I rimpatri forzati avvenuti nel 2020 e durante i primi nove mesi del 2021 rivelano un calo rispetto ai dati del biennio precedente a causa delle conseguenze del Covid-19 sui trasporti aerei oltre che, almeno nella prima fase della pandemia, sulla possibilità di garantire una piena sicurezza sanitaria durante le operazioni di trasferimento e di viaggio per i destinatari di un provvedimento di uscita dall’Italia e di rientro nel proprio paese d’origine.
Dall’ultimo Rapporto tematico sull’attività di monitoraggio dei rimpatri forzati di cittadini stranieri, diffuso dal Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, è emerso che il paese di destinazione per la maggior parte dei rientri è la Tunisia, con 1159 casi su un totale di 2226, seguita dall’Albania con 462 casi, e dall’Egitto con 252 (dati del periodo 1 gennaio – 15 settembre 2021).
Il 61,2% dei rimpatri forzati sono avvenuti tramite voli charter con scorta a bordo (1362 casi), il 12,3% attraverso voli commerciali con l’ausilio della scorta (274) e il 26,5% con voli commerciali senza l’impiego della scorta (590).
I rimpatri forzati possono essere eseguiti secondo queste tre modalità – spiega a Open Migration Mauro Palma, presidente dell’Autorità Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale – i voli commerciali si utilizzano se si tratta di singole persone, come quest’anno è avvenuto per tre cittadini cileni, un ivoriano e un salvadoregno; se il volo è breve e ci sono elementi che consentono l’operazione in tranquillità si valuta il viaggio senza scorta a bordo.
Dalla chiusura del Rapporto, c’è stato un altro rimpatrio di 19 persone verso la Nigeria con un volo charter, e quindi il totale aggiornato al 9 ottobre è di 2245 casi.
Prof. Palma, quali sono le maggiori criticità che i monitor dell’Autorità Garante hanno riscontrato nelle operazioni di rimpatrio forzato?
Per quanto riguarda le criticità di tipo operativo, sono state riscontrate carenze nei luoghi dove le persone attendono il controllo consolare, come ad esempio l’aeroporto di Palermo che è uno degli scali più utilizzati per le persone che arrivano dai Centri di permanenza per i rimpatri, dislocati soprattutto nel Meridione. L’attesa del volo è un momento emotivamente molto rilevante e il luogo dove questa avviene va assolutamente migliorato. Il secondo aspetto critico riguarda i mezzi di contenzione, come le fascette di plastica ai polsi: anche se oggi si usano meno di qualche anno fa, quando erano adoperate in automatico, sono ancora molto diffuse.
C’è poi un aspetto che riguarda la salute della persona destinataria del provvedimento, che deve risultare idonea al viaggio secondo il parere di un medico. Ma il concetto di “fit to fly” è a nostro avviso riduttivo, perché dovrebbe essere esteso anche alla possibilità di accesso alle cure all’arrivo, e non solo all’idoneità al volo. Ci sono persone che soffrono di patologie compatibili con un viaggio aereo, ma che nei paesi di destinazione non hanno la possibilità di proseguire le cure che invece gli sono state garantite in Italia. La valutazione complessiva del singolo caso dovrebbe includere anche le condizioni del sistema sanitario del paese di origine. Così com’è stato acquisito il principio per il quale non si può inviare una persona dove potrebbe subire maltrattamenti o tortura, dovremmo cominciare a considerare anche questo aspetto come condizione di idoneità o meno al rimpatrio.
A che punto siamo con la cooperazione con i paesi di destinazione?
Stiamo cercando di costruire una rete con organismi, laddove esistono, simili al nostro, proprio per portare avanti accordi di cooperazione fra chi esegue il rimpatrio e chi si fa carico della persona all’arrivo. L’obiettivo si sta concretizzando con la Tunisia, con cui abbiamo già avviato una serie di incontri, perché è fondamentale che un’autorità indipendente, possibilmente riconosciuta dall’Onu, accolga i rimpatriati o comunque registri che cosa succede loro, se tornano dalle famiglie, che tipo di percorso seguono, come si ricollocano nel paese d’origine.
La politica europea ha puntato molto sui rimpatri: è una strada percorribile ragionando sul tema della gestione dell’immigrazione?
Dovremmo chiederci se la politica dei rimpatri sia fruttuosa nel lungo periodo. Per quanto riguarda quelli volontari è giusto puntarci, soprattutto se parliamo di cittadini di paesi vicini, mentre resto più scettico sui casi di chi ha fatto viaggi molto più lunghi, che magari ha attraversato il deserto e difficilmente punta a tornare indietro, anche con un eventuale incentivo.
