Alle dieci sembra che la giornata sia già finita: la costa nord dell’isola di Lesbo è luce invernale e orizzonte senza foschia. Mentre la barca di Seawatch su cui viaggiamo si dirige verso il porto di Skala Sikaminias, lo sguardo percorre la costa turca, un’unica striscia azzurra a soli dieci chilometri da qui. A Sikaminias, la cui spiaggia è famosa per la montagna di giubbotti di salvataggio abbandonati lì dopo gli sbarchi, si va a fare una pausa, dopo una mattina di pattugliamento di questo tratto di costa greca dove sono arrivate, solo dal 1 gennaio 2016, 49.958 persone (dati UNHCR – aggiornati al 19 febbraio 2016).
Si inizia presto, partendo all’alba dal porticciolo di Molyvos: i gommoni di Medici Senza Frontiere, generosamente prestati dagli attivisti di Greenpeace, i volontari catalani di Open Arms, l’imbarcazione di Frontex. Ognuno cerca il suo pezzo di mare da sorvegliare, in attesa che la stazione radio Juliet, che fa avvistamento dalle colline poco fuori città, indichi le coordinate verso cui dirigersi.
Il confine tra le acque territoriali turche e quelle greche diventa, ogni giorno, il teatro oscillante di storie che troppo presto hanno iniziato a somigliarsi tra loro. L’Europa è lì, a due passi, pochi minuti, pochissima la pazienza rimasta, ma ce la si fa bastare. L’Europa è lì, col suo carico di promesse, col suo benvenuto sussurrato da chi conosce il resto della storia, e ha troppo pudore per alimentare speranze già messe a dura prova.
Perché mentre l’ennesimo barcone arriva a Lesbo, mentre si riesce miracolosamente a far sbarcare in condizioni di sicurezza 50, 60, 70 persone stipate su un gommone che ne potrebbe trasportare al massimo una decina, mentre il viaggio in balia di trafficanti senza scrupoli sembra ormai alle spalle, cosa succede davvero quando si arriva sulla spiaggia di un’isola dell’Egeo?
E soprattutto, quanto sappiamo, cosa ci chiediamo di un viaggio su cui forse, in Europa, abbiamo smesso di interrogarci perché preferiamo pensare a una soluzione che riguardi solo noi, e quindi soltanto chi è già arrivato? Stare a Lesbo per una settimana non equivale ad aver fatto quel viaggio in prima persona. Ma è il tempo sufficiente per farsi un’idea di come la situazione venga gestita, e di come basterebbe poco, in realtà, a rendere più accettabili le condizioni di chi arriva. E così, partendo dalle acque che separano Grecia e Turchia, e passando attraverso gli sbarchi, le fasi di registrazione, l’accoglienza e il proseguimento del viaggio, crediamo che qualche soluzione possa essere suggerita. Poiché è una precisa responsabilità di tutti, non solo della Grecia, contribuire affinché siano rispettati i diritti fondamentali.
1. Corridoi umanitari
83.201 arrivi via mare dall’inizio del 2016, 411 morti (dati IOM aggiornati al 19 febbraio): mentre in Europa il calendario scandisce l’inconcludenza di politiche frammentarie, non si smette di scappare dalla guerra e dalle persecuzioni, a costo della vita. Nella sola settimana che ho trascorso a Lesbo, sono avvenuti due naufragi, e il ritardo nei soccorsi ha provocato 50 vittime (tra cui 16 bambini). Il miraggio, per quasi tutti, è la concessione dell’asilo e della protezione umanitaria (1.294.000 richieste nel 2015, fonte Eurostat). La richiesta, da più parti, è quella di creare dei corridoi umanitari per far sì che si possa fare richiesta d’asilo direttamente alle istituzioni presenti nei paesi terzi, come la Turchia. Chi fugge dalla guerra, non smetterà di farlo. Ma certamente potrà evitare di imbarcarsi, affrontando una delle parti più pericolose del viaggio.
