Da qualche tempo Milena Gabanelli sta portando avanti una sua proposta sul tema immigrazione. Secondo la giornalista, sostanzialmente, per riuscire a far fronte ai numeri degli ultimi anni serve una rete di grandi centri d’accoglienza a gestione pubblica, individuati in ex ospedali, resort sequestrati alle mafie ed ex caserme. “Un piano concreto che possa trasformare il dramma in opportunità” e “un pragmatico progetto d’impresa, da portare sul tavolo a Bruxelles, in cambio di finanziamenti, dell’impegno alla ripartizione delle quote, e della supervisione di un commissario europeo”, scriveva qualche mese fa sul Corriere della Sera. Questo sistema dovrebbe garantire l’accoglienza di circa 200mila persone, attraverso l’individuazione di 400 luoghi in media da 500 posti ciascuno.
La proposta per gestire accoglienza e immigrazione portata avanti dalla giornalista, però, presenta diversi punti critici. Così come, per la verità, la stessa narrazione del fenomeno che ne viene fuori.
“Troppi arrivi”
Gabanelli parte dal presupposto che negli ultimi anni i migranti siano diventati troppi, e che la situazione non possa che peggiorare in futuro: “L’Africa è una polveriera: negli ultimi 6 anni si sono aperti 15 nuovi conflitti, e l’Egitto ‘ospita’ 5 milioni di migranti pronti a partire per l’Europa. Faremo accordi anche con il Cairo, ma pensare di bloccarli tutti è un’illusione. I credenti possono accendere un cero alla Madonna affinché i cinesi e gli indiani aumentino i loro investimenti in Africa, creando sul posto opportunità di lavoro, ma noi abbiamo un problema qui e adesso”.
Come ha scritto in proposito il vicepresidente nazionale Arci Filippo Miraglia, che i migranti siano tanti e che arrivino tutti in Italia “non ha a che vedere con i numeri, ma con la loro percezione”, che viene “fortemente influenzata dal dibattito e dalla retorica pubblica. Se ogni giorno decine di voci autorevoli, senza contraddittorio, sostengono che i numeri sono alti, le persone credono a questo”. La retorica dell’invasione può essere smentita dai dati. Nel nostro paese nel 2016 sono arrivate 181 mila persone seguendo la rotta del Mediterraneo centrale, una cifra che – per quanto consistente e maggiore rispetto al 2014 e al 2015 – rappresenta comunque appena lo 0,3% della popolazione italiana. I numeri sull’Egitto citati da Gabanelli, tra l’altro, non trovano riscontri nei dati ufficiali delle Nazioni Unite.
Secondo l’Unhcr nel mondo i profughi e i rifugiati sono più di 65 milioni, e la maggior parte di loro non ha come destinazione finale l’Ue: tra i dieci paesi che accolgono di più non ce n’è neanche uno europeo. Recentemente Jan Egeland, segretario generale del Norwegian Refugee Council, Ong che promuove i diritti dei migranti, ha detto ad esempio che “a differenza di quello che si crede normalmente, la maggior parte dei profughi non si sposta verso l’Europa. La verità è che nel 2016 ci sono stati più profughi che hanno cercato rifugio in Uganda ogni giorno di quanti si siano diretti in alcuni dei ricchi paesi europei nel corso dell’intero anno”.
Grandi centri: un ritorno al passato
La proposta di Gabanelli prevede un sistema di grandi centri di accoglienza ad organizzazione pubblica, il cui obiettivo sarebbe quello di togliere la gestione complessiva a “cooperative e associazioni, dove le competenze si improvvisano”, introdurre una “più rigida procedura nell’assegnazione degli appalti con relativa tracciabilità del servizio” ed evitare infiltrazioni della criminalità. In questi centri i migranti dovrebbero restare sei mesi, durante i quali perfezionare l’identificazione, procedere alle pratiche per il ricollocamento, e seguire corsi a frequenza obbligatoria di lingua, educazione alle regole europee e formazione per 8 ore al giorno.
Che il sistema d’accoglienza italiano sia pieno di problemi e che spesso si sia rivelato un buon affare per realtà poco limpide è senz’altro vero. Ma, all’interno della gestione pubblica – che già esiste – ci sono delle differenze che Gabanelli non cita. Se da un lato, infatti, ci sono i Cas, Centri d’accoglienza straordinaria promossi dalle Prefetture che affidano l’accoglienza a soggetti privati (un modello centralizzato a carattere emergenziale e criticato da più parti), dall’altro nell’ultimo decennio sta prendendo sempre più piede il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati Sprar, una rete che fa capo a enti locali e organizzazioni impegnate nella realizzazione di una “accoglienza integrata” e diffusa. Si tratta di strutture più piccole, inserite nel tessuto urbano che prevedono, attraverso la presentazione di un progetto e il monitoraggio di spese e procedure, percorsi personali di inclusione sociale e una responsabilizzazione delle amministrazioni locali. Stando ai dati contenuti nell’ultimo Atlante Sprar, a giugno dello scorso anno il sistema garantiva accoglienza a 26.700 richiedenti asilo e rifugiati in 674 progetti (di cui 109 dedicati a minori non accompagnati e 45 a persone con disagio mentale o disabilita) e coinvolgeva 574 enti locali, per un totale di circa 1200 comuni coinvolti. L’alternativa all’approccio emergenziale, dunque, esiste già. Si tratta solo di implementarla.
