Il 27 marzo, pochi giorni dopo il blocco della nave Open Arms, le cui carte avevamo raccontato nel dettaglio qui, il Giudice per le indagini preliminari di Catania Nunzio Sarpietro ne ha confermato il sequestro, ma eliminando l’accusa di associazione a delinquere e riportando così l’inchiesta da Catania alla competente procura di Ragusa. I suoi pareri sono chiaramente espressi nel fascicolo – vediamoli punto per punto.
Cosa c’è nelle carte
Il Gip conferma il sequestro della nave e l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Poiché il numero degli indagati passa da tre a due (non è più indagato il direttore di Open Arms che si trovava a Barcellona), cade l’accusa di associazione a delinquere.
Essendo l’inchiesta fin dall’inizio di competenza della procura di Ragusa, l’accusa di associazione a delinquere era anche l’unica ragione per cui la procura di Catania poteva avocarla a sè attraverso la procura antimafia, e deve dunque restituirla. Nonostante questo, è del 3 aprile la notizia che la procura di Catania non ha intenzione di lasciare l’inchiesta e ha convocato gli indagati per il 5 aprile.
Il Gip decide che il contenuto degli interrogatori rilasciato a Pozzallo dalla capo missione e dal capitano di Open Arms al momento dello sbarco è inutilizzabile, poiché i due offrivano la loro testimonianza nella convinzione di essere persone informate dei fatti e non di essere oggetto di indagine.
Il Gip conferma che Open Arms ha subito minacce armate da una motovedetta della Guardia Costiera libica, un elemento assente dal primo fascicolo di Catania. Imputa però a Open Arms la responsabilità della tensione che si è creata fra i due equipaggi.
Nelle carte, a differenza che nel primo fascicolo, si ricostruisce anche quali fossero le altri navi presenti nell’area al momento degli eventi.
Il ruolo della Marina Militare italiana
Il testo dell’ordinanza del Gip conferma che Open Arms fosse stata convocata per il soccorso alle 4.35, più di due ore prima che la Guardia costiera libica assumesse il comando dell’operazione; emerge che a quell’ora i libici non erano nemmeno salpati, cosa che viene annunciata per bocca della Marina militare italiana: “alle ore 05,37” – si legge nelle carte, che a loro volta si basano sui rapporti del Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di Porto Italiane – “il personale a bordo della nave militare italiana Capri (operazione NAURAS), di stanza a Tripoli, comunicava a Roma che una motovedetta della Guardia Costiera Libica di lì a poco avrebbe mollato gli ormeggi per dirigersi verso l’obiettivo, e specificava che la detta Guardia Costiera avrebbe assunto la responsabilità del soccorso”, cosa che sarebbe avvenuta formalmente alle 6.45: “alle ore 06,49 Roma comunicava alla Open Arms che la Guardia Costiera Libica aveva assunto il coordinamento del salvataggio, e che era stato richiesto espressamente che la ONG rimanesse fuori dalla portata ottica dei migranti” – probabilmente per evitare che i migranti, come già capitato in altre occasioni, si trovassero di fronte l’alternativa fra due destini molto diversi.
L’affacciarsi nelle carte della nave Capri è l’elemento che ha destato più preoccupazione. Il timore è che più che delegare alla Libia un respingimento (illegale secondo la normativa internazionale), a commetterlo possa essere in pratica la Marina italiana. A parlare e ad avanzare reclami per conto dei libici che hanno assunto il comando è direttamente la difesa italiana: “Alle ore 08,56 l’addetto per la Difesa Italia a Tripoli contattava la Centrale Operativa IMRCC di Roma, lamentando il comportamento della Open Arms, in quanto lo riteneva contrario al Codice di Condotta sottoscritto con il Ministero dell’Interno Italiano”, scrive sempre il giudice.
Il 27 marzo, letto il fascicolo appena circolato dopo l’annuncio del Gip, Famiglia Cristiana sottolineava il ruolo della Marina in un articolo firmato dal giornalista Andrea Palladino – articolo che poche ore dopo veniva rimosso dalla rete (si trova archiviato qui), e l’indomani sostituito con una versione modificata, in cui il titolo non parla più della Marina Militare, e che il giornalista non ha firmato.
Intanto, la nave Capri concludeva il suo servizio di “riparazione navi e fornitura addestramento, mentoring e supporto alla marina e guardia costiera libiche” proprio il 28 marzo, il giorno dopo l’annuncio del Gip.
https://twitter.com/ItalyinLibya/status/979027386971901954
Cosa significa respingere verso la Libia
Nel merito legale della questione, Gianfranco Schiavone, vicepresidente di Asgi, dice che le circostanze descritte nelle carte somigliano un po’ a quelle del caso Hirsi: un respingimento collettivo del 2009 per cui l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012 “in quanto era direttamente intervenuta nei soccorsi, restituendo le persone alla Libia” nonostante sapesse di esporle al “rischio serio di trattamenti inumani e degradanti”.
