Nell’ambito del progetto “Alternative alla detenzione: verso una gestione efficace e umana della migrazione”, svolto in collaborazione con Progetto Diritti, la Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili (CILD) sta conducendo una serie di approfondimenti con esperti del campo.
Dopo aver intervistato Jerome Phelps che ci ha parlato dell’inefficacia della detenzione nella gestione delle migrazioni, è la volta di Giuseppe Campesi. Professore dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, esperto legale e membro fondatore dell’Osservatorio sulla detenzione amministrativa degli immigrati e l’accoglienza dei richiedenti asilo in Puglia, il Prof. Campesi ci ha fornito un quadro generale sullo sviluppo della detenzione amministrativa in Italia negli anni, sugli aspetti problematici di questo sistema, sulle opportunità nel contesto attuale e sulle possibili alternative.
1. Da quando sono stati aperti nel 1998, i centri di detenzione amministrativa in Italia hanno avuto una storia travagliata. Quali sono stati, secondo lei, i cambiamenti più significativi nell’approccio italiano alla detenzione dei migranti?
La storia della detenzione amministrativa in Italia si può dividere in quattro grandi stagioni: istituzionalizzazione (1998-2010), consolidamento (2011-2012), crisi (2013-2014) e reinvenzione (2015 in poi). Con la fase di istituzionalizzazione viene creata in Italia la detenzione amministrativa attraverso un processo che gli studiosi chiamano policy transfer, cioè il trasferimento di uno strumento politico da paesi in cui è in uso da tempo ad altri in cui non esiste. Il 1998 è un anno cruciale: l’Italia era stata da poco ammessa nello spazio di libera circolazione. Uno dei requisiti per l’ammissione era quello di rafforzare le misure di contrasto dell’immigrazione irregolare e tra gli strumenti che fanno parte dell’acquis Schengen c’è anche la cosiddetta pre-removal detention, ovvero la detenzione in vista dell’espulsione. L’Italia, seppur riluttante, si trova perciò costretta ad adottare la detenzione amministrativa; è una misura che stride con il quadro costituzionale italiano, viene subito denunciata come uno scandalo giuridico e suscita molte polemiche. L’Italia recepisce però le pressioni europee e adotta la pre-removal detention con un approccio simile a quello francese, più garantista rispetto ad altri, soprattutto per quanto riguarda limiti temporali bassi. All’inizio infatti il termine massimo di detenzione è di 30 giorni. Il sistema poi comincia a espandersi, vengono aperti nuovi centri e si allunga il periodo massimo di detenzione. Il termine massimo sale quindi a 60 giorni con la legge Bossi-Fini, nel 2002, per essere infine esteso a 180 giorni con il cosiddetto “decreto sicurezza” del 2009. È un momento di grande espansione per la detenzione amministrativa in Italia: ci sono 13 centri di detenzione, 1.700 posti letto e termini massimi di trattenimento molto alti. Ed è in questo contesto che l’Italia si appresta, nel 2010, a recepire nel suo ordinamento la famigerata Direttiva Rimpatri (approvata già nel 2008).
L’Italia recepisce infine la Direttiva nel 2011 in un contesto particolare. Ancora una volta è un governo Berlusconi, ma siamo ora nel pieno della crisi economica e l’ostilità nei confronti degli immigrati è crescente. Il governo quindi convoglia verso di loro il risentimento della popolazione sfruttando tutto il potenziale repressivo della Direttiva Rimpatri, che si dimostra uno strumento ambivalente. Se da un lato introduce delle misure di garanzia che effettivamente possono migliorare il modello regolativo della detenzione amministrativa nei paesi meno garantisti, dall’altro offre la possibilità di rendere questa misura ancora più afflittiva. Porta infatti a 18 mesi il termine massimo per la detenzione di migranti in via di espulsione, un termine massimo esorbitante rispetto alle norme allora vigenti in paesi come l’Italia stessa, la Francia e la Spagna. Tra il 2011 e il 2012, il sistema italiano si è ormai consolidato: ci sono oltre 10 centri attivi, quasi 2.000 posti letto e il termine massimo di 18 mesi di detenzione. È il culmine della fase di espansione della detenzione amministrativa.
