La storia dei soccorsi in mare comincia tanto tempo fa
“C’erano due aree di ricerca, e tutti i membri dell’equipaggio scandagliavano il mare con i binocoli, a turno […] solo la nostra esperienza ci aiutava a identificare le barche dei rifugiati; appena le vedevamo, rallentavamo e ci avvicinavamo con una piccola barca: io dovevo calmare i rifugiati, mentre tutto l’equipaggio li avrebbe aiutati a salire a bordo”. Questo, estratto dai Vietnam Refugees Archive, progetto di documentazione canadese, è il racconto di Nguyen Huu Huan, salvato nel Mar Cinese nel 1980 e diventato poi mediatore linguistico a bordo della Cap Annamur II – un racconto che potrebbe essere ambientato nel Mediterraneo Centrale di oggi.
Come per i ‘boat people’ vietnamiti, laotiani e cambogiani, in cerca di rifugio da violenze e stati disgregati, a far scattare la molla della solidarietà in questo inizio di millennio sono state le immagini. Il corpo del bambino siriano Alan Kurdi, fotografato a settembre 2015, quelli tragicamente invisibili del 18 aprile dello stesso anno – quasi 800 persone morte inghiottite dal Mediterraneo – e prima ancora quelli raccolti sulle coste di Lampedusa il 3 ottobre 2013, ordinati in file senza fine di bare silenziose sotto lo sguardo di autorità e superstiti. Proprio come a smuovere gli animi, in un tardo ottobre di 35 anni prima, era stata invece la Hai Hong, un cargo gettato a largo con 2500 cittadini vietnamiti. Respinti da Indonesia e Malesia, stremati dopo settimane in mare, avevano fatto breccia nel cuore dell’opinione pubblica occidentale, convincendo diversi paesi ad accoglierli. E innescando una mobilitazione della società civile, le cui rotte imprevedibili arriveranno fino al Mediterraneo.
“Un bateau pour le Vietnam” e “Ein Schiff für Vietnam”, comitati di cittadini appoggiati da intellettuali, medici e operatori umanitari, sono gli antenati più vicini della flotta umanitaria cresciuta nel Mediterraneo negli ultimi tre anni. Forti della convergenza fra due avversari di lunga data come il filosofo comunista Jean-Paul Sartre e il sociologo liberale Raymond Aron, i francesi manderanno nel Mar Cinese meridionale la Île de Lumière, seguita negli anni Ottanta da un mix di navi private di soccorso e vascelli militari, inviati dai governi dell’epoca in funzione antipirateria. Grazie a questo impegno, emulato dai vicini tedeschi, saranno 120 mila i rifugiati a raggiungere la Francia dalla penisola indocinese. Lanciata nel 1979, la Cap Anamur soccorse migliaia di persone in mare, conducendone una parte in Germania. Milioni di franchi e marchi furono raccolti in pochi mesi, mentre famiglie aprivano le proprie case e aziende donavano beni e servizi. Un milione e 600 mila persone furono re-insediate in Europa e Nord America fra il 1975 e il 1997, e una parte di loro deve la vita alle navi di soccorso finanziate dai cittadini europei.
La nuova stagione dei soccorsi in mare
Proprio la Cap Anamur III, nipote della prima nave tedesca, sancì sul nascere la fine di qualsiasi tentativo di soccorso indipendente nel Mediterraneo. Nel 2004 fu bloccata a largo della Sicilia e poi sequestrata, con l’accusa di aver favorito l’ingresso irregolare in Italia dei 37 migranti presi a bordo. Dopo l’assoluzione dell’equipaggio, nel 2009, si aprivano però nuovi spazi per un’azione umanitaria “dal basso”. Sarà la fine dell’operazione Mare Nostrum, nell’ottobre 2014, ad accelerare le cose. “Quello del 2014/2015 è stato un inverno triste e tragico”, ricorda Sophie Beau, vice-direttrice e fondatrice di Sos Mediterranée, “e come cittadini abbiamo sentito il dovere di muoverci, di rimediare al fallimento dell’Europa, la cui inazione aveva permesso migliaia di morti”.
Ad aprire questa nuova stagione è la Moas, la Mobile Offshore Aid Station, creata dai coniugi Catrambone a inizio 2014. A una breve missione nell’estate del 2014 ne seguiranno altre, nel Mediterraneo centrale e, per brevi periodi, nell’Egeo e nel Golfo del Bengala. Subito dopo, a prendere il largo è Medici Senza Frontiere, con la Bourbon Argos, la Dignity I e oggi la nave Prudence. L’indignazione provocata dai continui naufragi e l’esposizione mediatica della “refugee crisis” fanno nascere altre organizzazioni no-profit. Sos Mediterranée, franco-italo-tedesca, lancia la Aquarius nel febbraio 2016. Sea Watch, Jugend Rettet, Life Boat Minden e Sea-Eye armeranno barche e aerei, raggiunte a luglio 2016 dai “socorristas” catalani di Proactiva Open Arms. Save The Children, storica organizzazione umanitaria internazionale, è l’ultima ad aggiungersi, nel settembre 2016.