Lo scorso dicembre è stato lanciato in Italia il primo progetto di corridio umanitario: 1000 migranti arriveranno proprio attraverso uno di questi canali, nel corso di due anni, grazie a un accordo firmato dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) e la Comunità di Sant’Egidio con i Ministeri degli Interni e degli Esteri e l’apertura di “humanitarian networks” in Libano, Marocco ed Etiopia. Si tratta di migranti in condizioni di “estrema vulnerabilità” che entreranno nel nostro paese grazie a visti per “protezione umanitaria”. Al momento è arrivata solo la prima famiglia siriana: madre, padre e due figli — per la quale sono stati accelerati i tempi poiché la bambina, Falak, è malata e doveva iniziare le cure il prima possibile. Con l’accoglienza garantita e le spese coperte dalle summenzionate associazioni (in larga parte dall’8 per mille della Tavola Valdese), e non dallo Stato.
Viste le condizioni di chi arriva via mare, l’Europa deve assolutamente adottare questa politica il prima possibile, cercando di superare contrasti nazionali e concedendo fiducia anche a paesi che non fanno parte dell’Unione. C’è troppo in gioco per continuare a rimandare.
2. Superare Dublino
Uno dei più grossi ostacoli nella gestione dei flussi di migranti in arrivo in Europa è stato sicuramente il Regolamento Dublino III. La Convenzione sull’accoglienza firmata dagli stati europei a Dublino nel 1990 ed entrata in vigore nel 1997 (successivamente modificata nel 2003 e nel 2013) stabilisce una serie di regole riguardo alla gestione dei migranti che fanno richiesta di asilo nei paesi europei e degli standard condivisi per l’accoglienza dei rifugiati. Il regolamento ruota attorno a due punti chiave: lo Stato responsabile della gestione della domanda di asilo di ciascun rifugiato è quello in cui abitano legalmente i suoi parenti stretti, o dal quale ha già ricevuto un permesso di soggiorno. Ma, in assenza di legami accertati, lo Stato che si fa carico della domanda e dell’accoglienza è il primo in cui il rifugiato mette piede.
I problemi conseguenti a questa procedura sono evidenti: solo i paesi ‘di frontiera’, come la Grecia e l’Italia, che sono quelli in cui avviene la maggior parte degli sbarchi, si ritrovano a gestire la responsabilità dell’identificazione e delle richieste d’asilo. Per questa ragione la maggior parte dei rifugiati entra nell’Unione Europa illegalmente, senza documenti e cercando di non farsi identificare nel primo paese in cui arriva, poiché in genere è meno ricco dei paesi dell’Europa centrale o settentrionale, dove spesso gli stranieri sono diretti e dove vogliono chiedere asilo. Nessuno di quelli con cui ho parlato, a Lesbo, mi ha detto di voler restare lì. Il desiderio di quasi tutti quelli che mettono piede in Grecia è andare in Germania o nei paesi scandinavi. Ma se l’identificazione avvenisse prima dell’arrivo del richiedente nello Stato di destinazione, anche l’accoglienza e l’integrazione potrebbero essere programmate prima. Con procedure che avverrebbero in piena legalità, e soprattutto più sicure.
In un momento in cui si parla di ultimatum alla Grecia se non migliorerà il suo sistema di controllo delle frontiere, è il caso di rivedere, come già proposto da molti, che tutti facciano la loro parte, senza troppi giochetti su numeri e quote. Come ha affermato lo scorso settembre Bill Frelick, il responsabile dei rifugiati della ong Human Rights Watch, c’è bisogno di una revisione della regola del “primo paese”: “La norma per decidere quale paese debba esaminare la richiesta di asilo dovrebbe tenere conto del primo paese in cui è avanzata, non del primo paese in cui il rifugiato ha messo piede. Per ora le norme di Dublino lo permettono per i minori accompagnati: ma quella che per ora è un’eccezione, dovrebbe essere una regola. Ma la cosa potrebbe funzionare solo a fianco di un sistema di responsabilità condivise, cosicché le destinazioni più popolari non debbano subire tutto il peso da sole”.