Comincia poi una stagione più complessa e di crisi per la detenzione amministrativa nel nostro paese. Non solo cambia il colore politico del governo in carica, quindi l’approccio alla questione, ma cambia anche il quadro strutturale generale. Dal periodo della crisi economica in poi, l’Italia entra in una fase di sostanziale contro-transizione migratoria, cioè comincia ad essere un paese che non è più così attrattivo per i migranti. Crolla il numero di ingressi per motivi di lavoro e per ricongiungimenti familiari e decresce notevolmente anche il numero di migranti irregolari. La questione della detenzione amministrativa per implementare la politica di rimpatrio degli irregolari comincia perciò ad essere percepita come meno urgente ed esce progressivamente dal dibattito politico. Il tema centrale diventa invece quello delle condizioni di detenzione e della compatibilità con i diritti fondamentali dei migranti. È la stagione delle rivolte (ad es. la ‘protesta delle bocche cucite’ del Cie di Ponte Galeria, l’attuale CPR di Roma), un periodo in cui comincia ad affacciarsi nel dibattito pubblico l’idea che tale misura sia disumana. Dopo il grave naufragio di Lampedusa, nell’ottobre 2013, l’Italia lancia Mare Nostrum, una grande operazione di salvataggio in mare, che non ha precedenti nella storia di politiche migratorie europee quanto a risorse messe in campo. Si accarezza addirittura l’idea di chiudere i centri di detenzione dei migranti. Il governo resiste e decide che l’Italia non si può privare di questo strumento, anche per obblighi europei. Sostanzialmente disinveste però nella detenzione amministrativa. Nel novembre del 2014 viene introdotta una riforma che dimezza i termini massimi di detenzione, portandoli a 90 giorni, e vengono chiusi molti centri (ne restano aperti solo 5), anche a causa dei costi che cominciano ad essere insostenibili. Il governo si rende conto della difficoltà di gestione di queste strutture e quindi comincia a metterle in discussione dal punto di vista dei costi-benefici. Si nota infatti che in grandi centri detentivi (ad es. Ponte Galeria e Bari) è difficile mantenere l’ordine, le numerose rivolte causano frequenti danneggiamenti e addirittura la chiusura degli stessi.
Con la cosiddetta ‘crisi dei rifugiati’ del 2015 lo scenario cambia e l’Italia si trova a subire nuovamente pressioni da partner europei; la Commissione europea chiede esplicitamente di innalzare i termini massimi di detenzione e di riportare la capacità del sistema detentivo ai livelli precedenti al 2013. Con lo scopo di potenziare il sistema dei centri per migranti, la Commissione traccia due obiettivi fondamentali: contenere i movimenti secondari dei migranti irregolari che sbarcano sulle coste italiane e greche e attuare una politica di rimpatrio efficace di tutte le persone a cui è rifiutata la protezione internazionale. L’Italia viene quindi indotta a riattivare molti dei centri che erano stati chiusi e ad aprirne di nuovi (ad es. CPR Palazzo San Gervasio a Potenza). Inoltre, viene di fatto invitata a trasformare anche quelli che erano i centri di primissima accoglienza, i cosiddetti hotspot, in strutture di contenimento in cui è possibile esercitare un controllo abbastanza stringente su chi sbarca. Contrariamente alla Grecia, l’Italia non sposa mai questa politica di detenzione di massa dei migranti in arrivo via mare. Emerge però una linea di tendenza sulla scia delle indicazioni della Commissione che porta alla reinvenzione del sistema di detenzione amministrativa, prima con il Ministro Minniti, poi con il Ministro Salvini e l’attuale Ministra Lamorgese. A partire dal 2015, infatti, il termine massimo di detenzione viene innalzato gradualmente, i casi in cui è possibile trattenere in detenzione i richiedenti asilo vengono ampliati e si prevede la possibilità di creare zone dedicate alla detenzione anche negli hotspot per coloro che non sono ancora stati identificati o che rifiutano di farsi fotosegnalare. Si mette perciò in moto un processo evolutivo che potrebbe portare verso una cooptazione del sistema di prima accoglienza nel sistema detentivo. In quest’ultima fase si torna quindi a investire nella detenzione amministrativa; attualmente le strutture aperte sono 7 e i termini massimi di detenzione sono 180 giorni, con l’eccezione di richiedenti asilo considerati pericolosi o a rischio di fuga che possono essere trattenuti in detenzione fino a 12 mesi.
2. I CPR sono dei contesti un po’ grigi sui quali spesso non è facile reperire informazioni. Può raccontarci le sue esperienze in occasione delle visite ai CPR (all’epoca Cie) di Bari Palese e Brindisi Restinco?