Sono 13, a fine estate 2016, le navi umanitarie impegnate in quella che gli addetti ai lavori chiamano zona Sar, da “Search And Rescue”, ricerca e salvataggio. Rimarranno solo in due durante l’inverno, grazie ad Aquarius e Golfo Azzurro, gestita da Proactiva Open Arms, per tornare a crescere di numero a partire dall’aprile 2017. A inizio maggio 2017 sono nove le imbarcazioni attive, e di nuovo 13 quelle previste da giugno in poi, affiancate da due aerei da ricognizione. Solidarietà che ha un costo, spesso elevato. Tanto che, annunciando a febbraio l’avvio di un’indagine conoscitiva, il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro metteva in discussione “l’origine di tutti questi soldi”, questione poi rilanciata da rappresentanti istituzionali. Da Moas a Life Boat Minden, con la sua barca da 23 metri, il passo è lungo: se i primi spendono 500 mila euro al mese fra nave, aeroplano e struttura organizzativa, i secondi si attestano sui 30 mila al massimo. Le navi più grandi – Aquarius, Prudence, Vos Hestia di Save The Children, seguite dalla Golfo Azzurro – hanno un costo di diverse migliaia di euro al giorno, e lo stesso si può dire per gli aerei.
Come si finanziano le Ong
La risposta a Zuccaro, che si chiedeva “chi c’è dietro queste organizzazioni umanitarie”, sembra emergere dalle loro dichiarazioni: sono migliaia di cittadini europei e non solo, di aziende, di enti locali e chiese. Se Medici Senza Frontiere e Save The Children operano grazie a finanziamenti raccolti in tutto il mondo, per lo più da privati, parte dei quali sono stati dedicati alle missioni in mare, e Moas è nata con un contributo dei fondatori stessi, cercando poi di reggersi sulle proprie gambe, le missioni nate dal basso negli ultimi anni sopravvivono grazie a continui crowdfunding. Fondi raccolti soprattutto online, su piattaforme come Better Place o direttamente sui siti delle Ong, e poi durante eventi benefici o da grandi donatori: Richard Gere o Pep Guardiola per Proactiva Open Arms, vincitori di quiz televisivi per Sea-Eye, armatori che mettono a disposizione mezzi a costi ridotti. Ci sono 35 mila persone “dietro” a Proactiva Open Arms, che arriverà a mettere in acqua tre piccole navi, e sono 12 mila i sostenitori delle due imbarcazioni e dell’aereo Moonrise di Sea-Watch, 14 mila quelli della Aquarius, 1.500 quelli della Sea-Eye.
Un sostegno dal basso che rende inevitabilmente precarie le missioni, programmabili con un orizzonte di pochi mesi. A cui va aggiunta l’opera di centinaia di volontari. Se organizzazioni più strutturate assumono personale ad hoc, la maggior parte degli equipaggi è composta infatti da volontari. Marinai, bagnini, medici, infermieri che dedicano le ferie a missioni che durano dai 13 ai 21 giorni. “Tutto il nostro budget è trasparente, Zuccaro poteva chiedercelo fin da subito”, dichiara Frank Dörner di Sea Watch, sorpreso da “accuse che insultano i nostri sostenitori, fra cui 75 parrocchie tedesche, asili nido, fondi raccolti durante feste di compleanno”. Jugent Rettet, nata da un gruppo di studenti universitari, spiega di essere stata inclusa nell’Iniziativa per una Società Civile Trasparente, promossa da Transparency International, proprio in virtù della chiarezza del suo bilancio.
Il presunto “pull factor” e l’arretramento rispetto alle acque libiche
Rimbalzate in un’enorme camera degli eco, in cui le dichiarazioni del magistrato siciliano sono state amplificate da deputati, leader di partito e giornalisti, le accuse a chi fa soccorso in mare si sono poi concentrate su possibili legami o contatti con scafisti e organizzazioni criminali, mettendo in discussione la presenza stessa di navi dedicate al soccorso nelle acque di fronte alla Libia. Se non colluse, le Ong rappresenterebbeo comunque un “pull factor”, un fattore di attrazione per chi si mette in mare, incentivando così le partenze. Cosa “non dimostrabile” secondo Sophie Beau di Sos Mediterranée, “come confermano i continui arrivi dell’inizio del 2015, nonostante Mare Nostrum fosse terminata da tempo”. “Quello che potrebbe essere vero”, spiega Medici Senza Frontiere a Open Migration, “è tutt’al più che i trafficanti sfruttano l’obbligo di salvataggio in mare, che è in capo a qualsiasi imbarcazione, non alle sole Ong”.
Lo stesso Zuccaro, ascoltato a fine marzo dal Comitato “Schengen” della Camera dei Deputati, aveva collegato l’aumento dei morti in mare proprio alla presenza di navi umanitarie, come a voler ribaltare il senso stesso della loro presenza. “Tutte queste accuse”, spiega Lorenzo Pezzani, ricercatore presso il Goldsmiths College di Londra, “funzionano astraendo, togliendo i dati da un contesto complesso e arrivando così a legittimare teorie della cospirazione, che vedono il marcio dappertutto”. Autore, insieme a Charles Heller, di “Death by rescue”, uno studio sui naufragi del 2015 nel Mediterraneo Centrale, Pezzani sostiene che “il cambiamento di strategia dei trafficanti, che mettono in mare sempre più gommoni, sempre più carichi, c’era già stato nel 2015, quando le Ong erano ancora poche, ed è quindi assurdo imputare a loro questa situazione”. Gli attori di questa vicenda, prosegue, “sono molti e si influenzano a vicenda: guardare solo alle Ong senza – per esempio – considerare il ruolo della missione Eunavfor Med, non racconta nessuna verità”.