3. Ricollocamento e collaborazione tra stati
Legato al punto precedente, perché anche in questo caso si parla di responsabilità collettiva dei paesi membri dell’Unione Europea. Le quote per il ricollocamento dei migranti ci sono, ma non vengono rispettate. Lo scorso settembre i paesi europei si erano accordati per suddividersi (ricollocare, si era detto) 160.000 rifugiati nell’arco di due anni. Di questi, 40.000 facevano parte di un sistema di accoglimento volontario approvato a giugno, mentre gli altri 120.000 erano stati ‘imposti’ agli stati con un sistema di quote. Ma fino a oggi solo 272 migranti sono stati ricollocati: lo 0,17 per cento della quota stabilita, e lo 0,03 per cento dei 1.008.616 migranti arrivati in Europa nel 2015. Molti paesi si sono tirati indietro. E presto la Grecia, che ha già i suoi problemi economici, una riforma delle pensioni ancora in alto mare ed è bloccata dagli scioperi (tre giorni senza traghetti che portavano da Mitilene ad Atene hanno mandato in tilt l’intero sistema), sarà al collasso.
Soprattutto se il confine con la Macedonia, come viene spesso annunciato, verrà chiuso. Proprio in Macedonia la situazione diventa ogni giorno più drammatica: il governo macedone ha avviato la costruzione di una seconda barriera con filo spinato lungo il confine con la Grecia. Si tratta di una rete eretta a 5 metri di distanza da quella già esistente. Una misura finalizzata a bloccare il flusso di migranti che dopo l’arrivo in Grecia intraprendono la rotta dei Balcani verso il centro e Nord Europa. Gli scontri tra migranti e poliziotti addetti al controllo della frontiera sono quotidiani, e intanto cresce il numero delle persone che occupano il campo di accoglienza di Idomeni, nella Grecia settentrionale, a 25 km dal confine con la Macedonia. Le temperature sono glaciali, e Save the Children ha recentemente denunciato le pessime condizioni a cui sono sottoposti i profughi, soprattutto i bambini: “A Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, dove le temperature scendono di parecchio sotto zero, le autorità hanno bloccato l’accesso a un centro di transito dove le agenzie umanitarie distribuivano tende riscaldate e cibo ai migranti.
Le famiglie sono ora costrette a dormire all’aperto in una stazione di servizio nelle vicinanze”. Le tende che l’UNHCR ha montato a Idomeni sono 51, possono ospitare circa mille persone, ma è difficile pensare che i flussi rallentino. Creando un problema di sovraffollamento ma, soprattutto, alimentandone uno già esistente: la gestione degli attraversamenti clandestini da parte della criminalità organizzata. L’ultima misura di cui si parla al confine greco-macedone è la possibilità che vengano a breve richiesti ai migranti, oltre ai documenti rilasciati nell’hotspot di Moria che attestano il paese di provenienza, anche i documenti personali, in modo da provare la loro effettiva nazionalità. Se dovesse essere effettivamente introdotta, questa nuova condizione svilupperebbe da un lato il già esistente mercato dei documenti, dall’altro aumenterebbe il numero dei “respinti”, quei migranti che vengono ricondotti dalla Macedonia ad Atene e che poi ritentano, a piedi, e rivolgendosi alla mafia locale, la traversata della frontiera.Come già detto, quando si è disperati e la via legale diventa troppo difficile, se ne trova un’altra.
4. Interpreti e garanzie
Quando avvengono gli sbarchi ‘in sicurezza’, ovvero con l’aiuto della Guardia Costiera o di Frontex, i migranti vengono fatti aspettare sulla banchina del porto di arrivo perché avvenga una prima registrazione, da parte della stessa Guardia Costiera. Vengono create delle code a seconda delle origini e della lingua parlata, dopodiché si procede col lento e faticoso dialogo tra migranti e agenti. Perché non ci sono interpreti. E i volontari che parlano arabo o gli stessi migranti che parlano un po’ di inglese danno una mano. Non si tratta solo di un problema di lungaggini, quanto di garanzia che ciò che viene dichiarato sia ben tradotto e ben interpretato. Perché la precisione con cui i dati personali vengono raccolti è fondamentale per decidere la sorte di chi arriva. Imran, un ragazzo afgano incontrato a Moria, mi ha raccontato che nel momento della registrazione ha menzionato alcuni dei paesi in cui ha vissuto prima di decidere di venire in Europa. Tra questi c’era l’Iran.