Caduto il governo Berlusconi alla fine del 2011, dopo un periodo di sostanziale inaccessibilità di questi luoghi da parte della società civile, la nuova Ministra degli Interni Cancellieri apre l’accesso ai centri di detenzione dei migranti a giornalisti e studiosi. Sono di questo periodo ad esempio numerosi reportage e inchieste. Quello che emerge è un paradosso: le condizioni di detenzione amministrativa sono decisamente peggiori rispetto alle condizioni di detenzione di qualsiasi istituto penitenziario. Gli istituti penitenziari sono notoriamente più affollati, ospitano molte più persone e hanno pochi metri quadri a disposizione per persona. Eppure, il clima di tensione e di disagio che si percepisce è nettamente più elevato nei centri di detenzione per i migranti, che sono strutture molto più complesse da gestire, per diversi motivi.
Innanzitutto, sono da considerare alcuni elementi di natura strutturale. Il sistema penitenziario è meglio governabile; si basa su un insieme di regole, diritti e doveri meglio definiti e si avvale di professionalità specificamente formate per questo tipo di contesto. Nei centri di detenzione per migranti la situazione è completamente diversa. Con un bando della prefettura, queste strutture vengono affidate a cooperative e organizzazioni che spesso non hanno nessuna esperienza nella gestione di luoghi della detenzione. Sono perciò organizzazioni che vivono anche una forte contraddizione tra la loro vocazione assistenziale e umanitaria, trovandosi a dover gestire luoghi di compressione di diritti e coercizione. Il controllo dell’ordine pubblico di questi centri è affidato inoltre alle questure e non ad un corpo di polizia specializzato e formato specificatamente per la gestione di persone in stato di detenzione. La polizia di stato, con il supporto di altre forze (militari e carabinieri), si trova quindi a dover far fronte ad una situazione per la quale non è preparata. L’approccio che utilizza è simile a quello della gestione dell’ordine pubblico nelle manifestazioni di massa, limitandosi a intervenire quando la situazione degenera. Non c’è un vero e proprio governo delle relazioni con e tra le persone trattenute, che sono sostanzialmente abbandonate a loro stesse.
Poi c’è anche un problema di percezione psicologica. Il migrante è privato della libertà personale per ragioni amministrative, senza di fatto avere violato la legge penale. Percepisce tale forma di privazione della libertà personale come una forma di ingiustizia. Non comprende in genere la natura del provvedimento di trattenimento e tende a confonderlo con una punizione non meritata, perché appunto non legata alla violazione della legge penale. È un paradosso giuridico quello di privare della libertà qualcuno con una misura che assomiglia molto alle misure di carattere punitivo che però è adottata al di fuori del contesto istituzionale della giustizia penale. Questo paradosso giuridico porta ad un aumento della conflittualità all’interno delle strutture. È particolarmente problematica la situazione dei migranti che escono dai penitenziari e vengono trasferiti in un centro di espulsione; non accettano infatti questo ulteriore prolungamento del periodo detentivo ritenendo di aver già scontato la pena per il reato commesso e lo percepiscono come un’afflizione ingiustificata e incomprensibile. Ciò fa sì che proprio tale categoria sia particolarmente conflittuale e che manifesti disagi maggiori (ad es. atti di autolesionismo e di violenza contro i luoghi o contro altri detenuti).
3. È molto interessante il concetto di “detenzione della pericolosità migrante” di cui lei e la prof.ssa Fabini trattate in questo articolo del 2017. Può dirci qualcosa in proposito?
L’articolo è il frutto di una più ampia ricerca svolta in collaborazione con varie università (capofila la prof.ssa Rigo dell’Università di Roma Tre) e che si focalizza sulle attività dei giudici di pace, ossia le autorità che devono convalidare i provvedimenti o le proroghe di trattenimento. Analizzando le giustificazioni alla base di questi provvedimenti, avevamo notato una tendenza a utilizzare la detenzione amministrativa selettivamente. La nostra ricerca sembrava dimostrare che l’obiettivo perseguito dalle forze di polizia e dai giudici di pace non fosse quello di espellere tutti i migranti irregolari presenti sul territorio (sia perché impraticabile per i limiti della politica di espulsione, sia perché c’è bisogno economicamente della presenza di migranti irregolari), ma quello di gestire l’irregolarità. Ci sembrava infatti che polizia e giudici di pace ricorressero agli strumenti che la politica di rimpatrio offre (detenzione ed espulsione) per neutralizzare per un certo periodo di tempo quelle fasce di immigrati irregolari che vengono descritti o percepiti come pericolosi in un determinato contesto territoriale. Questi strumenti venivano perciò utilizzati del tutto indipendentemente dalla effettiva possibilità di espellere qualcuno; più che strumenti di politica migratoria, sembravano strumenti di difesa sociale.