Anche un sistema pubblico di “grandi centri” è stato già testato, e con risultati non certo esaltanti. L’esempio più eclatante è costituito dal Cara di Mineo, una struttura sulla cui gestione pesano inchieste giudiziarie e definita in un rapporto di Medici per i diritti umani (Medu) “un modello di accoglienza incompatibile con la dignità della persona”, dove gli ospiti sono “ridotti ad un numero e costretti a lunghe file anche per mangiare e per ricevere cure mediche” e dove la “relazione che si instaura tra operatori e migranti accolti non può che essere squilibrata, con il richiedente asilo costretto in una dimensione passiva e disfunzionale di dipendenza dagli operatori”. Come ricordato da Miraglia di Arci, infatti, a grandi numeri corrisponde una sostanziale mancanza di “autonomia e responsabilità da parte delle persone accolte, che sono semplicemente assistite e non accompagnate verso un processo di emancipazione, qualsiasi sia l’esito della domanda”.
L’accordo con la Libia, il piano Minniti e i “clandestini”
In un articolo di qualche giorno fa in cui spiegava la sua idea, Gabanelli ha elogiato l’operato del ministro dell’Interno Marco Minniti: “Ha firmato accordi con le autorità libiche per fermare i trafficanti di uomini, garantire il pattugliamento delle frontiere, e l’allestimento di campi di accoglienza in Libia dove fare l’identificazione. Sul piatto ha messo 200 milioni, e il sostegno di Bruxelles. Se andrà bene (ce lo auguriamo), si rallenteranno i flussi per un po’, e in Europa l’Italia avrà un altro peso”.
Con il memorandum firmato a febbraio dal governo italiano e da quello di Serraj, il nostro paese sostanzialmente si impegna a fornire strumentazione e sostegno militare e strategico, in cambio di controllo e blocco delle partenze dei migranti da parte della Libia. Secondo l’Asgi, si tratta di un accordo “in totale spregio del diritto di asilo consacrato nella Costituzione italiana e del dovere di rispettare i diritti umani”, firmato con un paese “che non ha ratificato le più fondamentali convenzioni in materia di diritti d’asilo”, e “continua a sottoporre i profughi in fuga a trattamenti disumani e degradanti in centri di detenzione” – come testimoniato da numerosi rapporti e appelli di organizzazioni internazionali. In questo contesto, il fatto che i “campi d’accoglienza” citati da Gabanelli siano “sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico” senza garanzie terze non fa di certo ben sperare. “Rallentare i flussi”, dunque; ma a che prezzo?
La giornalista si è poi espressa sul piano del Viminale, che ha “potenziato le commissioni per il diritto all’asilo per ridurre i tempi di definizione dello status (oggi ci vogliono 2 anni), nei processi ridotto il giudizio di 1° grado, ha istituito piccoli centri di ‘sorveglianza’ per quei 1600 clandestini, il cui rimpatrio forzoso è complesso”.
Questa diminuzione dei tempi di definizione dello status di rifugiato è stata messa in atto sostanzialmente riducendo le garanzie in sede giurisdizionale per i richiedenti asilo, eliminando un grado di giudizio solo per questa categoria di persone. Una scelta che l’Associazione nazionale magistrati (Anm) ha definito “preoccupante”: “Eliminare del tutto la garanzia dell’appello in materia di diritti fondamentali della persona, qual è il diritto alla protezione internazionale, appare obiettivamente disarmonica, ai limiti dell’irragionevolezza, nel quadro di un ordinamento processuale che, come il nostro, prevede tale garanzia per la stragrande maggioranza delle controversie civili, anche di infimo valore patrimoniale o extrapatrimoniale, comprese le impugnazioni delle sanzioni amministrative irrogate per la violazione di un divieto di sosta”.
I “piccoli centri di sorveglianza”, invece, seppur con tutte le (annunciate) differenze del caso, non sono altro che una prosecuzione del fallimentare sistema di detenzione amministrativa che l’Italia ha sperimentato con i Centri di identificazione e di espulsione (Cie) – stagione che, dopo denunce e rapporti, sembrava destinata ad esaurirsi.
Parlando di rimpatri, infine, Gabanelli cita “quei 1600 clandestini”. Si tratta di una parola che – al di là del costante uso fatto da certe parti politiche – è tornata prepotentemente sulla scena proprio in occasione del memorandum con il governo libico, dove ricompare dopo circa due anni di assenza dai documenti ufficiali. Evoca, come spiega l’Associazione Carta di Roma, “l’idea che gli immigrati non siano esseri umani, titolari di diritti, ma nemici da combattere”. E dà il senso di un sostanziale passo indietro.
Foto di copertina: International Federation of Red Cross (CC BY-NC-ND 2.0).