ll risultato è stato che, a causa di un errore dell’interprete, sul documento rilasciatogli c’era scritto che Imran era di nazionalità iraniana. Un errore che avrebbe portato al rischio di respingimento: il sistema attuale degli hotspot tende infatti a fare valutazioni molto sommarie, che portano a considerare la provenienza come criterio fondamentale, senza analizzare il caso singolo. Soprattutto perché, in questo momento, sono molti gli Stati europei che fanno passare solo chi viene da Iraq, Afghanistan e Siria, considerati gli unici richiedenti asilo a poter entrare. E questo è quello che viene detto a tutti coloro che arrivano, limitando così il loro diritto a essere informati correttamente e a fare richiesta di protezione internazionale. Il diritto a essere informati viene costantemente violato. Non siamo certi che i dati e le informazioni raccolti in condizioni non certo ottime dalla Guardia Costiera greca vengano utilizzati poi da Frontex per velocizzare le procedure ufficiali di registrazione. Ma non stupirebbe, visto che l’hotspot di Moria è stato spesso accusato di lentezza. E io stessa ho visto gli agenti della Guardia Costiera consegnare gli elenchi con i dati raccolti ai poliziotti di Frontex. Ma siamo davvero sicuri che sia questo lo standard dei controlli che vogliamo avvenga alla frontiera?
5. Sicurezza
Perché in fondo è anche questo: sicurezza per chi arriva e per chi già vive in Europa. Non c’è bisogno di rievocare il 13 novembre 2015 e i fatti di Parigi, o ciò che è successo (o non è successo) a Colonia lo scorso Capodanno per ricordare quanto la paura possa essere amplificata, diffusa e gettata sulle spalle di ha la sola colpa di venire, forse, dallo stesso luogo da cui arriva anche il terrore. Più garanzie e diritti a essere informati e tutelati giuridicamente avranno i profughi, più sarà semplice controllarne la provenienza, i dati, i documenti.
E’ necessario, e in questi momenti di populismo scatenato a inventare calamità e disastri diventa difficile, che si stabilisca un rapporto di fiducia con chi arriva. Che chi sbarca sulle nostre coste possa arrivare sapendo che verrà protetto, che gli saranno spiegati i suoi diritti e i suoi doveri. Va tagliato con decisione il filo con chi gestisce le corde dell’immigrazione clandestina, con un giro di affari che si pensa si aggiri intorno ai 3 miliardi di euro l’anno per la sola tratta fino alla Turchia. Ma per farlo, per combattere davvero i trafficanti di persone, non si può pensare solo a costruire recinti con filo spinato.
6. Minori
Quando ci si avvicina a uno dei barconi in viaggio verso l’Europa, non si nota subito: si vedono solo adulti, spesso uomini. Questo perché spesso i bambini e le donne sono seduti all’interno dell’imbarcazione, per una questione di sicurezza. E’ solo al momento dello sbarco, o quando ci si avvicina al gommone, che si nota la loro presenza. Secondo i dati diEurostat, l’agenzia europea che da pochi giorni ha rilasciato le cifre definitive sull’anno appena trascorso, quasi un terzo dei profughi arrivati nei paesi dell’Ue (più Norvegia, Svizzera e Islanda) sono bambini e adolescenti. Tantissimi, e non sempre insieme alle famiglie. Circa 25.000 di loro (dati del 2015), infatti, sono non accompagnati. Il rischio che siano vittime di tratta è molto alto, e l’arrivo con mezzi di fortuna non aiuta certo a individuarli.
In alcune giornate, quelle con il numero più alto di sbarchi, la Guardia Costiera non ha risorse sufficienti per controllare che tutti loro siano insieme a qualcuno che li tuteli. E a parte la presenza di qualche volontario e associazioni come Save the Children che cercano di rendere meno traumatico l’arrivo, non ci sono strutture dedicate. Proprio Save the Children, nel suo Rapporto di valutazione sulla situazione dei migranti in Grecia del 2015 ha evidenziato l’altissimo rischio di sfruttamento, abuso e malattie, spesso anche mortali, a causa del collasso del sistema ufficiale di accoglienza, dovuto alla crisi economica. Non dimenticando che i minori stranieri, anche se entrati irregolarmente, sono titolari di tutti i diritti sanciti dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989. (altre fonti sulla situazione dei minori stranieri)
7. Denaro
Il business che ruota attorno all’arrivo dei migranti è evidente all’esterno del campo di Moria: vendita di schede sim, di coperte, cibo, biglietti ‘tutto incluso’ che promettono passaggi sicuri da Mitilene al confine macedone, traghetto + bus. I servizi all’interno del campo sono ovviamente gratuiti, ma non sempre sufficienti. Perfino le navette che portano da Moria a Mitilene, bus che appartengono al comune e venivano impiegate come navette turistiche, hanno un costo. I migranti hanno ancora un lungo viaggio davanti a loro, e sono già fortemente indebitati per quello appena compiuto (i pagamenti avvengono attraverso il metodo dell’hawala, un sistema che risale al Medioevo e che è essenzialmente basato sulla fiducia. E che, soprattutto, non è tracciabile; ogni anno, il 90% dei migranti che arrivano in Europa trasferisce così 390 miliardi di euro ai trafficanti).
