Quando abbiamo cominciato questo viaggio, i transitanti accolti in tre anni in via Sammartini erano 107.000. Adesso sono arrivati a a 114.000, di cui 21.500 bambini. Qui, fra giovani e giovanissimi, riflettere sul futuro è inevitabile. All’ambulatorio dell’hub, un pediatra offre un’ora al giorno di lavoro volontario, ma non è sufficiente, e il dottor Boustani è abituato a curare da sé anche i bambini. Mi ha detto che deve averne curati 700. Così, la nostra esplorazione finisce dov’era cominciata: davanti ai disegni dei bambini nell’angolo gestito da Save the Children e L’Albero della Vita. E il giorno in cui vado a incontrare gli operatori, l’hub, all’improvviso, trabocca di famiglie curde – ci sono bimbi piccoli dappertutto.
Nei disegni c’è tanta acqua azzurra, e qualche pescecane. Francesco Salvatore, responsabile del Programma Emergenza Minori de L’Albero della Vita, me ne mostra uno in cui si vede un delfino, e poi i gommoni affollati, la panciuta nave italiana che issa i migranti a bordo, ma anche elicotteri, blindati, rovine. “Il nostro compito è quello di creare un luogo sicuro dove i bambini possano fermarsi, adattarsi con i loro tempi, giocare, alleviare la fatica dei loro genitori. Un luogo con una sua normalità, con poche regole precise, con momenti di gioco strutturato, la merenda, ma anche uno spazio libero dove giocare per conto proprio – e lì spesso notiamo che si sfoga una certa aggressività accumulata. I rituali aiutano – si celebra l’arrivo di ogni bambino, e il saluto al momento di separarsi”. Fra gli strumenti di lavoro ci sono nuove fiabe visuali, senza parole, che mostrano ai bambini l’epopea del loro viaggio. Anche fra gli adulti, ho notato, sta nascendo un’epica del viaggio, dell’impresa compiuta come qualcosa di eroico e indimenticabile. “Per un bambino è molto rassicurante apprendere che tanti bimbi prima di lui hanno affrontato questo viaggio, e tanti seguiranno,” dice Francesco. “Rende la paura più gestibile, meno ignota, meno fuori dal comune, fa capire che la parte peggiore è dietro le spalle”.
Gli operatori dell’hub hanno osservato nei bambini una straordinaria capacità di ripresa. L’Albero della Vita ha collaborato con l’Università Cattolica di Milano a uno studio sulla resilienza dei bambini migranti in transito. I bambini hanno forti ricordi di casa, delle festività tradizionali, dell’ultima cosa fatta prima di partire: “mi manca il mio gatto che ho lasciato in Siria dopo avergli dato lo yogurt”, dice uno dei disegni che mi mostra Francesco. Nell’hub e negli altri centri milanesi, come quello di via Mambretti, i bambini trovano un rifugio, e i pre-adolescenti qualche punto di riferimento perduto. “Due anni fa è arrivata una bambina che non parlava da 11 giorni. Il padre era preoccupatissimo. Ha ripreso a parlare proprio qui. Fra i pre-adolescenti, alcuni sono nati nei campi profughi e non hanno mai studiato, e altri magari non vanno a scuola da due anni per via della guerra, e chiedono agli operatori di poter avere i libri di scuola, una cosa che ci ha colto di sorpresa.”
Una parte, prevalentemente maschi, sono minori non accompagnati. Molti vengono mandati in viaggio da famiglie che non hanno la possibilità di partire, altri hanno perduto i genitori. È difficile perfino conoscerne la vera età: “per la loro sicurezza li consigliano, di’ che sei più piccolo, di’ che sei più grande”. Secondo i dati dell’UNHCR, fra gennaio e luglio del 2016 il 59% degli egiziani giunti via mare erano minori. Se gli egiziani adulti non hanno alcuna speranza di ottenere asilo, la nuova normativa italiana lo garantisce a tutti i minori non accompagnati, anche quando non ne fanno richiesta. Il vero dramma riguarda i minori non accompagnati di cui si perdono le tracce. A fine luglio 2016, su 12.700 minorenni nel sistema di accoglienza in Italia, solo 3.000 avevano richiesto asilo. “Molti scappano, evadono dalle strutture che servirebbero a proteggerli, vogliono rimettersi in viaggio ed è molto difficile fermarli”, dice Francesco. “Ecco perché li informiamo sui loro diritti e sui principali pericoli del viaggio – droga, sfruttamento e prostituzione”. Al 31 luglio 2016, erano 5315 i minorenni che risultavano irreperibili nelle strutture di accoglienza censite dal ministero.
