Il magazzino dell’hub di via Sammartini un tempo era un nightclub, lo Shangai Cafè, “elegante bar-ristorante aperto fino a tardi con band dal vivo e moderno menù mediterraneo con buffet”. Del vecchio locale non c’è più l’insegna né alcun segno degli arredi, compreso il grande tavolo da biliardo. Il magazzino è tornato al suo stato di grotta ferroviaria, tranne che per una scala con la ringhiera in ferro e un soppalco sotto il quale una volta c’era un pianoforte. Lì adesso si impilano colonne di scatoloni fin quasi a sfiorare il soffitto. Anna, la responsabile del magazzino, ha la sua scrivania coperta di carte accanto alla rampa di scarico. Molti di coloro che vengono a portare donazioni ci tengono a visitare i magazzini. “Venire qui,” dice Anna, “ha un grande significato per queste persone, non si limitano a lasciare le cose che hanno portato e andarsene. Vogliono vedere com’è, come funziona”. Al vecchio hub di via Tonale, i volontari mi avevano raccontato che le donazioni arrivavano a pioggia, senza pause e, in perfetto stile milanese, quasi tutte anonime. “Arrivo e trovo… scatoloni su scatoloni di calzini! Come fa la gente a sapere che avevamo bisogno di calzini?” mi aveva detto allora Gianluca, il volontario che oggi è parte dello staff.
Anna porta in giro anche me nei due depositi uniti da un passaggio ad arco, in un caos di flaconi di bagnoschiuma e asciugamani, brande che hanno fatto il loro tempo e aspettano di essere portate via, scatole con abiti per bambini. Gli appelli periodici per le donazioni vengono lanciati dal Comune; a volte sono generali, a volte invece molto mirati, come quelli per le cose nuove da acquistare, come pannolini, assorbenti e salviette igieniche. La risposta dei cittadini è sempre molto forte. Le dimensioni di questo magazzino – e bisogna immaginarne tanti altri, dalla Grecia fino alla Germania – riecheggiano le dimensioni stesse dell’emergenza profughi. Che i milanesi continuino a rifornirlo è commovente, ma che nonostante questo continui a svuotarsi è qualcosa che si fa fatica a immaginare.
Da tre anni, i transitanti sfiniti trovano a curarli il dottor Mohamed Boustani. Siriano, minuto, dal sorriso mite, occhiali e completo grigio, anche il suo percorso personale sembra un destino: 66 anni, da circa 40 in Italia, uno di otto figli di un proprietario terriero, da giovane vedeva suo padre ospitare nella loro grande casa decine di archeologi italiani e sognava di studiare medicina in Italia. Ancora adesso considera come parte della famiglia le persone che all’inizio lo accolsero a Parma. Pneumologo e chirurgo, si è laureato a Milano. “Ringrazio Dio mille volte di aver messo questo lavoro sulla mia strada, perché queste persone hanno tanto bisogno”. Oggi piove e tutti i giovani che di solito starebbero fuori a giocare a pallone sono seduti all’interno. Seduti qui sulle sedie di plastica bianca nella luce al neon, fa uno strano effetto sentire il dottore raccontare dell’antico quartiere veneziano di Damasco o della sua Mesopotamia, “la terra d’origine dell’essere umano, la terra della prima coltivazione del grano”.
“La nostra è già di per sé una professione nobile, che non può mai essere indifferente,” osserva, “ma da qui, dal lavorare con queste persone, viene una soddisfazione profondissima; arrivano che non riescono a camminare, che non riescono a mangiare. Quando la tensione del viaggio si allenta, si afflosciano. Io qui con un po’ di sali minerali e tachipirina posso rimetterli in forze: è il lavoro più bello del mondo”. Boustani ha cominciato a dare una mano come volontario nel 2013, quando l’hub era sull’ammezzato della Stazione Centrale: “Mi hanno chiamato, c’era bisogno di acqua e medicine e di qualcuno che parlasse arabo; la sera o nel fine settimana, quando non lavoravo come guardia medica, ci andavo con i miei amici. A volte mi chiamavano di notte. Un giorno ho portato anche uno dei miei figli, aiutava anche lui a tradurre; c’era un uomo con i piedi molto gonfi per un’infezione, aveva bisogno di una pomata micotica, l’assessore Majorino è venuto con me e mio figlio in farmacia.” Nel racconto di Boustani sento di continuo il legame fra l’aiutare e l’essere stato un tempo aiutato e la riconoscenza verso i medici che gli hanno dato l’opportunità di fare di questo il suo vero lavoro.