Su questo punto, il Gip riconosce (elemento assente dal primo fascicolo di Catania) che il trattamento disumano, “veramente degradante”, che subiscono i migranti nei campi libici sia cosa nota. A questo, però, antepone “la tutela dell’ordine pubblico, e delle esigenze di sicurezza e di pacifica convivenza all’interno di ogni singolo Stato (assicurata mediante un razionale contingentamento del flusso migratorio)”. Delle 218 persone prese a bordo da Open Arms si legge che “non può certo affermarsi che […] versassero in imminente pericolo di vita, poiché sul posto era presenta un altro natante, pronto a soccorrerli in mare”. Cioè la Guardia Costiera libica che li avrebbe riportati nei campi di detenzione.
Per il giudice, che “l’approdo in un porto della Libia significhi la ripresa di una situazione di vita problematica, soprattutto per le condizioni precarie […] dei campi profughi di quel Paese […] non assume rilevanza alcuna”. Viene in pratica contestato a Open Arms il tentativo di aprire un corridoio umanitario non autorizzato, e si mette in dubbio perfino la norma del mare che vuole che un soccorso non si possa dire completato finché le persone non sono del tutto al sicuro, come si legge al punto 8 della Guida Cild al soccorso in mare: “i naufraghi devono essere condotti in un luogo dove possono essere fornite le garanzie fondamentali agli stessi (non solo le garanzie relative all’assistenza sanitaria, ma anche la garanzia a non essere sottoposto a torture o a poter presentare domanda di protezione internazionale) […] Ad esempio, l’UNHCR ritiene che la Libia non soddisfi i criteri per essere designata come luogo sicuro”. Il parere del giudice su cosa sia un “place of safety” suona quindi piuttosto arbitrario: “il concetto di porto sicuro”, scrive infatti, “ove condurre i migranti salvati in mare, connota un approdo senza alcuna specificazione circa il trattamento che nel luogo prescelto sia loro destinato”.
L’allusione al corridoio umanitario non autorizzato
Ma soprattutto, nelle carte il giudice insiste per diversi paragrafi che “la vera finalità” degli inquisiti fosse “quella di portare i migranti dalla Libia in Italia ad ogni costo”.
Open Arms era stata lasciata senza porto sicuro per un giorno e una notte dai comandi marittimi di Roma e Madrid dopo aver salvato le 218 persone, e dal fascicolo si deduce che Pozzallo le è stato assegnato solo dopo che era ormai entrata in acque italiane. Sul fatto che il comandante non avesse voluto chiedere un porto a Malta, dove erano stati sbarcati soltanto neonato e madre in pericolo per poi riprendere il mare, si legge che, benché sia “noto che le autorità maltesi solitamente non sono propense all’accoglienza dei migranti […] però nel tempo tale atteggiamento potrebbe mutare e, comunque in presenza di talune circostanze, la risposta potrebbe anche essere differente”. La prassi degli ultimi anni dunque non farebbe testo, e Open Arms doveva almeno provarci.
La questione del ruolo di Malta nelle operazioni di ricerca e soccorso è così vecchia che se ne parlava già alla vigilia dell’Operazione Mare Nostrum. In passato non sono infatti mancati timori che i ritardi in certi soccorsi fossero tentativi di convincere Malta a occuparsene. Qualche giorno fa, Giusi Nicolini ha pubblicato un tweet che si richiama al naufragio dell’11 ottobre 2013, quando era sindaco di Lampedusa e aveva appena affrontato il naufragio del 3 ottobre nella sua isola. Parlando del ruolo della Marina Militare messo in luce dalle carte, ha scritto: “Una scelta del governo? Oppure una iniziativa della Marina Militare? L’11 ottobre 2013 si misero in testa di ignorare la richiesta di aiuto dei siriani per “stanare” e costringere Malta a fare quel soccorso. Il risultato fu una strage che ancora grida vendetta.”
Cosa sta succedendo con Malta
C’è un convitato di pietra nell’affaire Open Arms: i militari della Capitaneria di porto di La Valletta, la capitale maltese. Secondo l’inchiesta in cui sono indagati capomissione e capitano di Open Arms, l’imbarcazione spagnola ha ignorato l’ordine di fare richiesta per un porto sicuro alla capitale maltese, il “place of safety” più vicino. Eppure, fin dall’inizio, le autorità maltesi sembrano essere state “scavalcate” nel coordinamento da quelle italiane, e Malta non ha rilasciato alcuna dichiarazione ufficiale sulla vicenda. Non sappiamo nemmeno se Open Arms ha avuto una qualche forma di dialogo con Malta oppure no. Su questo punto, nemmeno l’Ong spagnola ha chiarito fino in fondo quanto accaduto.
Nell’ordinanza del Gip Nunzio Sanpietro la parola “Malta” appare sei volte. Mai da protagonista, ma sempre in modo passivo. L’unico passaggio degno di nota è quello del trasbordo su un’imbarcazione militare maltese di un bambino e di sua madre, entrambi in pericolo di vita.