Davanti a una cioccolata liofilizzata, a questo tavolino in un angolo del cavernoso magazzino, Francesco dice che far funzionare l’hub com’è oggi non è stato affatto facile: “senza la cabina di regia del Comune sarebbe stato impossibile far durare una rete così complessa,” dice Francesco. “Dopo la prima ondata di solidarietà emotiva, ci voleva un enorme sforzo per armonizzare le risorse, e per mettere a sistema i volontari, che sono per natura disomogenei. Il motivo per cui l’hub ha funzionato è che qui ognuno ha il proprio ruolo e sa esattamente cosa fare.”
“L’idea politica è di metterci la faccia, di prendersi la responsabilità,” mi dice Pierfrancesco Majorino, che nella cabina di regia ci sta dal primo giorno. “Non si può pretendere che l’accoglienza si risolva con la filiera delle prefetture, o che se ne faccia carico da solo il terzo settore” Assessore alle politiche sociali del Comune di Milano prima con il sindaco Pisapia e oggi con Sala, anche lui si ricorda l’inizio di tutto: “una riunione volante al Panino Giusto”, un bar sotto il gelido porticato della Stazione Centrale. Una delle intuizioni più forti che ha avuto è stata quella di mettere a sistema le risorse di Milano tenendo insieme profughi, senzatetto e famiglie italiane bisognose, senza separarli, e a volte, come succede in via Mambretti, facendoli proprio convivere. “I profughi non li seguiva nessuno, le prefetture non se ne occupavano,” dice. “Bisogna tener presente che soltanto il 30% di queste persone sono quelli che noi chiamiamo prefettizi,” cioè persone identificate allo sbarco e messe sugli autobus per arrivare al nord, o che hanno chiesto asilo al momento dell’identificazione. “Tutti gli altri,” mi dice Majorino, “sono persone che arrivano con mezzi propri, e che si trasformano in richiedenti asilo quando arrivano qui. Noi una risposta a questo la dobbiamo dare.”
“In assenza di una vera politica nazionale sull’immigrazione – basta guardare il disastro che hanno fatto a Roma con il centro Baobab – per noi questa è solo una base per guardare avanti. La prossima frontiera, il passaggio dove dobbiamo diventare più bravi, è l’inserimento dei richiedenti asilo – lingua, integrazione sociale, lavoro, casa. Per noi è fondamentale metterli in relazione col territorio, e tutelarne la salute, e la salute mentale in particolare, cioè la protezione dei fragili tra i fragili. La rete che abbiamo creato è avvincente, ma c’è ancora un grande potenziale inesplorato. Abbiamo bisogno che la rete delle femministe si mobiliti per le donne straniere violentate, abbiamo bisogno di psicologi. Adesso ci siamo inventati una conferenza nazionale autoconvocata sull’immigrazione, per condividere modelli e soluzioni con i comuni che ce l’hanno chiesto. Devi pensare che il 20% delle città accoglie, l’80% no; da questo 80% togli i comuni disastrati o piccolissimi, resta ancora un 50% che potrebbe accogliere; metà di questi sono comuni duri e puri della Lega o della destra che non vogliono accogliere, ne resta comunque un 25% che può accogliere; e poi Milano deve poter condividere questo sforzo con la cintura metropolitana.”
Se dall’hub guardi in fondo a via Sammartini, si vede svettare il Pirellone, sede della Regione Lombardia governata dalla Lega, che ha negato all’ultimo momento l’utilizzo degli ex alloggi dei lavoratori di Expo. “Eh, visto che ci hanno rifiutato il campo base di Expo per i profughi, chiederemo che almeno possa essere utilizzato per le famiglie italiane bisognose,” dice sornione Majorino. “Adesso la Regione ha dato parere negativo anche all’utilizzo del grande ex ospedale di Garbagnate. In questo caso procederemo lo stesso, perché la proprietà è del Comune e il parere della regione non è vincolante. E il prossimo passo è l’accoglienza nelle famiglie. Abbiamo lavorato con cinque famiglie pilota e vogliamo estendere la rete a 52”.