Proprio Eunavfor Med, avviata dall’Ue nel giugno 2015 con lo scopo di contrastare le organizzazioni criminali, in un rapporto interno dell’ottobre 2016 dichiarava che “i trafficanti possono contare su un crescente numero di navi di Ong operanti al limite della acque libiche, mentre i nostri assetti sono più arretrati e fungono da deterrente”. Una risposta, forse, alle critiche ricevute dalla missione stessa, accusata di essere inefficace se non di rappresentare, prima ancora delle Ong, un fattore di attrazione. Nei mesi successivi sarà Frontex, la “polizia di frontiera” europea, a citare episodi di contatto fra trafficanti e imbarcazioni di Ong. Per Riccardo Gatti, di Proactiva Open Arms, “è una campagna deliberata, studiata a tavolino per gettare fango su chi è lì solo per salvare vite, come noi e la Guardia Costiera Italiana, che coordina tutt i soccorsi”. Quello che sembra essere in gioco, a incrociare le dichiarazioni delle Ong e di Eunavfor Med, è un obiettivo condiviso da tutti i governi europei: la chiusura della rotta libica.
“Nelle ultime settimane abbiamo incontrato più volte la Guardia Costiera libica, sembra si spingano sempre più in acque internazionali”, spiega Nicola Stalla, coordinatore dei soccorsi per Sos Mediterranée. Conferme arrivano da Jugend Rettett, per cui “le motovedette libiche arrivano più al largo e sembrano meglio equipaggiate che in passato”. Episodi violenti e imprevedibili, come l’attacco armato alla nave di Medici Senza Frontiere, il fermo di personale e di un gommone di Sea-Eye e l’assalto a una barca di rifugiati, sotto gli occhi di Sea Watch, oltre a ispezioni e minacce, sembrano cose del passato. L’approccio dei libici, secondo Sea Watch, “è diventato più tranquillo, ma questo non toglie che siano partner poco affidabili, divisi in rivoli di milizie”. Il crescere dell’attività della Guardia Costiera libica è sostenuto dai numeri: 600 i migranti intercettati all’interno delle acque territoriali, e riportati a riva, nel 2015, 2.230 nei primi 10 mesi del 2016 (secondo Eunavfor Med) e 4.841 nel periodo dal 1° gennaio all’8 maggio 2016, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.
Sembrano essere in ritirata, invece, i mezzi di Eunavfor Med e Frontex. “Nel weekend di Pasqua”, racconta Ruben Neugebauer di Sea Watch, “il nostro aereo ha sorvolato le acque internazionali, identificando due battelli che stavano per affondare e allertando la Guardia Costiera italiana”. C’erano 8.500 persone che stavano tentando la traversata e, prosegue Neugebauer, “in tre giorni, in un’area di mare molto estesa, abbiamo avvistato solo una nave delle missioni europee”. Come per la Cap Anamur II nel 1986, i governi occidentali sembrano decisi a chiudere le frontiere. In un mondo spaventato dalla corsa alle armi reaganiana, 358 rifugiati vietnamiti rimasero allora bloccati per giorni, vedendosi rifiutare l’ingresso da Canada e Australia, prima di poter sbarcare, dopo due mesi in mare, nel porto di Amburgo. Negli anni successivi, buona parte dei programmi di reinsediamento fu chiusa, e i ‘boat people’ asiatici scomparvero dalle cronache.
“Non ci sono navi ufficiali europee con il mandato di ricerca e salvataggio”, denuncia Pauline Schmidt di Jugend Rettett, “e così siamo rimasti solo noi privati, coordinati e sostenuti dalla Guardia Costiera italiana, e il nostro ruolo di testimoni potrebbe oggi interferire con i piani di respingimento verso la Libia dei migranti”. Nasce da qui, secondo l’Ong, il tentativo di criminalizzazione delle operazioni umanitarie. “Il vero punto di domanda”, continua Schmidt, “è perché si bersaglia di accuse chi salva vite, e non chi non interviene mentre avrebbe i mezzi per farlo”. Neugebauer di Sea Watch rincara: “lo scandalo non è il nostro intervento, che è di pura emergenza, ma il fatto che l’Ue accetti che le persone muoiano ai suoi confini, senza inviare mezzi di soccorso”. Se c’è una cosa che le Ong ci ricordano, è che siamo di fronte a una questione europea e internazionale, che sta a cuore a molti cittadini. Su questa, il prisma della politica interna italiana non può che restituirci una visione deformata.
NB: nelle infografiche sono stati corretti alcuni refusi nei nomi rispetto alla prima versione dell’articolo.