La parola ḥawāla significa, letteralmente, trasferimento. Ecco come funziona: il denaro viene trasferito attraverso una rete di mediatori. Un cliente avvicina un broker, detto hawaladar, in una città, e gli consegna una somma da trasferire a un destinatario che si trova in un’altra città, di solito all’estero. L’hawaladar fornisce una parola in codice al cliente, il quale la riferirà alla persona che ritirerà i suoi soldi. Il broker chiama un suo omologo presente nella città del destinatario, dà delle disposizioni sui fondi (e di solito sottrae una piccola commissione per il servizio), e promette di saldare il debito in una data successiva. Da quel momento in poi il beneficiario del trasferimento può raggiungere il secondo hawaladar, dargli la parola d’ordine e ritirare il suo denaro. La principale caratteristica del sistema è che tra i vari broker non vengono scambiati strumenti di garanzia: le transazioni sono basate unicamente sull’onore. Vengono fatte ogni volta delle informali registrazioni delle singole transazioni, ed è tenuto un conteggio dell’importo dovuto da un broker ad un altro. Ma niente di più. Il pagamento del debito tra i broker può assumere diverse forme, su cui ci si accorda di volta in volta.
Per colpire al cuore il business dell’immigrazione clandestina, come spesso si è dichiarato di voler fare, non c’è modo migliore che creare un modo sicuro e legittimo di arrivare in Europa. Un viaggio dall’Afghanistan alla Turchia può costare da 3.000 a 6.000 euro, molto dipende anche da come si decide di viaggiare. “C’è chi può permettersi soltanto un viaggio con macchine in cui vengono fatte entrare anche dieci persone alla volta, e chi invece, pagando di più, ha condizioni più ‘comode’. Si paga un anticipo alla partenza, il resto via via che si procede”, racconta Ahmed, ragazzo afgano incontrato all’esterno di un’agenzia viaggi di Mitilene dove si acquistano biglietti per Atene (95 euro per arrivare al confine macedone). Arrivati in Europa, i soldi rimasti non sono molti. L’UNHCR mette a disposizione diverse risorse (cibo, medicinali), ma spesso la maggior parte proviene da donazioni (basti pensare agli abiti asciutti di cui c’è sempre bisogno). Un maggiore investimento nei sistemi di accoglienza da parte dell’UE è fondamentale, per non rendere ancora più gravosa una condizione che è già di estrema vulnerabilità.
8. Condizioni dei Cie
Su Moria e sulle condizioni dell’unico hotspot in questo momento funzionante in Grecia torneremo in un pezzo successivo. Per ora basti dire che, nonostante la presenza dell’UNHCR e di altre Ong, il campo in cui i migranti vengono trasferiti subito dopo il loro arrivo è tutto tranne che accogliente. La capacità è 400 persone, assolutamente insufficiente, visto che nei giorni in cui gli arrivi sono nella media (dagli ottocento ai mille al giorno), all’interno del campo ci sono più di duemila persone. Kara Tepe, un altro campo vicino a Mitilene, utilizzato soprattutto per i profughi siriani e le loro famiglie, è quasi sempre vuoto, probabilmente perché non svolge funzioni di hotspot. Quando siamo stati a Moria, il clima a Lesbo era buono, non pioveva da qualche giorno.
Nonostante ciò, era difficilissimo trovare anche solo un posto asciutto in cui sedersi. L’interno è in pratica un accampamento di fortuna, con tende che non riuscirebbero a essere una protezione dignitosa nemmeno per un campeggio fuori porta.