A ottobre i neofascisti di Casa Pound avevano protestato contro la destinazione della Caserma Montello di via Caracciolo a 300 richiedenti asilo. Il quartiere ha unito le forze e pochi giorni dopo ha tenuto una grande festa di strada con tutte le associazioni, molti immigrati, cibo e musica per dare il benvenuto ai richiedenti asilo. Chiedo a Majorino se una risposta così se l’aspettava. “Be’, è stata talmente forte che ne ha parlato perfino il Washington Post, è proprio un caso unico. E’ anche l’alchimia del quartiere che è molto particolare. Non mi aspetto altrove una risposta così, e va benissimo. In via Sammartini nessuno dà fastidio ai migranti, però poi gli abitanti mi incontrano per strada e giustamente si lamentano, così come gli abitanti di Quarto Oggiaro che ne ospitano 5/600 da quattro anni”.
Intanto sul futuro aleggiano incertezze che l’accoglienza non può risolvere. L’operatrice Reema e il dottor Boustani si chiedono cosa sarà della loro Siria, e pensano che sia in corso un tentativo di cambiare la distribuzione della popolazione sul territorio. Il dottor Boustani è ottimista soltanto perché “la Siria ha passato ogni genere di occupazione e distruzione, ne usciremo anche stavolta. Dai Romani ai francesi – finirà quando i giochi sporchi della vendita di armi saranno finiti, e le persone saranno morte per niente, ma la Siria si rimetterà in piedi come ha sempre fatto”. Reema, invece, teme di finire come la nonna palestinese, che per tutta la vita ha conservato le chiavi della casa di famiglia senza mai poterci tornare. E mi ricorda lo squilibrio economico impressionante che spinge le persone a rischiare tutto per raggiungere l’Europa. “L’altro giorno ho spedito 50 euro a mia cugina in Siria. Le sono bastati per il viaggio fino in città, le procedure per aprire la sua attività come medico, l’albergo e il viaggio di ritorno”.
Alberto Sinigallia del Progetto Arca pensa che il problema dei prossimi anni sia che “una volta ricongiunte le famiglie siriane in Nord Europa fino al raggiungimento del fabbisogno di forza lavoro, come è successo con il ripopolamento della Norvegia, le porte si sono richiuse. E qui i profughi non hanno un futuro.” Di tutti i richiedenti asilo in Italia, meno della metà ha probabilità di ottenerlo. Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International sui migranti in Italia, nel 2015 ha ottenuto asilo il 42%, e fino al 7 ottobre di quest’anno lo ha ottenuto il 38%. Alcune migliaia in più lo hanno ottenuto in appello, dopo il primo diniego. Tutti gli altri non lo hanno ottenuto, e senza denaro né documenti, non potendo chiedere asilo altrove o tornare a casa, si perdono per le strade d’Europa, vulnerabili a ogni tipo di sfruttamento.
Intanto Omar, che attende asilo, non ha alcun sogno: “l’unica cosa che voglio è lavorare. E poi sposarmi. E siccome l’Africa ormai l’ho messa dietro le spalle, magari mi sposo con una ragazza europea. In Africa ci tornerò solo da turista.” Sinigallia dice: “Non so, io ho una certa esperienza di posti con grande povertà, compresi gli slum di Calcutta, ma qualche mese fa sono stato in Costa d’Avorio – che è considerata la Svizzera dell’Africa, e sono rimasto impressionato dal livello di povertà di Abidjian. Lì ho capito. È una povertà tale che nessuno, non importa con quali capacità o talento o forza di volontà, può avere la minima speranza di migliorare la propria condizione. Nessuno può emergere socialmente da lì, si può soltanto sopravvivere a livello animale, per tutta la vita, un giorno dopo l’altro. È stupefacente che non siano in molti di più a partire.”
Prima di andare, penso alle centinaia di persone che hanno messo al servizio dei transitanti qualcosa di sé, che si sono lasciati cambiare da questa esperienza. Come dice Francesco, “il momento in cui si viene accolti, accettati, in cui la fatica viene alleviata, di fatto cambia il viaggio per queste persone.” Penso a tutti coloro che al viaggio non sono sopravvissuti. Agli afgani che continuano ad arrivare lungo quella rotta balcanica teoricamente chiusa; ai siriani che aspettano ammassati sul confine in Giordania e nei campi in Grecia, dove adesso cade la neve; e ai sudanesi, che non arrivano più da quando l’Italia ha stretto un accordo col Sudan per il rimpatrio forzato. Penso alla Libia in fiamme, dove alcuni sperano di ammassare i profughi in campi lontani dalla vista degli europei. E sento il battito dell’hub, cuore ruvido di una città che ha saputo come rispondere alla Storia.
Tutti i disegni sono tratti da “In viaggio verso il futuro – storie di bambini siriani in transito”, un’iniziativa di L’Albero della Vita e Università Cattolica.
Qui le puntate uno, due e tre del reportage.