteriormente diminuiti al 44% nel 2016.
Converrebbe accoglierli: rimpatri forzati, facciamo i conti
Bisogna infine notare che il complesso sistema su cui si erge l’irrobustimento dei rimpatri forzati non è solo costoso in termine di diritti umani, ma anche in termini economici. A far luce sulla questione economica sono stati i dati dell’inchiesta Migrants files, che nello studio The Money Trails rivelano che dal 2000, per detenere ed espellere i migranti irregolari, i 28 paesi della Ue hanno speso almeno 11,3 miliardi di euro. La conclusione dei ricercatori è semplice ma importante: se avessimo accolto i migranti invece di respingerli, avremmo speso di meno. E questo senza nemmeno considerare i costi indiretti, e cioè i fondi per lo sviluppo che vengono esplicitamente usati come incentivi o penalità, una vera e propria moneta di scambio utilizzata nei negoziati con gli altri paesi per ottenere collaborazione sulle espulsioni e i rimpatri.
A fronte di simili violazioni dei diritti umani, delle effettive percentuali di rimpatrio, e dei costi economici diretti e indiretti, è difficile credere che l’estensione di un sistema non funzionale continui ad essere lo strumento per ottenere più rimpatri. Senza contare che un’alternativa più umana esisterebbe anche: quella dei rimpatri volontari assistiti, che raccontammo nel dettaglio qui.
Per saperne di più:
- Detenzione dei migranti e rimpatri forzati, il punto con il primo Garante Nazionale;
• Migrazione e libertà, il punto di un anno di monitoraggio del Garante Nazionale; - Peggio del carcere: il rapporto del Garante su Cie/Cpr e Hotspot;
- Il processo di esternalizzazione delle frontiere europee: tappe e conseguenze di un processo pericoloso;
- Rimpatri forzati in Sudan, il ricorso contro l’Italia a Strasburgo;
- L’alternativa umana dei rimpatri volontari assistiti.
Foto di copertina: UN Photo/Albert Gonzalez Farran (CC BY-NC-ND 2.0).