Essere lesbica, gay, bisessuale, transgender e/o intersessuale in molte parti del mondo può condannare a una vita di persecuzioni. Per questo motivo, in molti scelgono – spesso non avendo altra alternativa – di fuggire dal proprio paese di origine cercando rifugio in uno stato terzo. Di questi, ogni anno sono circa 10 mila a fare domanda di asilo nell’Unione Europea.
Come abbiamo visto nei pezzi precedenti di questa serie sui rifugiati Lgbti, ottenere protezione sulla base dell’orientamento sessuale e/o identità di genere non è un percorso privo di ostacoli: perché manca ancora una procedura comune nonostante l’esistenza del Common European Asylum System; perché alcuni stati applicano il requisito della discrezione secondo cui una persona Lgbti sarebbe al sicuro nel proprio paese d’origine se nascondesse il proprio orientamento sessuale e/o identità di genere; perché i richiedenti asilo vengono sottoposti a domande invasive e basate su pregiudizi; perché l’esistenza nel paese di origine di leggi che criminalizzano l’omosessualità non basta come motivo valido di riconoscimento della protezione internazionale. E infine, perché le liste Ue di paesi di origine definiti di “sicuri” includono in realtà paesi dove una persona Lgbti corre rischi reali. Fra questi c’è anche la Turchia, con cui l’Unione europea ha stretto un accordo che ha appena compiuto due anni.
L’accordo Ue- Turchia e il concetto di “paese sicuro”
Il patto, voluto dai 28 leader europei per gestire e diminuire, se non interrompere, il flusso di migranti in arrivo sulle coste greche, prevede che tutti i migranti provenienti dalla rotta balcanica che non abbiano bisogno di protezione internazionale vengano respinti e riportati in Turchia. La premessa, molto contestata da esperti di migrazioni e organizzazioni non governative, è che questo paese sia per loro un luogo sicuro.
Già nel 2015 la Commissione Europea aveva proposto la creazione di una lista di “paesi di origine sicuri” definendo tale un paese in presenza di un sistema democratico e in assenza di rischi di persecuzione, tortura, trattamenti disumani e degradanti, minaccia di violenza e conflitti armati su base stabile e sistematica. La lista era stata concepita come evoluzione delle già esistenti liste nazionali create e utilizzate da alcuni stati, e vi era stata inclusa anche la Turchia. La conseguenza di questa definizione è che le richieste di asilo dei cittadini di questi stati vengono considerate infondate, e che la loro possibilità di ottenere protezione internazionale cala considerevolmente.
L’accordo Ue-Turchia presuppone poi che quest’ultima non sia un paese sicuro soltanto per i suoi cittadini, ma anche per i richiedenti asilo che hanno transitato dal paese per poi giungere in Europa – facendone così anche un “paese terzo sicuro”.
La situazione risulta ancora più critica i cittadini turchi e i rifugiati Lgbti che vivono nel paese.
Crimini d’odio, violenze e omo-transfobia generalizzata in Turchia
Come evidenziato da ILGA-Europe nella sua revisione del 2017 sulla Turchia, le minoranze sessuali e di genere nel paese vivono in una “situazione claustrofobica”. Oltre a subire una dura limitazione nella libertà di espressione e di assemblea, contro le persone Lgbti sono state commesse violenze con movente omo-bi-transfobico anche fatali. Il caso più eclatante è il brutale assassinio dell’attivista trans* Hande Kader – divenuta celebre in tutto il mondo dopo essere stata fotografata mentre resisteva alle forze dell’ordine durante il corteo del Pride di Istanbul nel 2015. In Turchia – e in generale nei paesi meno tolleranti verso le minoranze sessuali e di genere – le donne transgender sono particolarmente soggette a minacce, violenza, stupri e soprusi.
Nel suo report sui crimini d’odio basati sull’omo-transfobia, Kaos GL, una delle organizzazioni Lgbti più attive della Turchia, ha evidenziato come le proibizioni che hanno limitato l’attivismo Lgbti nel paese e i discorsi d’odio contro le minoranze sessuali e di genere siano stati legittimati dalle autorità, piuttosto che essere condannate e perseguite. Il report evidenzia che la maggior parte dei crimini contro le persone Lgbti sono stati commessi in luoghi pubblici: scuole, mezzi pubblici, bar. Le vittime hanno sperimentato più di una volta la violazione dei propri diritti e molte di loro temono per le proprie famiglie, dichiarando poi di non fidarsi della polizia. La gravità della situazione è resa ancora più esplicita dal fatto che nella maggior parte degli incidenti (i l 55 per cento dei casi) i testimoni non hanno reagito.
Questi dati confermano quanto rivelato dai risultati di un sondaggio condotto da Pew Research nel 2013: in Turchia l’omosessualità viene considerata moralmente accettabile solo dal 4 per cento dei rispondenti. Il 78 per cento dei rispondenti dichiara di percepire l’omosessualità come moralmente inaccettabile. Si tratta di una percentuale più alta di quella registrata in qualunque stato europeo.