Il concetto della ‘difesa sociale’ ha una storia molto specifica nella teoria criminologica e nella dottrina penalistica. In breve, esso si riferisce all’idea che le autorità di controllo sociale possano limitare la libertà di qualcuno sulla base della presunzione che tale individuo sia pericoloso, perché coinvolto in attività criminali. Non è necessaria una prova definitiva, basta il sospetto, ma nel contesto del sistema penale l’adozione di misure di difesa sociale richiede comunque qualche evidenza. Diversamente, il nostro diritto dell’immigrazione permette di privare qualcuno della libertà personale senza dover portare prove particolarmente solide della sua pericolosità. Si può dunque adottare una misura di neutralizzazione della supposta pericolosità di un determinato soggetto sfruttando l’irregolarità del suo status giuridico con l’idea di allontanarlo dall’ambiente in cui la sua presenza è ritenuta problematica. In quest’ottica, la detenzione amministrativa ci è parsa un surrogato delle misure di difesa sociale previste dal sistema penale a basso costo di risorse investigative.
La ricerca è stata svolta sulla base di dati del 2015-2016, un periodo in cui c’erano effettivamente pochi centri di detenzione aperti. È probabile che all’epoca l’indicazione fosse proprio quella di adottare un approccio selettivo all’uso della detenzione, utilizzandola come uno strumento per neutralizzare i migranti ritenuti particolarmente pericolosi. Presentando il celeberrimo Decreto Minniti nel 2017, l’omonimo Ministro annunciava infatti che i CPR sarebbero stati diversi dai CIE in quanto sarebbero stati utilizzati per coloro che potevano costituire un pericolo per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. L’approccio di Salvini invece è stato diverso. Se fosse rimasto in carica, saremmo probabilmente passati da una politica di detenzione selettiva a una politica di detenzione di massa di tutti coloro che sbarcano. Gli stessi centri di prima accoglienza sarebbero diventati enormi luoghi di detenzione. Il nostro argomento di detenzione come strumento di difesa sociale di alcuni migranti irregolari (non per espellerli, ma per neutralizzarli) vale in particolare per un certo periodo della storia della detenzione amministrativa in Italia. Forse vale un po’ meno per spiegare l’approccio di un ministro come Salvini.
4. Durante l’emergenza sanitaria, il numero di persone trattenute nei CPR è diminuito considerevolmente (da 425 il 12 marzo a 178 il 31 maggio 2020) senza conseguenze per l’ordine pubblico. In che modo questo fatto può diventare un precedente?
Auspicabilmente questo deve diventare un precedente vista l’assoluta inefficacia della detenzione amministrativa dal punto di vista del rimpatrio. Per assicurarsi che una persona non faccia perdere le proprie tracce nelle more dell’esecuzione del provvedimento di espulsione assunto nei suoi confronti, ci sono infatti moltissime alternative meno afflittive e più valide in termini di efficacia e di rapporto costi-benefici, oltre che per ragioni di natura umanitaria.
Il problema è che sulle misure alternative non si è mai investito nel nostro paese, sono rimaste sostanzialmente carta bianca. Sono sì previste dalla Direttiva Rimpatri e dal nostro ordinamento, ma vengono praticate molto poco. La sensazione che studiosi e militanti hanno è che il ricorso ad una misura afflittiva ha un’efficacia non solo di difesa sociale, ma anche simbolica. Serve infatti a veicolare il messaggio all’opinione pubblica che il governo si sta impegnando per controllare l’immigrazione irregolare e a riaffermare simbolicamente la capacità di controllo dello stato stesso. Quindi anche quando si è accarezzata l’idea di eliminare i centri di detenzione, di fronte a tutti gli argomenti lucidissimi presentati dal punto di vista dell’analisi costi-benefici, l’obiezione definitiva che veniva sollevata è che lo stato deve controllare l’immigrazione irregolare e la presenza di queste strutture ha una potente carica simbolica, rappresenta l’autorità dello stato. Costituisce un esercizio di re-bordering, ossia di riaffermazione dell’autorità dello stato e della sua capacità di controllare i propri confini. Pertanto, sebbene l’inefficacia della detenzione amministrativa sia più che evidente, uno dei motivi principali che rende impensabile rinunciare a questo strumento è proprio la sua importanza simbolica.