Le cure di cui hanno bisogno i transitanti sono uno specchio dell’epopea migrante. La patologia più frequente è la scabbia, conseguenza degli attraversamenti nel deserto e in mare. È facile da trattare e dopo pochi giorni non è più infettiva. Boustani mi dice che i problemi principali sono disidratazione, malnutrizione, stanchezza cronica. “Appena si riposano e li nutriamo e idratiamo, riprendono le forze. Lo vedi subito, perché ricominciano a sorridere. Arrivano qui che sono scheletrici. Di solito riprendono un chilo al giorno, ma ho avuto anche una ragazza che ormai pesava solo 35 chili e ne ha ripresi 15 in cinque giorni, una cosa stupefacente. La cosa che mi impressiona è che a volte non si tratta della fame accumulata durante il viaggio, ma di una denutrizione addirittura precedente – la fame che li ha spinti a mettersi in viaggio.”
Gli chiedo se qui non gli serve conoscere la storia del paziente per fare una diagnosi. Per via del contesto migratorio, è come se tutti i transitanti condividessero un’unica, grande storia clinica. “Capisco quello che hanno da uno sguardo – se arrivano dicendo che hanno prurito, so che è la scabbia; altrimenti cerco di farmi spiegare, anche quando non c’è l’interprete dal tigrino ci arrangiamo. In genere non hanno problemi che si protrarranno nel tempo. Gli unici traumi duraturi sono quelli di chi ha subito una violenza carnale”. Poi ci sono le ustioni, “perché sulle barche si sta tutti pigiati, non c’è posto, allora qualcuno si infila troppo vicino al motore, e i motori sono vecchi e perdono carburante. Le ustioni vanno curate con l’antibiotico e la connettivina”. Non mancano nemmeno i segni della violenza e della guerra: “alcuni hanno ferite da arma da fuoco, da proiettile, ferite spesso riportate in Libia. I siriani a volte hanno ascessi provocati da ferite da scheggia che non sono state curate. Altri sono stati curati al momento dello sbarco”.
Quando rivedo il dottor Boustani è una giornata molto fredda di fine novembre e all’hub è arrivata tantissima gente. Lui è uscito per strada in golfino e guanti chirurgici e sta rientrando in ambulatorio, dove c’è molto da fare. “Oggi sono arrivati tanti bambini!” mi dice. Ed eccoli là, ovunque guardo, piccoletti seduti sui tavoli, di uno o due anni, circondati dagli adulti e dai volontari del Comune. Boustani mi aveva detto di aver osservato un grande cambiamento psicologico nei transitanti, negli ultimi mesi:”adesso che non si fermano più solo per tre o quattro giorni, diventano irrequieti, soprattutto i più giovani; fanno tardi la notte sulle brande a chiacchierare e poi di giorno si trascinano qua e là, gli viene mal di testa; sono giovani e hanno bisogno di fare, allora devo metterli un po’ in riga se provano a saltare la fila. Prima, riacquistavano subito anche lo slancio di rimettersi in viaggio. Sapevano che la parte peggiore era passata. Ma adesso arrivano qui e sentono parlare delle frontiere chiuse, sanno che probabilmente non riusciranno a raggiungere la meta”.
È capitato così anche a Omar, 38 anni, eritreo della zona costiera dell’isola Baka, che è scappato per raggiungere la Svezia ma è stato costretto a chiedere asilo in Italia, dove è sbarcato tre mesi fa. Omar parlava tigre in casa, capisce il tigrino, parla inglese, sta studiando italiano e sa perfettamente l’arabo – dal quale Hani, un operatore dell’hub, ci aiuta a tradurre. Omar lavorava in Arabia Saudita quando ha infranto la norma per cui si può lavorare per un solo committente. E’ stato espulso senza documenti e rimpatriato in Eritrea. Era partito per evitare la leva obbligatoria. Uno dei suoi fratelli, mi dice, “sta facendo il militare da 21 anni”. Una volta rimpatriato, Omar è rimasto a casa solo tre settimane prima di ritentare la fuga. “Sono andato ad Asmara, da lì in Sudan, a Khartoum, poi da lì ad Alessandria d’Egitto, e da lì all’imbarco a un centinaio di chilometri, a Rashid,” cioè il porto di Rosetta. “Ad ogni attraversamento ho dovuto pagare un trafficante. In Sudan sono rimasto fermo un mese mentre aspettavo i trafficanti”. Ha finito tutti i soldi pagando il passaggio in barcone, 2500 dollari, e gli ultimi 200 gli sono serviti all’arrivo in Sicilia. “Per fare la traversata ci vogliono otto giorni. Ci hanno fatto salire in 80 su un barcone di legno. Dopo un giorno e mezzo, in mare aperto, ci hanno trasbordato su un altro barcone di legno un po’ più grande, sul quale c’erano già altre 100 persone. Poi ci hanno fatto passare tutti su un terzo barcone, alla fine eravamo 350 persone. C’erano donne e anche bambini, forse 50 bambini alti così, e dieci neonati”. Gli chiedo se avevano acqua e cibo. “Acqua sì, e poi io avevo un po’ di caramelle e di formaggio nello zainetto. Gli scafisti ci hanno dato delle forme di pane piene di muffa. Io sono stato nella stiva, di sotto, per otto giorni”. Deve essere stato difficile. “Sì, ma… tough africano!” dice battendosi una mano sulla spalla, e fa un gran sorriso. “Siccome nella stiva c’era l’acqua da bere, ogni tanto salivamo a portarla agli altri”.