Quel che è chiaro è che il primo Mrcc a chiedere a Open Arms di spostarsi verso una delle barche in difficoltà “a circa 40 miglia nautiche a nord-est di Tripoli” è quello di Roma, nonostante geograficamente l’evento Sar fosse in una zona di competenza più vicina alla Search and rescue region (Srr) maltese. Lo avvista un velivolo del Cincnav, il braccio operativo della Marina Militare italiana.
Perché Malta è assente su soccorsi e accoglienza
È accaduto spesso che Italia e Malta si rimbalzassero le responsabilità d’intervento in operazioni di salvataggio in mare. Fin dal 2002, quando a intervenire erano i pescatori: come per Open Arms oggi, anche allora era un problema trovare un porto sicuro in cui fossero autorizzati gli sbarchi dei naufraghi. “Per Malta l’obiettivo è sempre stato quello di prendere il minor numero possibile di migranti per evitare che pesino sul sistema di accoglienza interno”, ci spiega Neil Falzon, avvocato esperto di diritti umani e direttore dell’Ong maltese Aditus.
Così Malta partecipava al coordinamento dei salvataggi, ma tendeva a scaricare la responsabilità dell’accoglienza su Lampedusa, sostenendo che la maggior parte dei salvataggi avvenivano più vicini alle coste italiane. Con il 2004 vengono introdotti degli emendamenti alle convenzioni Solas e Sar che ancora oggi prevedono per il paese che coordina i salvataggi la responsabilità di fornire un “place of safety” ai naufraghi salvati. Malta non ratifica la nuova convenzione, perché la interpreta come l’imposizione di accogliere tutti i naufraghi salvati grazie al coordinamento del proprio Mrcc. “Ognuno dei due paesi aveva il diritto di non ratificare i nuovi trattati, ma a rimetterci ovviamente sono stati i migranti bloccati in mare senza che nessuno li soccorresse”, aggiunge Falzon.
Questo braccio di ferro è durato fino al lancio dell’operazione Mare Nostrum, a ottobre 2013. Nei fatti, la Marina italiana ha preso con quella missione un predominio sul canale di Sicilia. Di conseguenza sono aumentati i migranti sbarcati in Italia, mentre Malta ha assunto un ruolo sempre più marginale.
Dal 2015 “gli sbarchi a Malta sono pressoché zero. È un fatto. E non è spiegabile se non con una forma di accordo, di cui non è mai stato reso pubblico il contenuto”, sostiene Falzon. Il governo maltese ha sempre smentito l’esistenza di questo accordo, basato sulle buone relazioni tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il premier maltese Joseph Muscat. La vulgata del periodo sosteneva che l’intesa prevedesse un’autorizzazione all’Italia per le esplorazioni dei fondali marittimi maltesi in cerca di greggio in cambio di sbarchi zero a Malta. Secondo diverse nostre fonti, è un’ipotesi inverosimile: da un lato, pare improvvido scambiare la gestione dei migranti, concreta e dalle immediate conseguenze, con un bene “virtuale”, cioè il petrolio ancora da trovare; dall’altro, nel caso di effettiva scoperta di giacimenti, l’uso italiano dovrebbe inevitabilmente passare per un voto al Parlamento maltese, visto che si tratterebbe di una concessione all’interno dei propri confini. Eppure a maggio 2017 Mario Borghezio, europarlamentare leghista, ha riproposto il tema in un’interrogazione scritta rivolta a Dimitris Avramopoulos, Commissario europeo all’immigrazione.
Cosa potrebbe cambiare adesso
“A Malta oggi si percepisce una certa tensione per l’esito delle ultime elezioni politiche in Italia e per alcuni cambiamenti che ci sono stati nelle missioni europee”, ci dice Falzon. Il caso Open Arms, per l’avvocato maltese, è la conferma che qualche equilibrio si è rotto. Non era mai capitato, almeno a sua memoria, che a un’imbarcazione ingaggiata in operazioni di salvataggio fosse, in qualunque modo, intimato di fermarsi a Malta. La prassi di non coinvolgere le autorità maltesi oggi sembra diventare addirittura un reato.
Un altro fattore è l’inizio della nuova missione della Guardia costiera e di frontiera europea Frontex. Fino a Triton, scrive il Cesi in un report, “gli uomini e le donne salvati in mare venivano condotti indistintamente in Italia, a prescindere, quindi, dalla vicinanza geografica di altri Paesi”. Era previsto: ogni Stato membro impegnato nel coordinare operazioni di Frontex avrebbe anche dovuto occuparsi dell’accoglienza. Malta così non ha più partecipato alla regia delle missioni in mare. Con il lancio a febbraio della nuova missione Themis, però, è previsto che i naufraghi siano condotti nel porto più vicino, senza sconti. Essendo un paese Ue, c’è da aspettarsi che Malta sia costretta a seguire le indicazioni della nuova missione europea.