Sui rimpatri forzati faccio un esempio: l’ultimo volo organizzato verso la Nigeria ha riportato nel paese 19 persone, ma inizialmente era stato organizzato per trasportarne 40. Alcune di loro non erano in condizioni di affrontare il viaggio, altre avevano fatto domanda di asilo e così il numero si è ridotto. Il personale impiegato nell’operazione però è rimasto lo stesso: 80 unità di scorta, oltre al medico, al caposcorta, ai nostri monitor e al personale di bordo. È davvero un investimento che paga o quelle stesse risorse sarebbero potute essere allocate in altro modo? Come Ue dovremmo ragionare in prospettiva, sul futuro di questo tipo di politica.
Come sono stati gestiti i rimpatri forzati con la pandemia?
Nel 2018 i rimpatri forzati sono stati 6398, nel 2019 sono saliti a 6531. Nel 2020 sono scesi a 3151; quest’anno siamo a 2245, e anche se dovessero aumentare entro la fine di dicembre non si arriverà ai numeri di due anni fa. Il calo è dovuto in parte alle chiusure degli scali aeroportuali che si sono verificati a causa della pandemia, ma anche alla difficoltà di poter testare, almeno inizialmente, i rimpatrianti.
Oggi la procedura è più semplice per chi arriva da un Cpr o da un carcere perché in entrambi i luoghi si è sviluppata una campagna di tamponatura e di vaccinazione. Nelle carceri in particolare i numeri delle persone affette da Covid sono bassissimi, parliamo di una novantina di casi su un totale di oltre 53mila persone detenute, la maggior parte delle quali asintomatiche, risultate positive all’ingresso nel penitenziario, e dunque con la possibilità di essere subito sottoposti a isolamento dopo il tampone.
Il problema Covid oggi si pone eventualmente sono per chi riceve il provvedimento senza provenire dal carcere o dal Cpr. I voli sono comunque resi sicuri dal punto di vista sanitario a tutela della persona da rimpatriare e del personale che lo accompagna, dato che i contatti sono molto ravvicinati.
Come Autorità Garante vi è capitato di bloccare dei rimpatri per motivi di salute?
Si, un caso è avvenuto proprio pochi giorni fa perché la persona soffriva di diverse patologie. Quando solleviamo un’eccezione di questo tipo c’è sempre una risposta collaborativa e professionale delle scorte, e si dialoga per trovare la soluzione in modo da far valere il principio di precauzione, a tutela dei destinatari del provvedimento e anche del nostro paese che cerchiamo di preservare dalla possibilità di ricevere accuse a livello internazionale.
Vi siete mai imbattuti in casi di rimpatrio dove fossero coinvolti – erroneamente – minori?
Formalmente i minori non possono essere destinatari di un rimpatrio, ma a volte possono presentarsi due situazioni limite: è possibile che la persona dichiari una data di nascita che ne attesti la maggiore età e poi la smentisca, anche se è un’eventualità molto rara, oppure che un ragazzo che ricorda solo l’anno di nascita ma non riesce a provare una data precisa venga registrato al primo gennaio. In questi casi si deve procedere all’accertamento dell’età che non può essere fatto solo attraverso la radiografia ossea, perché potrebbe non risultare perfettamente attendibile a causa di una crescita soggettiva più o meno rapida. Il rimpatrio viene dunque bloccato.
Com’è organizzato il lavoro dei monitor?
Le fasi del rimpatrio sono tre: il pre ritorno, che include la preparazione al Cpr, la pre partenza che riguarda le operazioni di identificazione che avvengono nello scalo aeroportuale e il volo effettivo. Il monitoraggio può essere condotto interamente dagli stessi monitor durante tutte le fasi, ad esempio se il volo parte da Roma e le persone provengono da un Cpr della capitale. Se invece le provenienze sono diverse, ci si rivolge alla rete dei garanti regionali che lavorano con noi che seguono le operazioni di pre ritorno, fino all’arrivo in aeroporto. L’essenziale è che tutti abbiano la stessa formazione e applichino la medesima procedura. Un aspetto importante del nostro lavoro, che si svolge su quattro aree (penale, di polizia, dei migranti e della salute) è che tutti gli operatori svolgano il lavoro di monitor, anche se seguono aree diverse, perché occupandoci di privazione della libertà siamo di fronte a tante vulnerabilità, ed è fondamentale una cultura condivisa e priva di settorializzazioni.
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