Le code per la registrazione sono lunghissime, e visto che è previsto che la procedura non si interrompa mai (di giorno se ne occupa Frontex, di notte la polizia greca), l’attesa all’esterno può prevedere anche un’intera notte trascorsa all’aperto, che piova o meno. All’esterno di Moria è stato allestito un altro campo, un’appendice messa su dai volontari per sopperire alla mancanza di spazio e di risorse. Una volta formalizzata l’identificazione, ai profughi viene assegnato un ticket che permette loro di muoversi anche all’esterno, in attesa del trasferimento al porto.
Il tempo di permanenza può variare , e molto dipende anche dal numero di arrivi e dalla possibilità di partire da Mitilene. Di norma sono due, tre giorni, ma con i frequenti scioperi dei traghetti che portano ad Atene, molti rimangono bloccati qui anche una settimana. In condizioni igieniche e sanitarie assolutamente non accettabili, con informazioni che provengono più dal passaparola che da fonti ufficiali e be coordinate. Come primo contatto con l’Europa che dovrebbe accoglierli, non è esattamente dei migliori.
9. Trasparenza
Quello che non si capisce è perché non ci possa essere trasparenza sulle procedure di registrazione. Che, a Moria, avvengono all’interno di due zone separate (a seconda della lingua), ben recintate e a cui non hanno accesso giornalisti o avvocati. Alle frequenti domande sulla presenza o meno di legali che spieghino ai migranti i loro diritti e le procedure per la richiesta d’asilo o protezione internazionale, ci è stato risposto che non ce n’è bisogno. “Dopotutto si occupa di tutto Frontex”. Ma proprio nelle scorse settimane il primo vicepresidente della Commissione Ue Frans Timmermans, sulla base dei dati di un rapporto di Frontex non ancora pubblico, aveva affermato che il numero dei migranti economici, nel mese di dicembre, è stato del 60% circa.
Dati che lasciano molto perplessi, visto che l’UNHCR diffonde dati quotidiani sulla nazionalità degli arrivi: sugli 85.000 profughi arrivati via mare dal 1 gennaio 2016, il 45% sono siriani, il 29% afgani, il 17% iracheni. Tutti provenienti da zone di guerra. Certamente, quindi, non migranti economici. Chi ha ragione? Una maggiore trasparenza, il rispetto del diritto a essere informati e un accesso di legali o osservatori esterni permetterebbero all’UE di avere un quadro più attendibile sugli arrivi, ma anche sulle difficoltà logistiche di registrazioni durante le quali, ci è stato più volte confermato, il problema della traduzione e della mancanza di mediatori culturali diventa un handicap per chi arriva.
10. Coordinamento
David ha 38 anni, origini singaporiane ma vive in Canada, dove fa il manager della sicurezza per una grossa azienda. E’ arrivato a Lesbo lo scorso mese come volontario per la Starfish Foundation. Il fatto che parli arabo lo rende una presenza necessaria, soprattutto in fase di sbarchi. “Cerchiamo di collaborare il più possibile con le autorità, ma non è sempre facile. Hanno bisogno di noi, ma spesso sono diffidenti, ed è chiaro che il fatto di non avere un ruolo ufficiale all’interno della catena di gestione degli aiuti ci renda, ai loro occhi, figure poco controllabili.
Quello che manca è un coordinamento di tipo istituzionale: chi decide chi fa cosa? A chi si risponde? Procedere così, a istinto, in base all’esperienza, non è sempre il massimo, si creano sovrapposizioni di ruoli e intralci che ritardano gli aiuti. E se si trova qualcuno che è disposto ad ascoltarci, a coordinarsi con noi, il tutto deve rimanere assolutamente ufficioso. Questo crea numerosi problemi, anche perché molti volontari arrivano a Lesbo senza una vera e propria formazione, dicendo di voler dare una mano. E invece, con un censimento ufficiale e dei ruoli definiti, potrebbero essere inviati altrove, o gestiti molto meglio in base alla preparazione di ciascuno”.
Twitter: @MarikaS
Nota: l’articolo è stato modificato nelle sezioni relative ai corridoi umanitari (per specificare correttamente i soggetti coinvolti nel progetto pilota) ed a interpreti & garanzie (per meglio chiarire il funzionamento della procedura).