Viene quindi spontaneo chiedersi come la Turchia possa essere considerata un Paese di origine sicuro per le tante persone Lgbti che vi abitano. Come sottolineato da Neil Grungras, fondatore e direttore esecutivo di Oram (the Organization for refuge, asylum and migration), da almeno un decennio si registrano casi di richieste d’asilo sulla base di persecuzioni fondate su orientamento sessuale e/o identità di genere presentate da cittadini turchi – soprattutto uomini gay e donne transgender. Alla luce del crescente clima di conservatorismo e mancanza di tutele da parte delle autorità, oggi molte persone Lgbti scappano dal paese alla ricerca di un posto più sicuro. Una situazione, quella del deterioramento della tutela delle minoranze sessuali e di genere, ben conosciuta anche dalle istituzioni europee. Nel febbraio del 2018, infatti, il Parlamento europeo ha espresso preoccupazione sul peggiorare della situazione dei diritti umani in Turchia, facendo riferimento anche alla situazione delle persone Lgbti.
Perseguitati a casa, discriminati nel cercare protezione
Secondo l’Unhcr,a ottobre 2017 la Turchia ospitava 3.5 milioni di rifugiati. Ogni anno, il paese riceve un alto numero di richiedenti asilo Lgbti provenienti principalmente da Siria, Iran, Iraq, Afghanistan e altri stati confinanti. Queste persone scappano da paesi in cui l’omosessualità è un crimine – con pene che possono arrivare fino alla condanna a morte – oppure da contesti in cui l’omo-transfobia è talmente diffusa da impedire di condurre una vita priva di persecuzioni (come vi abbiamo raccontato nel secondo articolo di questa serie).
Come sottolineato da Kaos GL, la discriminazione, l’odio, la violenza e la stigmatizzazione di cui sono vittima le persone Lgbti nel proprio paese d’origine continuano – o peggiorano – una volta che arrivano in Turchia. Qui, le minoranze sessuali e di genere diventano il bersaglio di attacchi omo-transfobici, hanno difficoltà ad accedere alla sanità e a soluzioni abitative, e diventano vittime di discriminazioni di matrice razzista e xenofoba da parte della comunità locale. Inoltre, restano tagliate fuori dalle reti di solidarietà che si instaurano tra rifugiati. Per chiarire il livello di vulnerabilità in Turchia dei richiedenti asilo Lgbti o percepiti come tali, si consideri che nel 2016 il corpo di Mohammed Wissam Sankari, un rifugiato gay siriano di 25 anni che era già stato vittima di minacce e violenza sulla base del suo orientamento sessuale, è stato trovato mutilato due giorni dopo la sua scomparsa ad Istanbul. Un amico della vittima ha dichiarato che, pur al corrente del pericolo corso dal ragazzo, la polizia non era intervenuta per fornire protezione. Bersaglio di violenze, spesso fatali, sono in particolar modo le rifugiate transgender, i/le sex workers e in generale per persone più visibili.
Siccome alla base dell’accordo Ue-Turchia c’è l’idea che la Turchia sia un paese sicuro per richiedenti asilo e rifugiati, dice ILGA-Europe, questo accelera la procedura di richiesta di protezione internazionale, lasciando pochissimo tempo ai richiedenti Lgbti di rivelare il vero motivo della loro fuga del paese d’origine (spesso tenuto nascosto per paura di ripercussioni da parte di altri rifugiati o per timore di esporsi davanti alle autorità di un paese terzo). In questo modo, l’accordo Ue-Turchia fa sì che il rischio di non identificare i richiedenti asilo Lgbti sia altissimo, condannando queste persone a tornare in Turchia e a un probabile successivo rimpatrio.
Non stiamo parlando di una dinamica immaginaria. Nel giugno 2016 il Telegraph ha riportato la storia di un richiedente asilo gay siriano il cui caso di protezione internazionale era stato respinto dalle autorità greche. Secondo il Greek Council of Refugees, la domanda di asilo dell’uomo, partito dalla Turchia e giunto sull’isola di Lesbo dopo essere scappato – per sua stessa testimonianza – dall’ISIS, è stata respinta dal sistema greco. Lo stesso sistema che, in sede di ricorso, ha sancito che sarebbe stato sicuro per quest’uomo ritornare in Turchia.
“L’Europa è sempre stata una forte sostenitrice dei diritti umani in territorio europeo e altrove. Tuttavia è nel suo sforzo di controllare i propri confini che viene testata la sua aderenza ai diritti umani. Privando lentamente i richiedenti asilo e i migranti dei loro diritti, l’Europa sta creando una nuova e preoccupante definizione di “normale”.
Sono parole di François Crépeau, Special rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti dei migranti, che ci ricordano come il controllo delle frontiere non possa giustificare un abbassamento degli standard di tutela dei diritti umani. Considerare la Turchia un paese sicuro per i rifugiati Lgbti significa negare o ignorare una realtà chiara e consolidata, e rendersi complici delle persecuzioni e discriminazioni da cui queste persone scappano.
In copertina: l’attivista Lgbti+ Hande Kader al Pride di Istanbul il 28 giugno 2015 (foto: Şener Yılmaz Aslan/MOKU su licenza CC BY 2.0)