Omar e i suoi compagni di viaggio sono stati recuperati da un’imbarcazione della Guardia Costiera.”Sono arrivati a prenderci dopo circa mezza giornata dalla nostra chiamata, siamo stati a bordo con loro per un giorno e poi ci hanno fatto sbarcare a Messina. All’arrivo ci hanno fotografato di fronte e di profilo e al centro accoglienza ci hanno costretto a lasciare le impronte. Molti si rifiutavano perché non volevano restare in Italia, e ho visto i poliziotti picchiarli. A uno hanno rotto un braccio, un altro aveva il labbro spaccato. Siccome parlo un po’ di inglese, sono andato io a protestare. Un poliziotto, quando ha visto che riusciva a comunicare con me, mi ha detto che le impronte erano solo una formalità. Gli ho detto, io sto andando in Svezia, non voglio restare qui. E lui insisteva, dobbiamo prenderle solo per identificarvi, stai tranquillo, non sono vincolanti. Ho dato le impronte e poi ho scoperto che non era vero. ”
Quello stesso giorno, il 15 agosto, siamo ripartiti dal centro di accoglienza. Abbiamo dormito alla stazione di Messina, da lì ci hanno portato in autobus a Roma e da lì a Milano. Ci hanno fatto scendere dall’autobus a Lampugnano” – dall’altra parte della città rispetto all’hub di via Sammartini, di cui Omar non conosceva l’esistenza prima di arrivare – “e da lì ce la siamo cavata con la metropolitana, saltando i tornelli, perché non avevamo il biglietto, e cambiando linee fino alla Stazione Centrale. Quando sono arrivato ho telefonato a mio fratello in Svezia e gli ho detto delle impronte e lui mi ha detto, ti hanno fregato. Adesso devi restare per forza in Italia”.
Così, da semplice transitante, Omar è diventato uno dei tanti richiedenti asilo il cui numero è esploso da quando viene applicato alla lettera il regolamento di Dublino. All’hub dà una mano con qualche lavoretto e con le traduzioni, gli operatori lo hanno aiutato ad avviare la procedura d’asilo. Se non altro, la sua dovrebbe essere piuttosto veloce, a differenza di chi viene da paesi considerati “sicuri” come il Gambia o il Senegal. Omar non vuole andare in un’altra struttura mentre aspetta, perché gli piace che ogni giorno qui ci siano persone diverse. Ha due sorelle e sette fratelli. Gli chiedo se ha avuto paura durante il viaggio e lui con una mano sul cuore dice “io non ho mai paura”. Indica il cielo,”ho paura soltanto di Dio”.
Prima di salutarci mi dice che tifa per la Roma, allora gli chiedo se ogni tanto va fuori a giocare a calcio con gli altri. “Non posso, ho un ginocchio malandato.” Lo prendo un po’ in giro: “tough africano, eh?” e lui ride. Ha un braccialetto di perline nere e gialle che è arrivato intatto con lui dall’Africa: “È un braccialetto di Bob Marley. C’è scritto ‘Iron, Lion, Zion'”.
Potete leggere qui la prima e la seconda puntata del reportage. La prossima parte del nostro reportage sull’hub di Milano, la quarta e ultima, sarà pubblicata il 6 dicembre.
FOTO COPERTINA: Nel magazzino dell’hub di via Sammartini. Foto di Marina Petrillo.