5. Nell’attuale contesto politico e sociale del nostro paese, quali sono secondo lei le possibili alternative, non restrittive, alla detenzione dei migranti?
Decenni di ricerca in materia di politiche migratorie hanno dimostrato che quanto più restrittiva è la politica migratoria adottata da un determinato paese di destinazione, tanto minori sono le possibilità di migrazione legale, e tanto più sarà difficile per quel paese la possibilità di implementare una politica effettiva di rimpatrio. Politiche restrittive in materia di controllo di confini hanno infatti un’efficacia negativa sulle politiche di rimpatrio perché il migrante che vede fallire il suo progetto migratorio, anche se si è svolto in maniera non regolare, opporrà resistenza in ogni modo a qualsiasi tentativo di rimpatrio, fino a quando non vedrà la possibilità di una seconda chance in un futuro più o meno prossimo e in condizioni diverse.
In un contesto in cui le politiche sono estremamente restrittive, come in Italia (dove all’adozione di provvedimenti di espulsione seguono anche divieti di reingresso molto lunghi, anche di 5-10 anni), non saremo mai in grado di ottenere la collaborazione dei migranti che subiscono un provvedimento di espulsione, i quali si aggrapperanno con ogni forza al loro progetto migratorio resistendo ai tentativi di rimpatrio. D’altra parte è ben noto che i paesi terzi hanno pochi incentivi a collaborare alla nostra politica di rimpatrio, perché evidentemente le rimesse degli immigrati costituiscono una fetta molto significativa del loro prodotto interno lordo. Non c’è quindi forma di cooperazione che i paesi europei possano offrire ad un paese qualsiasi di origine dei migranti che sia paragonabile in termini di incentivi e di peso alle rimesse. La loro collaborazione sul piano delle politiche di rimpatrio sarà sempre esigua.
L’apertura all’immigrazione legale e l’eliminazione di molte delle misure associate a ordini di rimpatrio (ad es. divieti di reingresso) sono provvedimenti che sembrano diminuire l’efficacia della politica di rimpatrio, perché ne riducono la capacità coercitiva e l’efficacia deterrente. Paradossalmente però la renderebbero più efficace, perché stimolerebbero la cooperazione dei migranti interessati dai provvedimenti di espulsione. Una politica di rimpatrio che si basa sull’uso di strumenti coercitivi, come detenzione o alternative limitative, è destinata a fallire nella misura in cui ai migranti non viene offerto un orizzonte di possibilità. Disincentiva infatti i migranti a collaborare e stimola la loro resistenza alla macchina delle espulsioni, che a volte si manifesta in maniera particolarmente violenta nei gesti disperati di chi si trova in detenzione. L’unica strada per un’efficace politica di rimpatrio perciò è quella di cercare e di stimolare la cooperazione dei migranti.
Il tentativo di coinvolgere il migrante in un percorso di rimpatrio volontario, mediante l’adozione di alternative alla detenzione non coercitive, è assolutamente una strada da perseguire. Tale prassi deve essere però inserita in un quadro macro politico più ampio e di politica migratoria più liberale. Nel quadro attuale di una politica migratoria sostanzialmente restrittiva anche questi strumenti sono destinati a non avere grandissima efficacia. Solo se qualcuno ha “metabolizzato” il fallimento del progetto migratorio, un pacchetto di aiuti per il proprio reinsediamento nel paese di origine può funzionare. Se invece il migrante non vede prospettive per se stesso nel paese d’origine, l’unica alternativa è offrirgli la possibilità di ritentare il percorso in qualche altra maniera. Quando si espelle qualcuno con la forza aggiungendo un divieto di ingresso così lungo, gli si sta togliendo ogni speranza, quella persona quindi difficilmente collaborerà. In generale, quindi, tanto più “porose” sono le frontiere, tanto più è efficace la politica di rimpatrio; tanto più chiuso ermeticamente sarà il confine, tanto più complicato sarà attuare un’efficace politica di rimpatrio.
Foto di copertina: immagine tratta dal video “Turin CIE Report Chronicle of a Two Years Long Academic Research” realizzato da Manuel Coser.